5) l'italiano popolare: Flashcards
lo stato dell’arte:
Lo stato dell’arte (cioè tutte le cose che sono state dette su questo argomento fino ad oggi; il ‘punto della situazione’):
Vi sono diverse scuole di pensiero:
* italiano popolare = unitario
* italiano popolare = formato di differenze regionali
Lo studio dell’italiano popolare, cominiciato a inizio ‘900, si è fermato negli anni ‘70, in cui vennero pubblicate le lettere di prigionieri di guerra partigiani con una prefazione di De Mauro che nota che i fenomeni esibiti possono dare luogo a una varietà dell’italiano: l’italiano popolare unitario.
L’italiano popolare secondo De Mauro:
«modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia […] la lingua ‘nazionale’»
«una modalità […] una norma d’uso della lingua italiana che può denominarsi ‘italiano popolare unitario’ »
L’italiano popolare secondo Cortelazzo:
«il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madre lingua il dialetto».
Resta vera per tutti gli studiosi comunque la caratteristica sociale dell’italiano popolare (la bassa istruzione) ma non tutti sono d’accordo sul considerarlo unitario.
Infatti come si fai coi dialetti? che sono diversi?
per Berruto infatti, ‘l’italiano popolare è regionale, poichè le differenze le notiamo specialmente legate al sostrato dialettale (“varietà dell’italiano propria di parlanti con scarso grado di istruzione e prevalentemente dialettofoni, ma non necessariamente sempre incolti” […] “i suoi utenti, oltre ad avere un basso livello di istruzione ed avere il dialetto come L1, appartengono anche alle classi di età più anziane”).’
Ma il dibattito è ancora aperto.
Ma esiste ancora oggi l’italiano popolare? Che non ci siano più madrelingua dialettofoni?
Come nota Cerruto, ad oggi l’italiano popolare sembra esibita solo dagli anziani.
A partire da quando tutta la popolazione ha iniziato a parlare italiano (anni ‘60/’70) alcuni tratti appartenenti inizialmente all’italiano popolare hanno iniziato a infoltirsi e ad essere promossi a italiano (neo)standard (dire ‘gli’ al posto di ‘loro’ in ‘dargli’).
L’italiano popolare secondo Serafini:
«in fatto di lingua, potrebbe benissimo essere considerato ‘semicolto’ anche un laureato in matematica, il cui percorso di studi non comporta alcun approfondimento delle conoscenze linguistiche […] E in questo senso è più conveniente rifarsi alla nozione di scritture popolari o parlare di tratti linguistici popolari che possono comparire anche in testi colti» (Serafini 2001:38-39)
L’italiano popolare secondo D’Achille:
‘semicolto’ è usato con riferimento «a scriventi abbastanza diversi» (D’Achille 1994)
L’italiano popolare secondo Vanelli:
«lingua colloquiale di uso comune opposta alla lingua parlata e soprattutto scritta» (Vanelli 1976)
quando nasce:
tre scuole di pensiero:
1. con la 1° guerra mondiale (perchè è il momento in cui persone proveniente da diverse regioni d’Italia si trovano insieme e hanno necessità di comunicare > nasce una sorta di ‘italiano imperfetto’ ma comune > italiano popolare). Negli stessi anni comincia la diffusione dei media, la radio e la tv poi.
2. l’italiano substandard nasce nel momento in cui nasce lo standard: in un certo senso esso è nato dal momento in cui si è fissata una lingua di riferimento (configurare un ‘substandard’ in base a ciò che è ‘standard’), configurandosi già a partire dal ‘600 come una varietà propria dell’utente non istruito nel momento in cui si propone di abbandonare il dialetto, e determinandosi poi via via come una varietà propria del semicolto
3. per Enrico Testa: 1527 o 1528 (data della Confessione di Bellezze Ursini): non solo scritta ma anche orale!
l’italiano popolare ‘unitario’:
L’italiano popolare è ‘unitario’?
* per de Mauro: sì, ci sono sempre gli stessi tratti (specialmente scritti)
* per Berruto (1987): no, l’italiano popolare è regionale (vi sono differenze nell’italiano popolare di ciascuna regione a seconda della lingua di sostrato)
* per Testa (2014): sì, al di là dei vari aspetti locali, chi adopera l’italiano locale comunica con uno strumento linguistico che ha strutture condivise e tratti comuni necessari a intendersi.
