lezioni vaccaro: introduzione alla filologia: Flashcards

1
Q

i principi orientativi:

A

Sono i principi su cui si basa la filologia; > consistono in domande mobili a cui ogni studioso cerca di dare risposte.

Si differenziano dalle nozioni apprese durante uno studio ( > risposte fisse, che immagazziniamo nella memoria e tendiamo a perdere se non coltivate).

La filologia ha il suo cuore nel ‘principio dell’esattezza’ (comune anche alla critica letteraria).

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2
Q

il principio dell’esattezza:

A

citazione di Edward Forster, teorico > “l’attività critica è educazione, principio orientativo, attraverso l’esattezza”.

L’educazione filologica/la filologia > non è un metodo, ma è un’educazione da intendere come attitudine/disposizione mentale di stampo dogmatico (cioè volta a farsi delle domande).

Neanche nel metodo della stemmatica però esiste la verità; quando costruiamo un albero genealogico, può sempre essere messo in discussione (ad esempio basta che esca fuori un altro codice).

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3
Q

ermeneutica e ecdotica:

A

Quando si parla di filologia, si parla anche di altri due principi:
* ermeneutica, tecnica (scienza) o arte dell’interpretazione
* ecdotica, tecnica o arte di pubblicare un libro, di realizzare un’edizione critica.

Non vi è ermeneutica senza ecdotica, e viceversa.
Per interpretare un testo, ci serve il testo. Per pubblicare il testo, non può non esserci l’interpretazione del testo stesso (sia come complesso linguistico che come manufatto).

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4
Q

la parola ‘testo’:

A

la parola ‘testo’ = viene attestata con il significato di oggi in Quintiliano (‘Institutio oratoria’) ed è una conquista del mondo cristiano (nel mondo greco il concetto di testo era diverso dal nostro; per loro il testo era qualcosa di orale, che pur si muoveva sui principi dell’inventio, dispositio e locutio).

Con la parola ‘testo’ si indica il tessuto in senso metaforico; l’arte del tessere. Da qui il concetto di ‘trama’, ‘tela’ e ‘ordito’; questi tre termini vengono dal Paradiso di Dante, 17°, nel Cielo di Marte, l’ultimo canto, coi precedenti quattro, in cui parla coi suoi avi.

Chiede a loro se potrà mai rivelare ciò che ha visto nell’Inferno, quando torna sulla Terra, e Cacciaguida gli risponde con le parole trama, tela e l’ordito, che rispettivamente sono i fili disposti orizzontalmente e verticalmente su un telaio per dare un tessuto finale (l’ordito).
Anche Petrarca parla di ordito e Ariosto di fila dell’intreccio narrativo.

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5
Q

il ‘diasistema’:

A

concetto formulato dal filologo Cesare Segre > ‘diasistema’ = è il risultato dell’incontro fra il copista e il testo da cui egli sta copiando.

Noi siamo infatti ‘agenti’, cioè esseri pensanti, con un bagaglio culturale, con un sistema linguistico.

Il testo ha un suo sistema linguistico. > dall’incontro dei due nascono varianti/variazioni. Esse costituiscono il diasistema.

Quando un copista comincia a copiare soprattutto testi molto estesi, sicuro commetterà degli errori, vistosi o meno.

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6
Q

i copisti di professione e per passione:

A

In ambito medievale sopratutto, vi era una distinzione fra
* copisti di professione/a prezzo > copisti da mestiere, che magari avevano scadenze, per cui andavano di fretta e non si soffermavano parola per parole (> da qui abbiamo le ‘banalizzazioni’ quando un copista non capiva una parola o una punteggiatura. La banalizzava secondo appunto il suo sistema linguistico, generando l’errore.

Qualsiasi errore su cui si costituisce la filologia, sia esso accidentale o no, è in filologia un’innovazione al testo, che svia dal modello precedente).

  • copisti per passione > gli eruditi, coloro che potevano permettersi il testimone (probabilmente autografo) e copiarlo senza fretta. Da ricordare che però, a prescindere, nell’atto di copia il copista introduce sempre qualcosa di nuovo (errori).
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7
Q

la segnicità:

A

Quando parliamo di testo, parliamo di segno, di segnicità, che è la condizione della ripetibilità: un testo fatto di segni, di grafemi, viene ricopiato e fatto perdurare; quindi, una segnicità è l’atto di far perdurare questi segni che noi abbiamo trovato.

Segnicità implica ripetibilità; parlare di ripetibilità significa parlare di produzione (il manufatto, un codex, l’originale) e riproduzione (la copia), che ritornano nel concetto della circolazione (i testi sono realtà vive che parlano e navicelle che viaggiano nel tempo di mano in mano prima di arrivare da noi).

