10) monografico: Seneca: Flashcards

1
Q

biografia:

A

Seneca cresce e vive in un contesto in cui l’oratoria e la retorica non hanno le loro originarie funzioni.

Nel 39 Caligola vuole condannare a morte Seneca, forse per invidia verso il suo successo oratorio.

Di Caligola è la definizione “arena sine calce” dello stile di Seneca, piuttosto paratattico e slegato.
Fra il 41 e il 49 è esiliato in Corsica da Claudio, viene richiamato a Roma come precettore di Nerone.

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2
Q

differenza fra dialoghi e trattati:

A

Differenza fra dialoghi e trattati è l’ampiezza: i secondi sono piuttosto estesi, mentre i primi più brevi
(tranne il De ira).

I dialoghi hanno difficilissima datazione a causa della mancanza di elementi che ce la indichino, sia interni che esterni, ma apparterrebbero alla prima parte della produzione di Seneca, dagli anni 40, gli anni dell’esilio, fino al 62, anno del suo ritiro.

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3
Q

il rapporto col lettore:

A

Un aspetto trasversale a tutta l’opera filosofica senecana è la presenza di un rapporto allocutivo con il destinatario e in generale tutti i lettori.

Questo perché fra i seguaci dell’epicureismo, corrente filosofica inizialmente seguita da Seneca, deve esistere un rapporto di amicizia, di ricerca e riflessione congiunta.

La concezione del “sapiens” che considera Seneca si rifà allo stoicismo più tardo, diverso però rispetto allo stoicismo intransigente che si volgeva senza mezze misure all’atarassia e all’apatia. Nel secondo periodo invece abbiamo una maggiore indulgenza e un concetto di tensione verso la perfezione, che però non è assolutamente raggiungibile.

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4
Q

stile di Seneca:

A

Lo stile di Seneca è definito drammatico perché è lo stile dell’anima in lotta con se stessa, una definizione sicuramente proveniente da un’ottica esistenzialista.

Traina definisce lo stile di Seneca drammatico in senso etimologico, quindi caratterizzato da una tensione continua tra due poli antitetici: uno stile dinamico dato dalla mediazione fra linguaggio dell’interiorità, cioè la cella, e quello dell’esteriorità, cioè il pulpito.

L’interiorità è un aspetto molto centrale a causa del contesto storico-politico: siamo nei primi (ma non primissimi) anni del principato, in cui si sono già mostrati i limiti e le derive autoritarie di questo potere. Il cittadino non ha più un ruolo in una società strutturata e gerarchicamente organizzata, com’era invece durante la repubblica.

Subentra la consapevolezza di non poter cambiare il mondo, ed è per questo che è necessario cambiare se stessi.

Si diffonde in questo contesto anche il cosmopolitismo.

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5
Q

il linguaggio di Seneca:

A

Il linguaggio è creato da Seneca ex novo, dato che – come è stato lamentato già da altri autori precedenti – il latino non possiede di per sé una lingua filosofica. Per esempio il latino non possiede l’articolo, che permette di rendere concreti i sostantivi astratti.

La base del potere economico e politico a Roma è il possesso terriero, cosa che ha sempre mantenuto il linguaggio molto ancorato al reale; inoltre il latino è una lingua molto refrattaria alla composizione nominale, al contrario del
greco, che è invece ricco di questi composti; inoltre non si hanno centri filosofici originali, ma solo filosofia di importazione.

Si parla in particolare di lingua dell’interiorità e lingua della predicazione.

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6
Q

la lingua dell’interiorità:

A

A differenza dei suoi predecessori Seneca ha la necessità di creare una lingua dell’interiorità, che diventa elemento fondamentale della sua ricerca.

Da un lato usa in maniera traslata termini concreti, prendendoli da linguaggi tecnici, e usandone i termini in maniera metaforica, come il lessico giuridico, economico, bellico, della navigazione.
I primi due sono fondamentali perché da quello giuridico riprende il concetto di suus esse e alienus esse, quindi fra ciò che è proprio (come l’interiorità) e ciò che non lo è. Per esempio nell’incipit delle epistole Seneca esorta Lucilio a vindicare se sibi, usando un verbo tipico del lessico economico, che indica qualcosa che ci è indebitamente sottratto.

