15) padri e figli Flashcards
i figli di Dante:
Alfieri è il primo autore a parlare di affetti famigliari in un’autobiografia, ma prima di lui ciò che noi vogliamo sapere del rapporto degli autori con i loro figli lo dobbiamo desumere o dalle loro opere o dalla storia.
I figli di Dante sono Giovanni, Pietro, Iacopo e Antonia. Tuttavia abbiamo molte più informazioni di Pietro e Iacopo.
Pietro e Jacopo: l testimonianza di Boccaccio:
Il racconto di Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante ci descrive Pietro e Jacopo come poeti volgari e che ritrovarono i canti sparsi della Commedia (Jacopo aveva sognato il padre).
Pietro e Jacopo: la verità storica:
Oltre il racconto favoloso di Boccaccio:
Pietro e Iacopo Alighieri andarono in esilio entrambi, colpiti dalla stessa condanna del padre, poiché avevano superato i quindici anni, i due fratelli fecero strade diverse:
Pietro andò a Ravenna, dove aveva seguito il padre, negli ultimi spostamenti
e dove, per intercessione di Guido Novello da Polenta, ottenne rendite grazie ai
poté frequentare l’Università. Subito dopo la morte di Dante, alla fine del settembre 1321, Guido Novello venne cacciato da Ravenna, e per questo Pietro abbandonò la città per tornare a Firenze per congiungersi alla madre Gemma e al resto della famiglia.
Nel 1327 Pietro è presente come studente di diritto civile a Bologna, un documento lo vuole «scholaris Bononie in iure civili», in questo frangente dovette avvenire l’incontro con il Petrarca, che gli dedica un’epistola in versi.
Jacopo, terzogenito, andò a Verona, dove ottenne un canonicato e i benefici ad esso connessi grazie ai quali poté avere qualche tranquillità, e aiutare anche la madre Gemma.
Fu proprio Iacopo, autore di Chiose alla Commedia (oggi racchiuse nel Palatino 313) a inviare a Guido da Polenta nella primavera del 1322, la sua Divisione del poema, accompagnandola con il sonetto ‘Acciò che le bellezze, signor mio’; al manoscritto perduto inviato da Iacopo sembra si debba ricondurre la prima diffusione della Commedia, in Firenze tra il 1325 e il 1330.
L’importanza dell’esegesi di Pietro Alighieri all’opera paterna:
Il Comentarium di Pietro alla Commedia ci è arrivato in tre redazioni ed è il testo più importante dell’antica esegesi della Commedia, per per la profonda conoscenza di tutto il pensiero dantesco, per l’impegnata adesione alla poetica che fu del padre di cui si mettono in luce la dottrina filosofica e scolastica.
Pietro è prezioso anche per il modo in cui vuole correggere certi fraintendimenti perché non fosse snaturato il senso dell’esperienza poetica di Dante. Insiste sulla nozione di poesia come fictio’, in piena adesione alle teorie formulate da Dante nel De vulgari eloquentia II IV, VE II IV e si oppone all’interpretazione di chi vuole ridurre la poesia dantesca solo alla dimensione “profetica” della fede e della teologia. Si sforza di far comprendere ai lettori d’ogni tempo che Dante è innanzi tutto e soprattutto poeta, e che la poesia, è frutto di una profonda inventività intellettuale.
A Pietro si devono le chiose (singole annotazioni) sulla realtà storica di Beatrice o sulla paternità dantesca della Quaestio. Il commento di Pietro risente anche di una fruttuosa conoscenza della classicità, maturata dall’incontro col preumanesimo veneto e col Petrarca, e rivolta a mostrare l’opera del proprio padre come un “classico”.
Quando si legge il Comentarium (conservatoci da una ventina di codici, ed elaborato in tre redazioni, fino al 1358), spesso ci si sente vicini alla mente e alla viva voce dell’Alighieri.
il commentario di Jacopo:
Il commentario di Jacopo è contenuto per la maggior parte nel Palatino 313 (Firenze).
E’ scritto in littera textualis.
i rapporti padre-figlio all’interno della Commedia:
Possiamo ricostruire il rapporto padre-figlio fra Dante e i figli attraverso le figure paterne descritte nella Divina Commedia;
1. Inf. X. Cavalcante dei Cavalcanti con il figlio Guido
2. Inf. XXVI Ulisse e il padre Anchise
3. Inf. XXVIII Il peccato di Bertra de Born, trovatore e seminatore di discordia.
«<lo feci il padre e ‘l figlio in sé ribelli»>,
Dante indica la gravità del delitto di Bertran de Born nell’aver fomentato l’ostilità tra padre e figlio, Enrico II d’Inghilterra e il suo primogenito Enrico, detto il re giovane.