* la recensione di Montuori al libro di Testa: no. “è la sua [di Testa] stessa antologia a dimostrare che non esisteva un registro medio dell’italiano, comune alle diverse classi sociali, ma piuttosto una somma di tradizioni testuali condivise e scritte in una lingua sensibilmente influenzata dalla comunicazione orale e quindi ricca di connotazioni locali. Non un «tipo» di italiano, quindi, ma il sedimento di dinamiche di negoziazione linguistica in una comunità plurilingue, dove alcuni sapevano scrivere molti tipi di testi su diversi argomenti a destinatari d’ogni specie, mentre altri riuscivano con fatica a comunicare per iscritto in un singolo genere testuale avvalendosi dell’elementare alfabetizzazione cui erano riusciti ad accedere” ; laddove vi sono due diverse lingue c’è sempre il bisogno di avvicinarsi.
Quindi, a seconda di come osserviamo i testi, possono dirci cose differenti (Enrico Testa > sulla base dei testo che aveva pubblicato nella sua antologia constata che le differenze erano poche, ma probabilmente queste conclusioni sono date da una persona che studia la letteratura italiana, e vede quindi l’unitarietà dei testi)
Montuori è invece un dialettologo, e ha quindi attenzione per la varietà (come Berruto, che è un sociolinguistica; entrambi lavorano con la varietà).
Nessuno nega che ci sia un insieme comune di fenomeni (che lo rendono appunti ‘italiano’), ma vi sono delle differenze.
negoziazione linguistica in una comunità plurilingue:
in qualche modo rientra qui ‘dalla finestra’ un’idea cui aveva accennato anche Berruto riprendendo le parole di Cortelazzo, cioè che l’italiano popolare sia “un sistema approssimato a partire da una L1 (un dialetto) verso una L2 (l’italiano standard), o come un grado di approssimazione ritenuto accettabile per bisogni comunicativi non sofisticati”.
Una varietà di apprendimento fossilizzata.
‘Confessione’ di Bellezze Ursini:
> testo del 1528 di una persona imprigionata perchè accusata di stregoneria, che a un certo punto confessa.
“Al nome de Dio, io Belleze de Agnelo Ursini de Collevecio
faccio mano propia questa carta, che me ll’à fatta fa lu
pricuratore, e dirrove tutte le mee culpe, che so’ stata e so’
fatuciera; e la farraio per perdonanza deli granni mali che aio fatto, che me moro de dolore.
E mo non guardate ala gnurantia delo scivere.
Io aio qumenzato a scioiere lu sacco, de che semo vetate
dale nostre patrone, e nollo possemo dire se non a chi
imparamo, pure io ve llo dirrò como se fa e come facemo a
streare onne iente, che me è stato imparato e òlo fatto
inparare ad altre femene.”
> notiamo formule molto alte (‘al nome de Dio’) ma appunto sono formule, imparate senza sapere cosa significano (‘mano propia’ > altra formula alta, ablativo assoluto, con l’errore ‘propia’).
- errori (dirrò, al posto di dirò;
- Collevecio, al posto di Collevecchio (luogo in cui viene scritta la confessione)…)
- scioglimento di nessi consonantici (serie di 2-3 consonanti), ex. al posto di ‘scrivere’ abbiamo ‘scivere’.
diario di Elia (servitore di Alfieri):
Era molto intelligente ma aveva un grado di scolarizzazione molto basso.
- viagio, pasare > Elia parlando non produce le geminate e nello scritto riproduce esattamente ciò che pronuncia.
- ipercorrettismo > bracij (doppie dove non servono)
- poi ‘chi’ usato per parlare dei ‘bracci di mare’, quando invece dovrebbe essere usato per le persone e non per le cose.
- luj > non è un errore, ma si produce una grafia frequente al tempo per il pronome.
- lui sonava > ‘lui’ soggetto, tratto che noi oggi riteniamo tratto dell’italiano neostandard.
- spasegiare > traduzione automatica della L1 di Elia, il piemontese.