Testo concepito come tessuto linguistico, ogni testo è contraddistinto dal segno linguistico.

La segnicità porta alla ripetibilità e alla circolazione (sia in letteratura ma anche nel teatro ad esempio, con i segni del corpo).

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8
Q

le domande del filologo:

A

Maggiori domande che deve porsi un filologo:
* che cosa significa esattamente il testo?
* chi è l’autore e come lo sappiamo?
* quando è stato scritto il testo
* * come ci è giunto un testo? quale è stata e come è avvenuta la sua trasmissione fino ad oggi?
* in che modo il testo di nostro interesse è circolato e continua a circolare?
* qual è il suo grado di esattezza/autenticità?
* il testo rispecchia la presunta volontà dell’autore? o vi sono errori, lacune etc? Molto probabilmente noi non sapremo mai la volontà dell’autore. Solo nei casi in cui abbiamo un testo a stampa, che costituisce necessariamente l’ultima volontà dell’autore.
Ancora più difficile è ricostruire ad esempio la prima volontà dell’autore.

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9
Q

archetipo e stemma:

A

L’archetipo dovrebbe essere il testo che andiamo a ricostruire con la filologia della copia.

L’archetipo è infatti il più antico esemplare, diverso dall’originale, da cui discendono tutti i testimoni superstiti di un testo.

Fra archetipo e originale può essere accaduto di tutto a livello temporale. L’archetipo potrebbe costituire semplicemente un anello della tradizione, distante moltissimi anni dall’originale.

Archetipo > l’antenato prossimo/antenato comune.

Lo stemma:
Lo stemma si legge sempre all’indietro (il processo di ricostruzione avviene dalla coda alla testa, dal basso verso l’alto).

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10
Q

Schlegel:

A

Schlegel scrisse due quaderni sulla filologia (pubblicati nel 1798). Schlegel scrisse Sulla Filologia, in cui dice che un filologo deve essere storico e uno storico deve essere filologo: infatti, entrambi tengono in considerazione i documenti (però, secondo Paul Mass, padre recente della nostra filologia, la filologia nel suo fine di ricostruzione di un testo è diversa dalla storia, che invece si concentra sul fatto storico, più che sul testo).

Si apre così una discussione nella scuola tedesca fra la filosofia della storia e la filosofia della filologia > il suo obiettivo (di Schlegel) era di unire i due concetti.

In effetti storico e filologo hanno in comune il considerare i documenti.

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11
Q

Paul Mass:

A

Padre recente della filologia. La filologia ha sempre come fine il ricostruire un testo, mentre uno storico spesso fa emergere/riscostruire il fatto storico .

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12
Q

Wolf:

A

Riteneva la filologia come metodo ciclico (si parla di ‘organon della filologia’, composto da 3 discipline: grammatica = lingua, critica = attribuzione della paternità del testo, ermeneutica. Doveva costituire la prassi per il filologo).

Il fine è storico; il fine ultimo dopo tutto il processo era di inserire il testo (dopo quindi averlo studiato) in un contesto storico-culturale.

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13
Q

Boeckh:

A

aback = voci che ricorrono solo 1 volta in un testo

Studiando i testi antichi si rende conto della presenza degli abacks, ed arriva alla conclusione che sia in letteratura che in filologia non si possono compiere generalizzazioni a livello linguistico, ma bisogna tener conto delle lezioni singolari, cioè che ricorrono anche solo 1 volta nei testi.

Aporia dell’usus scribendi (usus scribendi = principio per cui noi dobbiamo conoscere gli usi linguistici di un autore per poterlo studiare. Anche conoscendo i suoi usi linguistici, non è detto però che non ci troveremo davanti a situazioni particolari. Quindi neanche l’usus scribendi è un principio totalmente valido per ricostruire un testo).

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14
Q

San Girolamo:

A

A lui attribuiamo la doppia immagine di vecchiaia e giovinezza; bisogna far passare un testo da un stato di vecchiaia a uno di giovinezza.

testo/testimone base: testo da cui si sono generate tutte le contaminazioni

idea astratta di ‘archetipo’, cioè del modello da ricostruire

persistenza della vulgata: vulgata = testo che si attesta/si fissa in una determinata epoca, e che tutti utilizzano da quel momento.

Il principio della vulgata fu messa in discussione proprio dalle stemmatica e dagli studiosi seguaci di Lachmann. Per lui la vulgata andava messa da parte perchè testo contaminato.

