manuale: 5) dai testi metodi: una consapevolezza empirica: Flashcards
oltre Lachmann e oltre Bèdier:
La filologia italiana contemporanea è il risultato di un complesso e profondo ripensamento dei fondamenti e dei procedimenti caratteristici del metodo lachmanniano e di quello bèderiano.
Alle origini di questo processo vi sono Giorgio Pasquali e Michele Barbi che nelle loro opere, critici entrambi verso la proposta bèderiana, tentano una ridefinizione e raffinamento del metodo di Lachmann, con alcune linee principali:
1. consapevolezza dei limiti del metodo e della necessità di modularlo in base ai problemi posti da ciascun testo
2. insistenza sulla specificità di ciascun testo e quindi di ciascun problema ecdotico
3. conseguente rifiuto di procedimenti puramente meccanici e nella ricostruzione dei testi, dove ‘occorre fin da principio esercitare il giudizio’, facoltà che non può essere sostituita da alcuna regola meccanica.
4. importanza riconosciuta alla storia della tradizione, nella quale i testimoni sono vivi documenti storici.
5. rivalutazione dei manoscritti meno antichi
6. attenzione speciale alla storia redazionale dei testi, e conseguente ricerca di possibili varianti d’autore anche in tradizioni non autografe
7. necessità di convogliare nell’operazione editoriale anche competenze linguistiche e storico-esegetiche
Sull’esempio di Barbi e Pasquali la filologia italiana si è così orientata al cosiddetto neo-lachmannismo, rivisitazione aggiornata della metodologia lachmanniana che recepisce anche alcune delle istanze più feconde del bèdierismo.
Quanto al bèdierismo, esso gode di fortuna nella filologia medio-latina e in quella romanza francese; oggi si parla di neo-bèdierismo per designare gli impieghi più aggiornati e meno dogmatici del metodo.
Alcuni capisaldi sono:
* l’ispezionare largamente la tradizione, suddividere sia pure a grandi linee i codici in famiglie
* sottoporre il ‘miglior manoscritto’ al controllo dei migliori codici di altri rami.
Un bèdierismo insomma riveduto alla luce del lachmannismo.
Va comunque sempre ricordato che negli studi storici, il ricercatore non deve parteggiare per un metodo ma per la verità.
lo stemma:
Caratteristica principale del neo-lachmannismo è la consapevolezza che lo stemma è un’ipotesi, e quindi uno strumento di lavoro, non una mappa precisa e fedele della storia della tradizione.
La differenza fra ‘stemma codicum’ e l’albero reale = fra un costrutto logico-formale e la storia della tradizione di un testo nella totalità dei suoi testimoni.
Neo-lachmanniana può dirsi qualunque edizione che metta in discussione il metodo nell’atto in cui lo applica, evidenziandone i limiti.
i descripti:
Fa parte del neo-lachmannismo anche la rivalutazione dei ‘descripti’. Il codice descriptus ( = manoscritto che è copia di altro manoscritto conservato, il quale rispetto a quest’ultimo, tranne gli errori nuovi aggiunti dal secondo copista, non offre nulla di piú della sua testimonianza) non è sempre e necessariamente un testimone inutile, poichè può essere latore di lezioni buone o comunuqe utili, ottenute per contaminazione; può recare congetture del copista interessanti, o può fornire dati importanti per la storia della tradizione e la fortuna del testo (postile, chiose..).
Si parla di ‘descripti portatori di lezioni indipendenti’.
Per sanare i suoi guasti meccanici, cioè gli errori di copia, sono utili certe congetture che si ritrovano nei descripti, ai quali dunque il moderno editore può e deve appoggiarsi.
A dover essere eliminati sono gli ‘inutiles’, cioè i manoscritti - anche se non descriptus - non recanti alcuna lezione interessante, nè perchè giusta, nè perchè corrotta ma rivelatrice di una precedente lezione giusta non attestata.