Ruffino, ‘l’indialetto ha la faccia scura’:
Ruffino ‘l’indialetto ha la faccia scura’, 2006.
E’ un testo fatto da commenti di testi scritti da ragazzi delle medie e elementari siciliane.
Traspare nel testo da una parte la poca perizia dei ragazzi per lo scrivere in italiano, dall’altro i pregiudizi nei confronti del siciliano.
Tema: Un vostro amico vi ha invitato a pranzo: gli rispondete che non potete andarci perché vostro padre è malato e non potete lasciarlo solo
Svolgimento: Stimatissimo à mico mi ài vitato a pranzo gli rispondete che non potete andarci, perche mio padre sta è malato e non potete la sciarlo solo.
- stimatissimo à mico > formula
- mi ài > probabilmente la forma insegnata a scuola
- vitato > semplificazione per caduta di foni
quindi notiamo alcuni tratti tipici dell’italiano regionale che non verrebbero esibiti negli altri testi che abbiamo analizzato (Ex. ‘sta malato’), mentre altri corrispondono al tronco comune dei tratti dell’italiano popolare (Ex. la mancanza di punteggiatura)
tratti diagnostici e persistenti (?):
“È innegabile che con il progredire della ricerca e delle conoscenze e l’infittirsi di indagini specifiche su corpora il catalogo di tratti morfosintattici da ritenere diagnostico per l’italiano popolare va a diminuire” (Berruto 2014: 286)
tratti diagnostici > tratti che vedendoli ci fanno capire che si tratta di italiano popolare (ex. ‘il ‘che polivalente’ oggi non è più un tratto diagnostico, poiché lo si usa anche nella varietà di tutti i giorni).
i tratti diagnostici e persistenti secondo D’Achille:
D’Achille (2010)
* la mancata percezione dei confini delle parole, con frequenti univerbazioni di articoli, pronomi clitici e preposizioni (lamico, tidico, avedere), e anche con alcune improprie segmentazioni (con torni, di spetto, in dirizzo, l’aradio, con concrezione dell’articolo);
* la difficoltà nella resa delle doppie, spesso scempiate (fato «fatto») – ma a volte, per ipercorrettismo, le scempie vengono indebitamente raddoppiate (baccio «bacio»), specie da scriventi settentrionali – e la semplificazione dei nessi consonantici, nella grafia come spesso anche nella pronuncia (atro «altro»; particolarmente frequente è l’omissione della nasale: sepre
«sempre», fidazzata «fidanzata»);
* la presenza di errori di ortografia, soprattutto in alcuni punti critici del sistema, come la ‹h›, omessa (anno visto, ance «anche») o usata a sproposito (chome), la ‹q›, indebitamente estesa (quore, qucina), i digrammi e trigrammi (celo «cielo», molie o mogle «moglie»);
* la scarsa e impropria utilizzazione dei segni paragrafematici: accenti e apostrofi omessi o inseriti indebitamente; uso casuale e a volte ‘reverenziale’ delle maiuscole, per le iniziali delle parole ritenute più importanti; punteggiatura per lo più assente o messa a casaccio.
i tratti diagnostici e persistenti nella morfologia secondo D’Achille:
- la tendenza a regolarizzare i paradigmi nominali e aggettivali, per lo più con l’adozione di maschili in - o / -i (l’agento «agente»; gli auti «autobus»; grando «grande») e femminili in -a / -e (la moglia «moglie»; le cimice «cimici»; inglesa «inglese»);
- gli scambi tra aggettivi e avverbi e il rafforzamento ‘analitico’ di comparativi e superlativi sintetici (il posto meglio «migliore»; guidare veloce «velocemente»; è tanta buona «tanto buona»; più migliore; molto ottimo);
- la sovraestensione del clitico dativo ci, che assume anche il valore di «a lui», «a lei» (anche come allocutivo di cortesia) e «a loro» (ci do un bacio; posso dirci una cosa?), che sembra marcato in diatopia come settentrionale o meridionale; al centro si generalizza piuttosto gli (come in genere nel parlato), ma spesso è sovraesteso anche al maschile le (ho incontrato tuo zio e le ho ridato i soldi), forse per ipercorrettismo, o per influsso dell’allocutivo di cortesia; notevoli anche sequenze di clitici contrarie all’ordine standard (non si ci vede «non ci si vede»);
- l’uso del possessivo ‘suo’ anche per la III persona plurale, invece di loro (si hanno anche esempi come
suo di lui, suo di loro); - nel sistema verbale, gli scambi fra gli ausiliari dei verbi attivi, in rapporto ai diversi sostrati dialettali (ho rimasto; sono mangiato; vi avete sbagliato), la presenza di forme improprie ‘analogiche’, specie nel congiuntivo (potiamo «possiamo», vadi «vada», facci «faccia», stasse «stesse»), nel passato remoto (misimo «mettemmo») e nel participio passato (faciuto «fatto»), nonché la generale riduzione dei tempi e dei modi.