L’uso del riflessivo è ugualmente tipico di questo linguaggio, grande innovazione sintattica introdotta da Seneca: a livello di desinenze il latino infatti non distingue la forma media da quella passiva, perché nell’idea del riflessivo entra anche quella del passivo, del soggetto che non agisce attivamente, un’azione su cui non ha presa. Seneca invece usa il riflessivo perifrastico, quindi espresso tramite pronome riflessivo, esplicitando molto meglio il concetto della riflessività.

È un elemento che avrà grande successo nella letteratura successiva.

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7
Q

la lingua della predicazione:

A

In Seneca c’è una circolarità fra disco e doceo:
* disco è associato all’interiorità, quindi al lavoro fatto su di sé per migliorarsi
* doceo indica l’usare come insegnamento per altri quello che si è imparato su di sé.

Lo stile di Seneca è ricco di sententiae, con una riduzione al minimo degli elementi per massimizzare il significato. Entrano in gioco in questo stile è un cambiamento d’ordine storico politico: se in età repubblicana ancora prevale largamente il gusto ipotattico, ed è specchio di quell’ordine, di quella struttura repubblicana che ancora sopravvive, nel principato questo è mutato.

Non a caso negli autori di periodo imperiale questa frustrazione del rovesciamento repubblicano si esplicita in questo stile.

In Seneca si trovano principalmente figure di antitesi e ripetizione, soprattutto la correctio, che può essere avversativa (non x sed y), asindetica (non x, y) oppure con immo correttivo (non x, immo y).

La presenza ampia delle figure di ripetizione è data dalla scelta della paratassi: nonostante l’eliminazione dei connettori ipotattici, il testo necessita comunque della sua coesione interna, ed è per questo che Seneca utilizza soprattutto ripetizioni anaforiche, come tricolon, tetracolon etc., con ordine tendenzialmente anticlassico, quindi non dal più breve al più lungo, ma il contrario.

Il ritmo infatti funziona anche inserendo quella brusca interruzione della serie. Usato anche il fulmen in clausula ( = alla conclusione a effetto o a sorpresa).

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8
Q

la Consolatio ad Marciam:

A

La Consolatio ad Marciam è stata probabilmente composta durante il principato di Caligola, fra il 37 e il 41.

Questo ci viene indicato dal fatto che Marcia è figlia di Cremuzio Cordo, storiografo morto durante il principato di Tiberio perché accusato di lesa maestà, a causa della sua opera storiografica in cui trattava dell’ultima parte della repubblica (dal secondo triumvirato al principato di Augusto), elogiando i cesaricidi ed idealizzando Cicerone.

Scelse di lasciarsi morire per digiuno, e le sue opere vennero distrutte. Nel primo capitolo dell’opera Seneca ricorda questo fatto, e afferma che Marcia aveva tenute nascoste delle opere del padre, permettendone la circolazione in un momento più favorevole, proprio durante il principato di Caligola, che aveva riabilitato la memoria di Cordo, oltre che di altri oppositori di Claudio.

Successivamente Seneca non parla mai del proprio esilio, anche quando sarebbe opportuno o favorevole farlo, quindi questo non sarebbe ancora avvenuto. Presentissimo invece è nelle altre due consolationes.
Non ci sono poi critiche a Caligola, anche questo ampiamente fatto dopo la sua morte.

Marcia era imparentata con i Giulio Claudi, e viene consolata per la morte del figlio Metilio in giovane età. Il figlio (come dice esplicitamente Seneca) era morto da tre anni, ma Marcia non riusciva a porre fine al proprio lutto.