Ciò, naturalmente, è tanto più vero nelle tradizioni miste, dove cioè si affiancano autografi e apografi, perchè in que casi i descripti possono recare tracce, dirette o indirette, di interventi dell’autore.
scegliere le varianti:
Le varianti non si pesano, ma si contano in relazione alla loro presenza nei diversi rami dello stemma.
Il ricorso più ampio al iudicium accomuna molti dei filologi delle ultime generazioni, in ambito sia neo-lachmanniano, sia neo-bèderiano.
Per fissare il testo della Commedia ‘secondo l’antica vulgata’, Petrocchi, una volta tracciato lo stemma, si lascia mano libera nella selezione delle varianti adottando un criterio meccanico solo per quelle formali, che sfuggono a valutazioni di tipo semantico e contestuale.
L’esame critico però ha sempre l’ultima parola, e in ogni circostanza è la principale pietra di paragone per la scelta delle varianti.
il confine fra iudicium e arbitrio:
la ritrovata centralità del iudicium nella filologia dei giorni nostri ha indotto talora a parlare di una sorta di ritorno alla filologia pre-lachmanniana.
I rischi insiti nel troppo libero e troppo frequente esercizio del iudicium erano apparsi chiari già a Bèdier, che sottolineava che ci volesse prudenza.
In caso contrario, si legittima una assoluta soggettività nelle scelte che si traduce nella libertà di prendere il ‘buono’ ovunque il filologo creda di trovarlo, con 2 rischiose conseguenze:
1. la sopravvalitazione dell’intuito del filologo, che si attribuisce capacità divinatorie di natura imponderabile
2. la caccia indiscriminata al singolare, che appaia migliore
E’ opportuno quindi contemplare volta per volta le due istanze, entrambe ineludibili: quelle oggettive della tradizione e quelle soggettive del iudicium.
Con la prima si evita il rischio di arbitrio insito della sconda, con la seconda si sfugge alla meccanicità della prima.
Quando la difesa della superiore bontà di una lezione comporta analisi troppo sottili, il buon senso consiglia di deporre le armi: nei filologi più esperti, la lunga dimestichezza col testo può ingenerare eccessiva fiducia nelle proprie capacità di valutazione, e la rinuncia, in tali casi, all’esercizio del iudicium è un atto di salutare umiltà.
Attenzione va data alle diafore recate paritariamente da due testimoni o da due rami dello stemma.
In situazioni del genere è consigliabile infatti attingere tutte le lezioni a un solo testimone o a un solo ramo, motivando la scelta per l’antichità, la vicinanza geografica, culturale e linguistica all’autore…
In casi di equipollenza di varianti, all’editore critico non resta che scegliere schematicamente sulla base della qualità dei testimoni, ovvero del tutto arbitrariamente.
Ma può anche far ciò senza rammarico, poichè in quei casi non ha alcuna importanza se nel testo ci sia questa o quella espressione.
Va da sè che la scelta di tale testo-base dovrebbe cadere su un manoscritto che dia garanzie di affidabilità testuale e che goda di una posizione di spicco nella tradizione: un codice povero di lezioni singolari (ossia più conservativo degli altri) e magari ricco di difficiliores, e per questo, portatore della maggior parte delle varianti ammesse a testo.
uso e abuso della lectio difficilior:
Importante è la questione dei limiti entro cui possa essere adottato il criterio della lectio difficilior.
Nel neo-lachmannismo viene data sempre maggiore importanza, nella selezione delle varianti, all’usus scribendi e alla lectio difficilior.
E’ vero che la banalizzazione è uno dei fenomeni più comuni nella copiatura, ma esso non può essere invocato di fronte a qualunque caso di contrapposizione fra varianti.
Arduo è spesso distinguere fra lezione più difficile e lezione semplicemente incongrua, cervellotica e inammissibile: dichiarare autentico ciò che è falso solo perchè è ‘abnorme’.