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15
Q

Paul Mass:

A

Paul Mass scrisse la Textkritik, la Critica del Testo, una conquista per la filologia più recente, poiché rimette in discussione Lachmann.

Scrive quest’opera nel 1927.

La Textkritik costituisce una delle prime teorie della critica testuale, ad oggi ancora utilizzata sia nella terminologia, sia nel lessico.

L’importanza della novità risiede nel fatto che Mass non solo ha definito concetti, ma ha anche coniato una terminologia per la filologia che ancora oggi utilizziamo: i concetti effettivi di archetipo e di ipoarchetipo (o subarchetipo, per noi italiani) sono proprio formati per la prima volta da lui; conia anche il concetto di stemmatica; conia il fondamentalissimo leitfehler, gli errori significativi (guide che ci permettono di realizzare parentele tra testimoni, siano essi scritti a mano o a stampa).

C’è bisogno di errori significativi, evidenti: uno di questi è la lacuna, una mancanza di porzioni testuali nel confronto tra un testo e un altro (se esiste nel contrasto tra due testimoni, capiamo che i due non sono imparentati, ci fanno capire che derivano da due tradizioni diverse); un altro termine è quello degli errori congiuntivi, i binderfehler, ovvero quelli per cui un testo è integrale nel testimone A e nel testo B un endecasillabo non è più tale, risultando in una non parentela tra i due.
Parla della differenza tra storia e filologia (ovvero il fatto).

Mass utilizza nel trattatello immagini vive: una di queste è quella della sorgente pura, cristallina, di alta montagna, da cui poi si creano delle ramificazioni, con cui parla di stemmatica, di albero genealogico e di contaminazione.

La sorgente scorre dall’alto, scorre diversificandosi in varie affluenti, per poi incontrare terra e roccia, contaminandosi, fino a concludersi in valle.

Un’altra è quella di una fonte che sta sotto terra, nascosta (l’originale perso) con diverse sorgenti sottoterra, che poi si mostrano, poi si sotterrano di nuovo, per poi mostrarsi fino alla fine: l’acqua all’inizio è pura, poi si colora in diversi modi per ogni ramo e finisce per mostrarsi a noi o depurata o colorata; noi dobbiamo analizzarla chimicamente, che può riuscire o può dare un risultato spurio, con noi che, a quel punto, dobbiamo trovare il ramo più vicino alla presupposta acqua originale.

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16
Q

Nicolas de Clamage:

A

Non è nulla di nuovo, lo aveva già teorizzato Nicolas de Clamage, amico di Petrarca, in un’epistola in latino a Gontier Col ad inizio Quattrocento, in cui usa la stessa immagine della fonte.

Lui scrive che gli sta per spedire degli scritti, che devono però essere copiati: Col doveva infatti servirsi di qualche copista per ottenere delle copie degli originali autografi.

Dopo mette in risalto le preoccupazioni che anche autori come Petrarca e Boccaccio avevano, ovvero quelle degli imbrattacarte, dei copisti a prezzo, che copiavano disinteressandosi degli aspetti paleografici, grafologici e della punteggiatura; gli chiede, invece, di rivolgersi, se li trova, agli antiquares, i dotti antiquari.

Dopo aver ottenuto le copie, dice Nicolas, Col dovrà eseguire la verifica, la nostra collatio, ovvero il confronto delle copie con l’originale, solo così Nicolas potrà far circolare i testi.

Parla proprio del problema che i primi esemplari, se sono corrotti come una sorgente guasta, come possono sopravvivere, se poi ogni tratto corrompe in un modo peggiore il messaggio originale?

La richiesta finale è quella di compiere la collatio tra l’originale e il prodotto che verrà poi diffuso.

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17
Q

codicologia:

A

Il filologo deve ovviamente avere informazioni sullo studio dei codici > codicologia (concetto filologico che consiste nell’osservare e studiare il testo come manufatto, come bene culturale).

  • codex, codicis in latino = indica le tavolette di legno che, unite assieme da anelli, creavano uno dei primi codici (codici lignei),
  • volume = da ‘volvo’, rotolo di pergamena (volvo = avvolgere, come è avvolto il rotolo di pergamena).
  • liber = tecnicamente indica la pellicola che si trova fra il legno e la corteccia esteriore degli alberi, usata per la carta.

Alphonse Dain fu un importante filologo e codicologo del secolo scorso; il concetto di ‘codicologia’ venne coniato da lui nel 1944.

Prima di lui, il filologo Charles Samaran aveva coniato il concetto di ‘codicografia’ nel 1934.

Per entrambi i termini > unione fra latino (codex) e greco (graphia, logos).

Entrambi indicano lo studio dei codici manoscritti (e del testo a stampa).