Il concetto di fondo è un elemento trasversale a tutte le opere di Seneca, ed è la metrio patea, ovvero il porre una misura alla sofferenza. Per gli stoici, soprattutto quelli della prima ondata, l’obiettivo era l’apatheia, ovvero la mancanza di dolore, sicuramente molto difficile da raggiungere. Di qui la necessità di attenuare la cosa.

Marcia viene elogiata per il suo onorare il ricordo del padre, facendo riprendere la circolazione delle sue opere con Caligola. La figura del padre ritorna alla fine dell’opera.

L’ultimo argomento che Seneca usa è di ascendenza platonica, ovvero l’immortalità dell’anima, per la quale il corpo è solo una prigione.

Per questo l’anima ha desiderio di tornare al cielo, da cui discende (si noti la posizione concorde con quella degli stoici). Nella prospettiva stoica le anime sono sì immortali, ma soggette comunque a cicliche distruzioni e rinascite (fenomeno che prende il nome di ekpyrosis), mentre in Platone si hanno le reincarnazioni.

Per Seneca la morte è una fine o un passaggio. L’alternativa socratica è che l’anima sia distrutta.
Ciò che è davvero consolatorio è che questa è una sorte collettiva e comune a tutto il mondo.

Ad accogliere il figlio sono Scipiones Catonesque, quindi gli Scipioni e i Catoni, fra cui anche Catone Uticense, che rappresenta l’emblema del suicidio stoico.

Quest’ultimo è un dettaglio importante perché anche Cremuzio Cordo si era suicidato, e sarà educatore di Metilio in questa descrizione che l’autore fa del luogo in cui si raccolgono le anime dei defunti.

Nell’ultima parte del capitolo 25 si percepisce la ripresa della frammentazione che separa i luoghi della terra, e che in questo oltretomba positivo non esiste. Viene poco dopo introdotta una scena a 3 simile a quella del Somnium Scipionis.

Anche il tema di mescolarsi con le stelle anticipa la fusione nell’uno.
Alla fine dell’opera abbiamo l’uso della prosopopea.

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9
Q

differenza principale fra terra e cielo:

A

Nel cielo non c’è nulla di oscuro o di nascosto, tutto è chiaro, non c’è nulla di cui aver vergogna, ed è possibile scorgere il futuro.

Cremuzio Cordo introduce un altro elemento tipico dello stoicismo, ovvero la capacità di vedere il futuro da parte delle anime.

L’anima liberata dai vincoli del corpo infatti acquisisce capacità profetica. In questo momento Cremuzio Cordo riconosce la limitatezza della sua opera sulla crisi della repubblica, che copre un solo secolo, una sola generazione in uno dei punti più remoti dell’universo.

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10
Q

come finisce il capitolo?

A

Il paragrafo nella parte finale descrive, con frasi brevi dal ritmo incalzante e concitato, il momento della distruzione cosmica: terremoti, inondazioni, incendi, pestilenze (si noti che ognuno coinvolge uno dei 4 elementi alla base della teoria aristotelica). Dei terremoti Seneca parla anche nel 6° libro delle Naturales quaestiones, dove ricorda che spesso i terremoti siano associati alle pestilenze;
ipotizza inoltre che sotto la superficie terrestre esistano stagni, paludi e cavità, che coi loro miasmi tipici dell’acqua stagnante siano responsabili del cattivo odore che fuoriesce in superficie dalle spaccature della terra.

La distruzione volta alla successiva rigenerazione è chiamata palingenesi. Anche le anime si trasformeranno negli elementi primari che serviranno alla palingenesi.

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11
Q

le tragedie di Seneca:

A

Seneca scrive 8 tragedie, più due spurie Hercules Oetalus e Octavia: probabilmente opera di un autore vissuto in età flavia, le due tragedie furono attribuite a Seneca per ragioni di stile.

L’Hercules
è estremamente lungo ed è una sorta di summa di varie tragedie di Seneca, mentre l’Octavia è l’unica praetexta, con contenuto storico e che narra l’uccisione di Ottavia, la prima moglie di Nerone
(ma Seneca è un personaggio stesso della tragedia, quindi è inverosimile che sia stata scritta da lui).