i tratti diagnostici e persistenti nella sintassi secondo D’Achille:
- estensioni di concordanze a senso del tipo ‘la gente applaudivano’ o ‘qualche uomini’;
- nella frase relativa, non solo la pressoché sistematica adozione del che polivalente, diffusa in generale nel parlato, ma anche la sovraestensione di dove (il giorno dove mi sono sposata), la commistione del modello analitico con quello sintetico (ho ricevuto la lettera che con la quale mi dici che stai bene), l’uso di la quale non preceduto da preposizione (la tua lettera la quale mi sono rallegrato), anche invece di che pronome e talvolta perfino congiunzione (capisco la quale stai bene);
- la ripetizione del clitico in perifrasi con i verbi modali (ti devo dirti);
- costrutti particolari come il periodo ipotetico col doppio condizionale (se saresti tu al posto mio, faresti la stessa cosa) o col doppio imperfetto congiuntivo (se potessi, lo facessi), diversamente distribuiti nelle varie aree;
- oltre alle sistematiche riprese clitiche degli elementi dislocati a sinistra del tipo a me mi piace (caratterizzanti, come si è detto, solo in rapporto allo scritto standard), va segnalata la frequenza delle frasi con tema sospeso e anche con l’accusativo preposizionale.
i tratti diagnostici e persistenti nel lessico secondo D’Achille:
- lo scambio di suffissi (discrezionalità «discrezione») e di prefissi (indispiacente «dispiaciuto»; spensierato «pensieroso»); la produttività del suffisso zero e della sottrazione di suffisso (prolungo «prolungamento»; spiega «spiegazione»); la presenza di morfemi aggiuntivi (i tranquillizzanti «tranquillanti»);
- i cosiddetti malapropismi, cioè parole storpiate sul piano del significante per accostamento paretimologico ad altre più note (celebre «celibe»; debellare «cancellare»; fibrone «fibroma»; rimboccare «rabboccare»; altrite «artrite»; sodomizzare «somatizzare»), particolarmente frequenti con i nomi propri e le parole straniere (tic «ticket»);
- l’uso di popolarismi espressivi (botta, botto, macello);
- la preferenza per strutture lessicali di tipo analitico (fare sangue «sanguinare»; malato al cervello «pazzo»);
- il ricorso a dialettismi per riempire ‘vuoti oggettivi’ e ‘soggettivi’, nonché, in documenti di emigranti, fenomeni di interferenza con la lingua locale, evidenti anche ad altri livelli di analisi oltre a quello lessicale.
i tratti diagnostici e persistenti secondo Berruto:
Berruto (2014)
- costruzione del periodo ipotetico con condizionale (o congiuntivo) sia nella protasi che nell’apodosi,
- degli scambi di ausiliari (essere al posto di avere o avere al posto di essere),
- sovraestensione e regolarizzazione semplificante di desinenze nominali (per nomi di uso comune),
- della sovraestensione e regolarizzazione semplificante delle forme dell’articolo determinativo
- anacoluti (costrutto sintattico per cui il primo elemento appare, rispetto ai successivi, insieme campato in aria e messo in rilievo: ‘io, purtroppo, mi sembra che non ci sia nulla da fare’)
- scambi di preposizioni
- doppio complementatore, in casi come quando che, siccome che, dove che]
l’italiano popolare come varietà di apprendimento fossilizzata:
italiano popolare = varietà di apprendimento fossilizzata, cioè è una lingua che viene appresa come una lingua seconda L2 ma che a un certo punto non si apprende più.