Andrebbe fatta la controprova, chiedendosi: ‘cosa è veramente plausibile: che la lezione strana, poichè più difficile, sia corrotta in quella facile, o che la lezione strana sia difficile perchè corrotta?.
Per evitare l’abuso della lectio difficilior.
Petrocchi fa ad esempio un uso della difficilior talmente largo e libero da sconfinare spesso nell’abuso. Ex. nel canto 4° dell Inferno segna ‘porta de la fede’, al posto di ‘parte de la fede’, come invece segnano tutti i codici trecenteschi a eccezione di uno, non particolarmente autorevole.
Anche per quanto concerne l’impiego della difficilior è necessario quindi giudicare volta per volta, capendo in quali situazioni sia meglio astenersi dal massiccio ricorso a questo criterio.
la congettura:
La congettura (emendazione) in presenza di errori certi nell’intera tradizione è una necessità: a meno che la correzione risulti troppo insicura (e lì si ricorre alle cruces desperationis), al filologo non è concesso mantenere a testo un errore (‘è cosa molto più dannosa se un guasto resta ignorato, che se un testo sano viene attaccato a torto’).
Una necessità dunque, ma dolorosa, perchè chi ricorre all’emendazione ope ingenii sa che - tranne casi relativamente sicuri - le possibilità di divinare la lezione originale sono ben poche, e che nelle edizioni dei testi volgari la congettura, se non è ovvia, è errata, cioè non corrispondente a ciò che aveva scritto l’autore.
Correggere ope ingenii è difficile e rischioso dunque, per cui è legittimo dire che nell’ambito di universi linguistici in continuo mutamento, prima di definire errore ogni devianza occorre tentare di giustificarla in ogni modo sul versante storico e su quello linguistico.
Ex.
Per una gran parte di lettere familiare di Machiavelli, l’unico testimone è l’Apografo Ricci ( = AR). Per le epistole di cui abbiamo anche l’autografo ci siamo resi conto di quando AR sia pieno di errori,e stando così le cose, anche in assenza del riscontro con gli autografi, l’editore è autorizzato a emendare non solo gli errori (ove siano palesi), ma anche le lezioni inaccettabili o palesemente insoddisfacenti.
Anche lavorando su un codex unicus non ci si può sottrarre dall’emendazione con l’ope ingenii.
come congetturare:
Per congetturare, la sola vera regola che viene solitamente enunciata è quella di preferire congetture vicine alla lezione ritenuta errata; in tal modo, infatti, l’intervento è poco invasivo e, inoltre, si può comprendere o ipotizzare con qualche sicurezza la dinamica paleografica dell’errore stesso.
Come tutte le regole filologiche, anche questa non deve però trasformarsi in un dogma.
-
congetture ex fonte = eseguite individuando e correggendo gli errori del testo sulla base delle sue presunte fonti dirette o dei loci paralleli rintracciabili negli scritti di quell’autore o di altri.
La correzione ex fonte è più facilmente praticabile con i testi poetici, perchè adottano una lingua maggiormente codificata e uno stile formulare, e perchè nella poesia è in genere più agevole rintracciare le fonti.
la congettura difficilior:
Adottare, nell’attività emendatoria, sempre e solo il criterio dell’affinità paleografica fra lezione errata e lezione congetturale, o quello della congruenza fra emendazione e sistema linguistico dell’autore, può far sì che si prediligano le congetture fondate sul principio di analogia e sul rispetto della norma, con rischio di impoverire il testo.
Gianfranco Contini ritiene perciò più meritoria una congettura che introduca un ‘unicum semantico’, una parola o un’accezione rara > ‘congettura difficilior’.