Le tragedie autentiche comunque non possono essere datate con certezza, a causa di mancanza di elementi interni che siano utili in tal senso.

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12
Q

i modelli delle tragedie di Seneca:

A

I modelli utilizzati da Seneca comprendono sia la tragedia greca che quella latina arcaica, anche se
dei suoi modelli spesso ci rimangono solo frammenti.

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13
Q

i temi delle tragedie:

A

Raffrontando la produzione teatrale di Seneca con la sua produzione filosofica notiamo:
- il tema delle passioni violente, soprattutto l’ira, molto presente
- il rapporto tra l’individuo e il destino: per gli stoici come Seneca il destino è riflesso del logos
ed è dunque provvidenziale e – in ultima istanza – benevolo. Seneca comunque polemizza con questo concetto e pone il problema con la storia di Edipo
- il rapporto col potere, e del potere i limiti, le esagerazioni e la figura del tiranno, soprattutto
nel Tieste
- il tema della specularità fra microcosmo e macrocosmo, quindi rispettivamente fra
uomo/individuo e natura/società
- lo scavo psicologico, soprattutto rispetto ai modelli greci

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14
Q

lo stile:

A

Ciò che Seneca lascia alla letteratura che lo segue è sicuramente il gusto per il macabro e per l’orrido
(si pensi ai riti di evocazione di spiriti e morti) e lo scavo psicologico dell’animo umano.

Inoltre
rimane caratterizzante l’enfasi sull’elemento patetico e drammatico, oltre che lo stile declamatorio.

Proprio per gli elementi macabri e la natura letteraria, si pensa che queste tragedie non fossero pensate per essere davvero messe in scena, ma per essere lette ad un pubblico. Si tratta comunque
di semplici ipotesi.

Lo stile usato da Seneca comprende una metrica moderna e regolare, influenzata sia dalla tradizione augustea che soprattutto dalla regolarizzazione attuata da Orazio nelle sue Odi.

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15
Q

il mito di Edipo:

A

Laio, re di Tebe, ha appreso da un oracolo che sarà ucciso dal figlio che avrà dalla moglie Giocasta. Così, quando Edipo nasce, lo affida a un servo perché lo elimini.

Ma il servo ne ha pietà e lo espone sul Monte Citerone. Qui il neonato è raccolto da un pastore e portato a Polibo, re di Corinto, il quale lo alleva facendogli credere di essere il proprio figlio.

Un giorno, però, alcune voci insospettiscono Edipo, che si reca a Delfi per sapere dall’oracolo chi sia realmente suo padre.

L’oracolo non risponde alla sua domanda, ma gli predice che ucciderà il padre e sposerà la madre. Inorridito, e convinto che i suoi genitori siano Polibo e sua moglie, Edipo fugge via da Corinto.

Intanto Tebe è funestata dal flagello della Sfinge: un mostro alato con volto di donna e petto, zampe e coda di leone, che pone indovinelli ai passanti e divora coloro che non sanno rispondere. L’eroe risolve l’enigma che la Sfinge gli propone. L’eliminazione della Sfinge gli vale il trono di Tebe e la mano di Giocasta, rimasta vedova di Laio.

Con Giocasta Edipo genera Eteocle, Polinice, Antigone, Ismene. Diventa un signore potente e onorato. Ma una terribile pestilenza si abbatte su Tebe: l’oracolo di Delfi fa sapere che essa non cesserà finché non sarà scoperto e punito l’uccisore di Laio. Edipo non sa che il colpevole è proprio lui e giura ai Tebani che l’assassino sarà punito severamente.

Viene interrogato il vecchio indovino Tiresia, il quale preferirebbe tacere. Ma quando Edipo lo minaccia è costretto a indicare proprio in lui l’assassino che egli cerca. Edipo però non gli crede, e sospetta che Tiresia stia tramando con Creonte, fratello di Giocasta, per togliergli il trono.

