Saggi Flashcards
A Decolonial Feminist Politics of Fieldwork: Centering Community, Reflexivity, and Loving Accountability
Il saggio “A Decolonial Feminist Politics of Fieldwork: Centering Community, Reflexivity, and Loving Accountability” di Alba Rosa Boer Cueva, Keshab Giri, Caitlin Hamilton e Laura J. Shepherd è un’analisi critica delle pratiche di ricerca sul campo attraverso una lente femminista decoloniale.
Questo documento pone l’accento sulla necessità di trasformare il modo in cui conduciamo la ricerca, sfidando le dinamiche di potere e promuovendo una maggiore etica e riflessività.
Gli autori iniziano con una riflessione storica, evidenziando come il lavoro sul campo sia stato storicamente legato a pratiche coloniali.
Durante l’era coloniale, la ricerca sul campo era spesso utilizzata come strumento di controllo e dominazione. Gli esploratori e amministratori europei raccoglievano informazioni sulle popolazioni locali non per comprenderle veramente, ma per facilitare la loro gestione e sfruttamento.
Questo contesto storico ha profondamente influenzato le pratiche di ricerca, rendendole spesso sfruttatrici e appropriatrici.
Per rompere con questa eredità, gli autori propongono un quadro teorico che combina politiche femministe, decoloniali, antirazziste e anticapitaliste. Questo approccio invita i ricercatori a riflettere criticamente sulle dinamiche di potere presenti durante la ricerca sul campo.
L’idea è quella di sfidare le separazioni tra “qui” e “lì”, “ricercatore” e “ricercato”, e “conoscente” e “conosciuto”.
Invece di vedere i partecipanti alla ricerca come meri oggetti di studio, il quadro teorico femminista decoloniale li considera co-produttori di conoscenza.
Un elemento centrale di questo approccio è la riflessività.
I ricercatori devono essere consapevoli delle loro posizioni e delle dinamiche di potere che influenzano il processo di ricerca.
Questo implica non solo una riflessione critica sul proprio ruolo, ma anche un impegno attivo per mitigare le disuguaglianze di potere.
Ad esempio, i ricercatori dovrebbero investire emotivamente nelle relazioni con i partecipanti, costruendo comunità e legami significativi piuttosto che limitarsi alla raccolta di dati.
Un altro aspetto chiave è l’idea di responsabilità amorevole.
Questo concetto si riferisce a una pratica di ricerca che viene condotta con rispetto, cura ed empatia.
Gli autori sostengono che la ricerca dovrebbe essere un’impresa collettiva, in cui la conoscenza è co-costruita dai ricercatori e dai partecipanti.
Questo non solo migliora la qualità della ricerca, ma contribuisce anche a costruire relazioni più eque e significative.
Nel loro saggio, gli autori forniscono esempi concreti di come queste idee possano essere applicate nel contesto del lavoro sul campo.
Ad esempio, propongono di utilizzare metodi che facilitano il dialogo e la collaborazione tra ricercatori e partecipanti, come workshop partecipativi e altre forme di coinvolgimento comunitario.
Questi metodi non solo permettono di raccogliere dati più ricchi e dettagliati, ma aiutano anche a ridurre le disuguaglianze di potere tra ricercatori e partecipanti.
Gli autori concludono il saggio riconoscendo che il loro approccio ha dei limiti e che ci saranno sempre tensioni da affrontare.
Tuttavia, sostengono che un impegno continuo verso una ricerca più etica e riflessiva è essenziale per sfidare le strutture di oppressione e promuovere un cambiamento positivo.
In definitiva, il saggio “A Decolonial Feminist Politics of Fieldwork” ci invita a riconsiderare radicalmente il modo in cui conduciamo la ricerca sul campo, promuovendo un approccio più etico, riflessivo e rispettoso delle comunità con cui lavoriamo.
A Decolonial Feminist Ethnography: Empowerment, Ethics, and Epistemology
Il saggio “A Decolonial Feminist Ethnography: Empowerment, Ethics, and Epistemology” di Jennifer Manning rappresenta un’importante riflessione su come integrare la teoria femminista decoloniale con l’etnografia critica. Manning inizia spiegando che la teoria decoloniale è un pensiero critico sviluppato da studiosi latinoamericani come Mignolo, Escobar, Dussel e Quijano. Questa teoria critica la modernità eurocentrica, che pretende di essere universale e marginalizza altre forme di conoscenza. Un concetto chiave è la “colonialità del potere” di Quijano, che descrive come il controllo economico, politico, di genere e della conoscenza sia interconnesso per mantenere la supremazia occidentale.
Il femminismo decoloniale, sviluppato da teorici come Lugones, aggiunge una dimensione di genere a questa critica, evidenziando come le donne marginalizzate del Sud globale siano spesso silenziate e invisibilizzate. L’obiettivo di questo approccio è dare spazio alle voci e alle esperienze di queste donne, rompendo con la narrazione occidentale dominante che tende a rappresentarle in modo distorto o parziale.