La congettura difficilior infatti spiega il guasto > ‘se la diffrazione in presenza esalterà la lectio difficilior attestata, quella in assenza esalterà la congettura difficilior’.
conservatori e congetturatori:
è sempre meglio astenersi dai due estremi opposti: da un lato la presunzione di innocenza per cui ogni testo è da ritenersi corretto e buono fino a prova contraria, dall’altro la presunzione di colpevolezza che porta a ritenere sospetta qualunque lezione tràdita e a vedere errori anche dove non ce ne sono.
L’errore o la variante possono annidarsi ovunque, ogni lezione, pertanto, e ogni minima porzione del testo devono essere attentamente soppesate e vagliate con ogni strumento disponibile (ecdotico, linguistico, metrico, storico, critico).
Gli errori marchiani e lampanti sono rari, il guasto è spesso subdolo e invisibile a occhio nudo.
Anche perchè la prudenza è una cosa, un’altra è la resistenza a introdurre correzioni congetturali anche in presenza di lezioni inammissibili.
Bèdier riduce al minimo lo spazio della congettura.
- congettura diagnostica = una proposta divinatoria anche eccessiva che però presenta vantaggi superiori agli svantaggi arrecati dalla mancata considerazione di un’aporia nel testo tramandato.
In particolare sono utili le congetture non necessarie, poichè pur individuando un errore che non c’è e dunque correggendo a sproposito, contribuiscono a una migliore comprensione del passo in oggetto; anche se porta a rifiutare come superflua l’emendazione proposta, aiuta a meglio intendere quel passo.
conservare o modernizzare:
In quale forma è opportuno dare alle stampe, oggi, testi in una lingua e con abitudini grafiche lontane dalle nostre?
In genere, si è dell’idea che i fatti linguistici (fonetici, morfologici e sintattici) debbano essere rispettati, anche nelle loro difformtà e variazioni interne, mentre i fatti grafici possano essere generalmente modernizzati.
Chi è favorevole all’ammodernamento dei fatti linguistici sottolinea che, è importante che i testi siano offerti nelle migliori condizioni alla lettura per la maggioranza delle persone possibile, e quindi che la filologia debba dare ai testi le stesse possibilità di contesto della lingua e della cultura di oggi, con il massimo di fedeltà alla fonetica e il minimo di distorsioni.
Ogni metodo è accettabile, conservativo o modernizzante che sia, purchè risulti coerente e giustificabile, oltre che, s’intende, chiaramente esplicitato.
Ad esempio, nel 2015 Inglese pubblica un’edizione della ‘lettera a una gentildonna’ di Machiavelli, e nel 2022 lo stesso brano viene ripubblicati in versione ammodernata. In questa edizione si hanno ad esempio lo scioglimento di abbreviazioni e sigle, la soppressione della h etimologica, la regolarizzazione dei suoni e dei nessi palatali ‘c’ e ‘g’ (giente > gente)…
Con questa modernizzazione sistematica poco o nulla si perde realmente di significativo.
In compenso, conservando le grafie originali un lettore non specialista si farà alcune idee sbagliate sulla lingua di Machiavelli.
Considerazioni non diverse soggerisce la questione della punteggiatura.
Conservare la facies dei manoscritti è utile per i paleografici e gli storici dell’interpunzione, ma è anche vero che il filologo ha il compito di rendere chiaro e comprensibile il testo che pubblica, e dimostrare che lo ha capito (l’interpunzione dei manoscritti e degli incunaboli è quasi sempre povera e irrazionale).
la veste linguistica del testo fra autore e copisti:
Ogni copista tende a trascrivere i testi nella lingua che parla, dando vita così a un ibridismo formale, per questo, ogni manoscritto è linguisticamente diverso, e per i testi non autografi si pone il delicato problema della veste formale in cui pubblicarli, La soluzione più comune è seguire per questi aspetti un solo manoscritto, scegliendo quello in ui il copista adotta una lingua presumibilmente più vicina a quella dell’autore (bèdierismo formale e lachmannismo sostanziale).