Friedrich Adolf Ebert può essere considerato il padre della ‘scienza dei manoscritti’, che per Ebert era la codicologia. Tuttavia lui era un bibliotecario della scuola tedesca, quindi visse ben prima di Dain e Samaran.

A lui si deve appunto il concetto di ‘scienza dei manoscritti/della scrittura a mano’ e anche la distinzione fra varie discipline.

Ogni disciplina viaggia da sé:
* epigrafia (materie dure)
* papirologia (papiro)
* paleografia (carta)
* diplomatica (pergamena)

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18
Q

come è composto un ‘folium’:

A

Ogni folium è composto da 4 facciate complessive, quindi da 1 recto (fronte) e da 1 verso (retro).
Infatti uno degli obiettivi del filologo è anche quello di descrivere i testimoni che va a studiare per fare un’edizione critica.

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19
Q

i supporti scrittori: la pergamena:

A

Punto di partenza è Plinio il Vecchio, che nella ‘Historia Naturalis’ (13° libro cap. 21°) ci parla già dei primi supporti di scrittura accanto al papiro (foglie di palma, cortecce di alberi..).

Questo passo ci narra di come la pergamena (anche detta ‘membrana’ o ‘carta pecora’, poiché veniva creata dalla pelle di bovini e pecore) sia nata a Pergamo e fu inventata dal re Eumene 2°, poiché Tolomeo non voleva più fornire il papiro.

In filologia abbiamo 2 grandi supporti di scrittura:
* quelli di pergamena (membranacei o pergamenacei)
* quelli cartacei

Come ottenere la pergamena:
si otteneva la ‘spoglia’ ossia la scuoiatura; abbiamo poi il trattamento del derma, cioè dello strato intermedio fra epidermide (parte esposta) e l’ipoderma (parte adiposa).

Nel derma veniva trattata la parte più interna, quella che va verso l’ipoderma.

Obiettivo era di raggiungere la ‘pergamena fluens’, cioè una pergamena di pregio, che consentiva una scrittura fluida.

Per conoscere queste operazioni facciamo testo a 2 documenti:
1. il ms. 490 della Biblioteca Capitolare di Lucca
2. il ms. Harley 3915 della biblioteca di Londra

Produrre la carta in questo modo era molto dispendioso, e lavorare la pelle era anche soggetta a rischi riguardo alle parti dell’animale da cui veniva la pelle; le parti migliori per la lavorazione erano la schiena o il collo, mentre le peggiori erano le cosce o la parte posteriore dell’animale.
Per questo il passaggio dalla carta pergamena alla carta normale era stato epocale.

Inoltre, la pergamena doveva essere riciclata il più possibile e per riutilizzarla erano necessarie tecniche amatoriali; uno degli errori era di semplicemente raschiare via, ma questo andava a bucare la pelle.

Per questo per ripulirla era usato il bagno nel latte, che andava a sbiancare l’inchiostro sulla pergamena, che veniva poi rimosso con una spugna.

Dopo la pulizia, le fonti di parlano dell’uso della farina o della calce per sbiancarla. A questo punto la si lasciava asciugare.

Tuttavia, il motivo per cui si parla di ‘palinsesto’ è che parte del testo (invisibile a occhio nudo, ma visibile con i raggi uv) permaneva anche dopo la pulizia.

Il palinsesto = manoscritto di papiro o pergamena, di epoca antica o medievale, il cui testo originario (scriptio inferior) sia stato cancellato mediante lavaggio e raschiatura e sostituito con altro (scriptio superior) disposto nello stesso senso o in senso trasversale al primo.

Gli inchiostri erano artigianali, realizzati soprattutto con la noce di galla (malformazione che creano le piante quando vengono punte da tanti insetti); la noce di galla veniva trattata con l’allume e poi usata per l’inchiostro.

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20
Q

come ottenere la carta:

A

Come ottenere la carta:
Innovazione per il Medioevo fu la nascita del mulino ad acqua, che velocizzava la produzione della carta.

Oltre al mulino, per fare la carta servivano gli stracci, cioè indumenti di lino, canapa e cotone.

Uno dei maggiori studiosi di papirologia e codicologia fu Peter Tschudin; grazie a lui sappiamo che l’invenzione della carta è riconducibile al cinese Ts’ai Lun (105 d.C.).

Tschudin fu anche lo stesso che ribadì le origini di una delle prime cartiere al mondo, la cartiera di Samarcanda (751 d.C.).
Samarcanda > via della seta, Uzbekistan. Grazie alla via della seta arrivava la carta in Europa (sopratutto Spagna).