4. Inf. XXXIII Ugolino che mangia i 4 figli, e dopo averli mangiati continua incredulo a chiamarli.
Vita nova XXII 2: «nulla sia sì intima amistade come da buon padre a buon figliuolo e da buon figliuolo a buon padre»
Ser Petracco e Petrarca:
Nella Fam. 6° Petrarca parla della ‘vanità’ (disperazione) del padre alla vista di un capello bianco.
Mentre nella Senile 16° (indirizzata al giurista Luca Penne) racconta che il padre era un grande ammiratore di Cicerone, a cui spinse lo studio del figlio sin dall’infanzia.
Fu il padre stesso quindi a far appassionare Petrarca alle lettere, anche se alla fine lo manderà a studiare giurisprudenza (prima a Montpellier e poi a Bologna).
parallelismo fra la figura di Petracco e quella di Dante:
Fam 21-15 a Giovanni Boccaccio (difendendosi da una calunnia mossa dagli invidiosi):
Boccaccio dice di non provare nessun odio verso Dante, uomo che vide solo una volta nella sua infanzia e che fu coetaneo del padre.
Petracco e Dante, secondo Petrarca, avevano in comune l’ingegno e gli studi (e l’esilio, a cui però il padre si rassegnò, mentre Dante si immerse ancora di più nei suoi studi).
Petrarca ed i figli:
Com’è noto Petrarca ebbe due figli Giovanni e Francesca (detta Tullia in onore di Cicerone).
Al primo sono dedicate le righe tanto fredde e distaccate quanto tormentate che si leggono nella nota obituaria redatta sulle carte del Virgilio Ambrosiano (in latino), con cui il padre “registra” l’evento tragico, ricordando gli affanni e le preoccupazioni che il figlio gli procurò in vita e il dolore acuto che continuò a infliggergli morendo.
Il poeta è combattuto fra la lacerazione per il dolore della perdita e il senso di sollievo e di liberazione da quelle continue preoccupazioni con cui lo avevano tormentato le cattive inclinazioni di Giovanni finché fu in vita.
Stupiscono, in tal senso, anche le righe di una lettera scritta da Milano all’amico Guido Sette (Fam. XXIII 12, 15-16) alcuni mesi prima della morte del figlio, il 1 dicembre del 1360, da cui si desume che il Petrarca aveva per qualche tempo intravisto, pel comportamento del figlio, segnali incoraggianti di redenzione, ma poi era prepotentemente riemersa, gettandolo nuovamente nello sconforto, l’indole corrotta dura da estirpare.
l’avvicendarsi di precettori + la vita di Giovanni:
- Familiare VII 17 = lettera al precettore Rinaldo Cavalchini; prendendo spunto dai consigli per educare Giovanni (ben formulati nella teoria) sottraendolo alle sue non promettenti inclinazioni, il poeta, con il consueto passaggio dal contingente all’universale, trasforma la lettera in un trattatello di precettistica pedagogica.
- Nel giugno del 1351 Petrarca portò con sé il figlio in Provenza, con la speranza di trovare per lui nella sede papale (Avignone) un impiego adeguato.
Con questa prospettiva, padre e figlio si trasferirono alcuni mesi ad Avignone, nell’autunno di quell’anno, a casa dell’amico Guido Sette. Finalmente, nel marzo del 1352, il poeta ottenne per il figlio, per elargizione di Cangrande II, un incarico di canonico a Verona, e Giovanni, qualche mese dopo, a giugno, fra le speranze e le preoccupazioni paterne per l’indole fragile e incerta del figlio, a soli 15 anni, raggiunse la città veneta per ricoprire quel ruolo .
Se a Rinaldo affidava la formazione culturale di Giovanni, a Guglielmo da Pastrengo consegnava la disciplina morale del figlio.
In tal modo il Petrarca delegava ai due amici l’ardua responsabilità dell’educazione di Giovanni, di fronte alla quale doveva avvertire tutta la propria inadeguatezza.