Manning propone di integrare questa teoria femminista decoloniale con l’etnografia critica, creando una metodologia che non solo osserva e descrive le esperienze dei partecipanti, ma si impegna attivamente a condividere il potere e a produrre conoscenza in modo collaborativo. Questo approccio mette l’accento sulla riflessività e sull’etica nella ricerca. I ricercatori devono essere consapevoli del loro ruolo e delle dinamiche di potere che possono influenzare il processo di ricerca.
Un aspetto molto interessante del suo lavoro è l’uso della performance corporea come metodo per creare un dialogo e condividere il potere con i partecipanti. Nel suo studio sul campo in Guatemala, Manning esplora le vite e il lavoro delle donne indigene Maya. Attraverso la performance corporea, che include il muoversi con e l’ascolto delle comunità, Manning riesce a creare uno spazio in cui il potere è condiviso e la conoscenza è co-prodotta con i partecipanti. Questo metodo permette di mettere in evidenza le complessità delle loro esperienze vissute e di sfidare le disuguaglianze e le politiche di potere presenti nella ricerca tradizionale.
In conclusione, Manning riconosce la necessità di un continuo impegno critico e riflessivo. La sua etnografia femminista decoloniale non solo arricchisce il campo degli studi di management e organizzazione, ma offre anche un modello di ricerca che promuove l’empowerment e la decolonizzazione della conoscenza. Questo approccio etico e riflessivo sfida le strutture di potere esistenti e promuove pratiche di ricerca più eque e rispettose, valorizzando le voci e le esperienze dei gruppi marginalizzati.
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A Decolonial Feminist Politics of Fieldwork: Centering Community, Reflexivity, and Loving Accountability
Il saggio inizia spiegando come la ricerca sul campo sia stata storicamente legata a pratiche coloniali, utilizzate per controllare e dominare le popolazioni locali.
Gli autori propongono un approccio che combina politiche femministe, decoloniali, antirazziste e anticapitaliste. Questo approccio invita i ricercatori a riflettere criticamente sulle dinamiche di potere durante la ricerca.
Un elemento centrale è la riflessività, cioè la consapevolezza dei ricercatori delle proprie posizioni e delle dinamiche di potere. I ricercatori devono impegnarsi a costruire relazioni significative con i partecipanti, non limitandosi alla raccolta di dati.
Gli autori introducono il concetto di responsabilità amorevole, che implica condurre la ricerca con rispetto, cura ed empatia. La conoscenza dovrebbe essere co-costruita dai ricercatori e dai partecipanti.
Vengono forniti esempi di metodi che facilitano il dialogo e la collaborazione, come workshop partecipativi, per raccogliere dati più ricchi e ridurre le disuguaglianze di potere.
Gli autori riconoscono i limiti del loro approccio, ma sostengono che un impegno continuo verso una ricerca più etica e riflessiva è essenziale per promuovere un cambiamento positivo.
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A Decolonial Feminist Ethnography: Empowerment, Ethics, and Epistemology
L’articolo di Jennifer Manning esplora come combinare la teoria femminista decoloniale con l’etnografia critica. La teoria decoloniale critica la modernità eurocentrica, che marginalizza altre forme di conoscenza, e mette in evidenza come il controllo economico, politico, di genere e della conoscenza siano collegati per mantenere la supremazia occidentale.
Il femminismo decoloniale aggiunge una dimensione di genere a questa critica, evidenziando come le donne marginalizzate del Sud globale siano spesso silenziate e invisibilizzate. L’obiettivo è dare voce a queste donne e rompere con la narrazione dominante occidentale.
Manning propone di integrare questa teoria con l’etnografia critica, creando una metodologia che non solo osserva e descrive le esperienze dei partecipanti, ma condivide il potere e produce conoscenza in modo collaborativo. Questo approccio pone grande enfasi sulla riflessività e sull’etica nella ricerca.
Un aspetto interessante del lavoro di Manning è l’uso della performance corporea come metodo per creare dialogo e condividere il potere con i partecipanti. Nel suo studio sul campo in Guatemala, esplora le vite delle donne indigene Maya e, attraverso la performance corporea, crea uno spazio di condivisione del potere e co-produzione della conoscenza, mettendo in luce le loro esperienze e sfidando le disuguaglianze nella ricerca tradizionale.
In conclusione, Manning sottolinea l’importanza di un impegno critico e riflessivo continuo. La sua etnografia femminista decoloniale arricchisce gli studi di management e organizzazione, offrendo un modello di ricerca che promuove l’empowerment e la decolonizzazione della conoscenza, sfidando le strutture di potere esistenti e promuovendo pratiche di ricerca più eque e rispettose.