Una variante di metodo è quella proposta dall’inglese Walter Greg per i testi trasmessi solo da stampe, che consiste nel ricorrere per la sostanza al testo dell’ultima edizione e per la forma alla prima (che si suppone più vicina al manoscritto originale).
Il ricorso al bèdierismo formale ha il vantaggio di produrre un risultato omogeneo e, se non vero, almeno linguisticamente verosimile.
Altrimenti vi sono due strade:
1. quella che pretende di ricostruire la lingua di un testo come se ne ricostruisce la sostanza, ossia appoggiandosi allo stemma e alla legge della maggioranza; poichè però la distribuzione delle forme linguistiche all’interno della tradizione è casuale (cioè poligenetica), la scientificità di qualsiasi ricostruzione formale fondata dalla maggioranza dei manoscritti è vicina a zero.
2. ricreare a tavolino la lingua di un testo non autografo prendendo a modello la lingua dell’autore così come possiamo conoscerla attraverso i suoi autografi a noi pervenuti o le stampe da lui curate e sorvegliate.
Ciò è possibile con scrittori dei quali possediamo un buon numero di autografi (ex. Machiavelli).
Un approccio almeno parzialmente ricostruttivo può essere consigliabile nei casi in cui non disponiamo di testimoni scritti in una lingua almeno affine a quella dell’autore.
Se il problema è invece la distanza cronologica fra originale e copia, è necessario quantificare tale distanza e verificare fino a che punto essa si traduca in un effettivo allontanamento linguistico.
Quando lo scarto non è eccessivo, è preferibile conservare la lingua del copista.
Per quanto riguarda la commedia, la soluzione bèderiana consistente nell’attenersi da vicino al manoscritto fiorentino considerato più antico ha riscosso scarsa fortuna fra gli editori;
non sappiamo in quale lingua Dante abbia effettivamente scritto la Commedia, per cui sussite il ragionevole dubbio che alcuni copisti fiorentini abbiano almeno in parte ritradotto nel loro volgare il testo originale del poema.
Petrocchi adotta quale base linguistica il Trivulziano, ma correggendone, col ricorso ad altri codici, i tratti più moderni e in genere quelli considerati estranei.
Sanguineti invece assegna la prorità ecdotica ai testimoni della tradizione settentrionale, dalla quale sarebbe derivata quella tosco-fiorentina (Sanguineti ha in tempi recenti mutato la propria posizione, affermando che la procedura più ragionevole per il poema sia quella di attenersi alla veste formale di un testimone vicino alla lingua e all’antichità dell’autore).
fideismo e scetticismo:
Da un lato, chi crede che sia possibile razionalizzare in termini stemmatici pressochè qualunque tradizione testuale e che il metodo neo-lachmanniano consenta nella maggior parte delle situazioni di fissare il testo su basi sufficientemente sicure e oggettive; dall’altro, chi osserva come quasi tutte le operazioni ecdotiche ricadano nel dominio del iudicium e come nelle tradizioni dei testi gli elementi imponderabili siano tali e tanti da rendere arbitraria qualunque ricostruzione a norma lachmanniana.
Le ragioni degli scettici sono difficilmente contestabili.
L’inquietudine causata dall’alta probabilità della contaminazione può almeno in parte trovare conforto in due ordini di considerazioni:
* di rado si trasmettono per contaminazione lacune o guasti macroscopici
* la quantità di errori comuni resta indicativa di una relazione, così è legittimo supporre che un testimone abbia più errori in comune con i propri affini (trasmissione verticale) di quanti non ne abbia con i testi con cui ha interagito su linee orizzontali.
In tal senso, il metodo di Lachmann si configura come il presupposto della filologia scientifica, giacchè svolge quanto meno un imprescindibile ruolo preparatorio e ausiliario: inquadramento generale della tradizione, semplificazione e scrematura non arbitraria dei dati, freno all’eccessiva libertà del iudicium, verifica di scelte e congetture.