Il ragazzo, ormai diciottenne, era rimasto però molto legato al maestro della sua infanzia, e aveva scritto al suo antico precettore (Moggio Moggi) perché andasse a vivere a Milano presso la casa del Petrarca. Il poeta, in difficoltà crescente nell’educazione del giovane, aveva incoraggiato e forse guidato la richiesta del figlio, e aveva aggiunto anche una lettera propria con cui caldeggiava la venuta di Moggio, promettendogli non solo ospitalità e amicizia, ma addirittura l’accesso alle sue nugae di cui poteva, se lo avesse desiderato, trarre liberamente copia. D’altra parte, ricorrendo quasi ai toni dell’adulazione, ricorda come il maestro, alle cui cure Giovanni era stato affidato a Parma da bambino, fosse nel cuore del giovane allievo.
Non abbiamo riscontro della risposta di Moggio e la richiesta del poeta sembra non aver sortito l’esito sperato.
Petrarca descrive il figlio come tranquillo, poco dedito allo studio, pigro ma intelligente.
Il 19 marzo del 1358 Simonide Nelli scrive al Petrarca una lettera in cui difende Giovanni dalle eccessive pretese del padre, e lo invita a essere più indulgente, a non pretendere una maturità e una saggezza innaturali e non commisurate all’età, prospetta al padre la buona riuscita dell’indole.
Durante l’estate del 1359, Giovanni, che si trovava ancora “al bando” ad Avignone, chiedeva al padre di poter far ritorno a casa, a Milano. Il rifiuto risoluto del Petrarca dovette reiterarsi fino a prendere forma, il 30 agosto del 1360, nella durissima Fam. XXII. (Diventi ogni istante più gonfio; e dal tuo gonfiore, che cosa credi mai che nascerà, dimmi, se non un «ridicolo topo»?)
Pochi mesi dopo, nel gennaio del 1360, Giovanni, sfidando il divieto paterno, fece ritorno a Milano, scortato da due amici.
Giovanni dette prova, nei mesi che seguirono, di sforzarsi per riconquistare la stima paterna, anche se un affetto di tipo filiale sembrava di fatto riservarlo più al Nelli. Ma, imprevedibilmente, in questo difficile frangente di richieste negate e di silenzi, si preparava per il giovane un destino che non avrebbe consentito più parole tra padre e figlio.
Giovanni muore nella notte fra il 9 e il 10 luglio del 1361, il padre ne apprende la notizia il 14 luglio. Così, com’era naturale, proprio al Nelli è indirizzata la prima lettera (scritta da Padova tra la fine del 1361 e i primi mesi del 1362) in cui si parla del terribile evento, dove, per la prima volta nella scrittura epistolare, Giovanni, sottratto agli occhi del mondo dall’inattesa falcidie della peste milanese, non è più chiamato con il distaccato e freddo «adolescens», ma finalmente, e disperatamente più volte, con il suo nome.
Perché Giovanni, morendo, ha inferto una ferita ancora più grave al padre? Solo per la sua scomparsa prematura, o anche, com’è forse da supporre, per non aver potuto compiere, com’è taciuto nell’essenzialità laconica della nota ma detto esplicitamente nel passaggio della lettera, una mutatio in melius, nell’auspicata prospettiva della salvezza eterna?
Il Nelli, che era stato per Giovanni forse la persona più vicina a una figura paterna, scrive per il poeta una consolatoria a cui il Petrarca risponde da Padova, l’8 giugno 1362 con la Senile I 3 (Ad eundem, amice consolationis approbatio), in cui si piange, accanto alla morte del figlio, quella dell’amatissimo amico Socrate.
Il tema doloroso della perdita del figlio, passando dal particolare all’universale, trova spazio nella grande architettura dialogica delle passioni del De remediis, nello scambio di battute tra Dolor e Ratio.
lo sguardo di Boccaccio sulla figlia di Petrarca:
Se qualcosa di più apprendiamo dei costumi e degli atteggiamenti della figlia di Petrarca, lo dobbiamo alla sensibilità della penna di Boccaccio da sempre attento e fine osservatore della psicologia femminile. È, per paradosso, Boccaccio a parlarci di Francesca, chiamata Tullia (in onore di Cicerone) dallo stesso Petrarca, nella bellissima epistola 15 del 1367, scritta a Francesco Petrarca in occasione del suo viaggio a Venezia, un viaggio difficile per le condizioni metereologiche, ma ugualmente intrapreso per il desiderio di vedere l’amico e maestro, che in realtà non trovò perché il Petrarca era stato chiamato da impegni diplomatici a Pavia. Arrivato a Venezia, Boccaccio, dopo aver riposato un po’, si recò a casa del Petrarca, dove fu in ogni caso accolto con affetto e allietato dalla conoscenza della figlia del poeta e del genero Francescuolo da Brossano.