Quando, però, Edipo apprende da Giocasta i particolari sull’uccisione di Laio, comincia a sentirsi inquieto per la somiglianza con l’episodio capitatogli tempo addietro. Manda allora a chiamare il vecchio servo che era scampato alla strage.

Nel frattempo giunge da Corinto un vecchio messaggero ad annunciare la morte di Polibo. Edipo si rincuora pensando che l’oracolo che gli prediceva l’assassinio di suo padre non si è avverato. Senonché il messaggero/pastore gli rivela che Polibo non era in realtà suo padre: egli stesso, anni prima, lo aveva raccolto sul Citerone. A questo punto Giocasta comprende la verità e, sconvolta, si ritira nella reggia.

Quando arriva il vecchio servo di Laio e si viene a sapere che proprio lui aveva esposto il figlio del re sul Citerone, la verità emerge in tutta la sua crudezza. Giunge intanto la notizia che Giocasta si è impiccata.

Edipo rientra nel palazzo e si acceca. Ne esce con le orbite insanguinate. Con la sua presenza e i suoi orrori ha contaminato Tebe: andrà via in esilio, accompagnato dalla figlia Antigone.

L’esilio e la vita di Edipo, ormai cieco e stanco, hanno termine a Colono, nella campagna vicino alla città di Atene. Qui Edipo, richiamato da una voce misteriosa e dal rombo di un tuono, si addentra nel bosco delle dee Eumenidi.

Il suo corpo non sarà ritrovato. Sarà venerato come un eroe.

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16
Q

chi altro narra il mito?

A

Nella storia di Edipo si trovano parricidio, incesto e suicidio (di Giocasta).

Per quanto riguarda la tragedia latina arcaica, il mito di Edipo non venne utilizzato, Cesare scrisse probabilmente un Edipo di cui però venne vietata la circolazione da Augusto; Nerone amava impersonare il personaggio di Edipo per mostrare le colpe di cui era macchiato.

Sul mito di Edipo Eschilo scrive una trilogia, che segue le vicende di Laio (Laio) di Edipo (Edipo) e di Eteocle e Polinice (Sette contro Tebe). In questa trilogia il tragediografo greco riflette sui meccanismi di vendetta all’interno del γένος.
Anche Sofocle dedica una tragedia ad Edipo, l’Edipo re, inserita all’interno della trilogia Edipo re, Edipo a Colono e Antigone. È proprio alla versione di Sofocle che Seneca si riallaccia.

17
Q

il prologo:

A

Già nel prologo si notano due elementi tipici del teatro Sofocleo:
- il riferimento all’oracolo di Apollo ricevuto da Edipo quando era ancora giovane (presente anche in Sofocle, ma più avanti nell’opera)
- il tema della peste. Questo è costruito a partire dal modello di tre grandi pesti letterarie: la peste di Atene descritta da Tucidide, la peste nell’Iliade e la peste del Norico, descritta alla fine del III libro delle Georgiche. Si nota in questo il sopracitato gusto per l’orrido e la capacità e la prospettiva stoica: la peste infatti è metafora del morbo sociale che affligge la polis.

La storia di Edipo, costretto a uccidere il padre e giacere con la madre, diventa trampolino anche per la riflessione sull’ineluttabilità del destino segnato dalla provvidenza. In Sofocle il messaggio è legato alla verità che si rivela per gradi, diversamente da Seneca, dove le rivelazioni sono tutte concentrare e accorpate nel 3° episodio.

18
Q

il personaggio di Edipo fra Seneca e Sofocle:

A

Il personaggio di Edipo presenta delle differenze fra Seneca e Sofocle:
- in Sofocle Edipo è sicuro e trionfante, vincitore della sfinge e convinto di voler conoscere la
verità

- in Seneca Edipo è angosciato, ha già addosso il peso del suo oracolo, è consapevole che il suo destino è inevitabile e non vi si può sfuggire; il potere porta con sé angoscia e solitudine.

In Seneca inoltre la figura di Edipo è protatica, mentre in Sofocle si ha un dialogo fra lui e un altro personaggio.