Ma, in quella visita veneziana, fu un vero e proprio “tuffo al cuore” per Boccaccio l’apparizione di Eletta, la nipotina del Petrarca che portava il nome della madre del poeta, del tutto simile, nella vivace dolcezza dei tratti e dei gesti, alla figlioletta Violante (morta a soli sette anni, nell’autunno del 1355), come di certo avrebbero potuto confermare due amici comuni, il medico ravennate Guglielmo Angelieri e Donato degli Albanzani che avevano avuto la sorte di conoscere entrambe le bambine. Qui Boccaccio ci consegna una delle pagine più struggenti e toccanti della sua scrittura epistolare, nel racconto dei ripetuti abbracci alla piccola Eletta, che, forse un po’ stupita, si vede stringere più volte dal poeta commosso fino alle lacrime, come se gli fosse stata per un istante restituita la sua Violante (la figlia, che lui cela dietro personaggi del Decameron e delle Egloghe del Bucolicum Carmen (Olimpia)).
D’altra parte, contrariamente a quanto avviene nell’opera petrarchesca, in cui i volti dei figli sembrano non comparire mai tra le pieghe della creazione poetica, Boccaccio traspone le fisionomie degli affetti più cari proprio nella della finzione letteraria, tanto nella dimensione del racconto terreno della novella, quanto nei velamina poetici di maggiore sacralità, quelli della verità universale e incorruttibile del Buccolicum Carmen.
Ludovico e Virginio Ariosto:
Secondo figlio naturale di Ludovico, avuto da una Ursolina domestica nella casa Ariosto, Virginio nacque a Ferrara nel 1509. Ancora adolescente seguì il padre in Garfagnana e da lui ricevette i primi insegnamenti letterari; frequentò a Scandiano le lezioni del maestro A. Caraffa, stimato umanista. Legittimato e dichiarato suo erede (1520), fu mandato da Ludovico a studiare greco a Padova sotto la protezione del Bembo, al quale Ludovico lo aveva raccomandato. Si conserva tra le lettere di Ariosto quella che accompagnava il figlio nel viaggio verso la città veneta, + una Satira in cui chiede lo stesso, composta tra il 1524 e il 1525 mentre Virginio, allora quindicenne, si trovava in Garfagnana con il padre.
Tasso e il padre Bernardo:
MEMORIE PATERNE NELLE LETTERE DI T. TASSO
All’amico Torquato Rangone:
Il signor Bernardo Tasso mio padre, dal quale io dovrei prendere esempio in tutte le cose, ma particolarmente in quel che appartiene a la creanza che dee essere usata tra gentiluomini, soleva dire che gli uomini generosi non debbono conservare alcuna inimicizia con le donne
Al Rangone Tasso dedica il dialogo Il Rangone overo de la Pace, scritto nel 1584 e pubblicato nel 1586
Ad Eleonora de’ Medici, principessa di Mantova:
‘La supplica che si degni di raccomandare a la signora Ambasciatrice di Toscana la spedizione d’un suo libro che si stampa, a la quale possono esser diversi impedimenti. Il titolo de l’opera è Il Floridante del signor Bernardo Tasso.’
Manzoni padre:
dalle Lettere:
Vittoria, la seconda figlia femmina di Manzoni, nata dopo Giulia e prima di Matilde, nel 1822, viene mandata a soli nove anni, nell’agosto del 1831 a Lodi, al collegio della Madonna delle Grazie presso le Dame inglesi. Nelle lettere si esprime il dispiacere del padre, ma anche l’incoraggiamento alla disciplina.
A Sofia:
Le dice che le vuole bene
A Filippo:
Gli dice che, dopo avergli troncato i fondi mensili, non dovrà più scrivergli.
Leopardi e il padre Monaldo:
Quello fra Leopardi e il padre Monaldo è un rapporto complicato.
* ‘Sebbene dopo aver saputo quello ch’io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare di sentir le prime e ultime voci di un figlio che l’ha sempre amata e l’ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere.’
* ‘Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, nè le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia.’
* ‘Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazione, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza.’
* ‘Mio caro Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m’inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze.’
* ‘Ebbi la sua lettera ier l’altro; ma quel giorno non ebbi forza di scrivere. […] . I miei teneri saluti a tutti. Ella si abbia cura, e mi benedica. Il suo Giacomo.’
* ‘Ringrazio teneramente Lei e la Mamma del dono dei dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocchè dopo ch’io gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti. Il suo amorosissimo figlio Giacomo.’