In Italia la carta arrivava dall’Egitto sopratutto, grazie a 2 repubbliche marinare (fra le 4, con Venezia e Pisa): Amalfi e Genova

Rivoluzione = cartiera di Fabriano (Marche).

Gli ‘strazzaroli’ erano coloro che raccoglievano gli stracci e li portavano alla cartiera, dove le cernitrici selezionavano gli indumenti e li sminuzzavano, li mettevano a macerare in acqua bollente per ottenere una poltiglia di fibre che creavano la carta.

Fabriano scopre il mulino ad acqua con maglie di piombo, che laceravano i tessuti e creavano la poltiglia.

Altra novità di Fabriano era il telaio rigido e la filigrana (oggi rapportabile al ‘marchio di fabbrica’).

La filigrana consente al filologo di avere un’idea del periodo in cui quel codice è stato realizzato. Essa era un segno (stemmi, lettere…) visibile in controluce.
Ci aiuta a ricondurlo a un bacino di produzione in attività in un determinato periodo.

Il telaio rigido, o modulo, prendeva dei colonnelli, dei rettangoli che distribuivano uniformemente la poltiglia, che formavano un reticolato, che tu immergevi, ad unire le fibre in intrecci diversi.

Sopra questa struttura c’è il cascio, un altro rettangolo che serviva a buttare via l’eccesso della poltiglia. Infine, nel reticolato si disegnava la filigrana, cosicché, in essiccatura, uscisse in controluce il disegno.

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21
Q

lo scriptorium:

A

Scorsa volta abbiamo parlato della Textkritik, che ci permette oggi di parlare dell’errore guida. Qual è la procedura che fa determinare l’errore e che il filologo deve conoscere? Partiamo dal dire che cosa è lo scriptorium, ovvero il luogo dove avveniva l’atto della copia.

Per arrivare, però, a fare parte di uno scriptorium, necessitavi un certo cursus di studi, a cui dovevi anche aggiungere due requisiti:
* La regolarità della scrittura, ovvero il criterio estetico, ovvero la perspicuitas, la chiarezza grafica e formale della scrittura, la sua calligrafia, in quanto queste scuole dovevano raggiungere un’identità propria di scrittura finale;
* La correttezza del testo, ovvero il non fare errori di copiatura, il cercare di copiare il testo nel modo più giusto e corretto possibile.

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22
Q

due modi principali in cui avveniva l’atto della copia:

A
  • singolarmente: quando a un copista veniva affidato un intero testo
  • in gruppo: ogni copista trascriveva un blocco testuale, alla fine veniva assemblato tutto e fatta una revisione testuale. In questo secondo modo i tempi di produzione erano velocizzati.

Se da una parte abbiamo un atto di copiatura fatta da un solo individuo col suo sistema, dall’altra abbiamo una velocizzazione della copiatura del modello con revisione finale, anche se aumentano gli errori.

Alphonse Dain (colui che copiò il termine ‘codicologia’) ci dà un ritratto dell’amanuense, che ritrae nel suo atto di copia solitario. Questo cancella e riscrive dove può, oppure segna hic nihil deest dove non c’è da aggiungere nulla, o deficit se deve aggiungere qualcosa, oppure R per indicare una correzione, e varie altre parole per indicare le fasi dell’amanuense quando copiava o emendava.

Per copiare, il copista non copia parola per parola, ma, avendo una memoria a lungo termine, immagazzinava un blocco testuale di varia lunghezza.

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23
Q

errori accidentali: poligenetici e monogenetici:

A

Quelli più frequenti sono quelli accidentali, che nel manuale sono distinti in poligenetici e monogenetici: i primi sono quegli errori che due copisti possono compiere indipendentemente l’uno dall’altro (es. omissioni di piccole parole, banalizzazionianche se può essere di varia natura;

il secondo è quello significativo, quello che ci consente di creare parentele o separazioni nel lavoro di ricostruzione. Solo grazie a questi possiamo dare vita alle parentele o non parentele fra i vari testimoni, muovendoci nel campo di ‘filologia della copia’ o ‘costitutio textus/ricostruzione del testo’.

Solo in questa noi andiamo idealmente a ricostruire l’ipotetico archetipo (l’archetipo è un’idea astratta di quello che è l’antenato ‘più prossimo’ dell’originale perduto)

Tra quelli poligenetici abbiamo quelli di:
1. Aplografia > cadono delle lettere; errori che non servono a ricostruire parentele, in quanto sono incidenti di stanchezza;
2. Dittografia, per cui si aggiungono lettere (per esempio, sperperare al posto di sperare);
3. Fraintendimento ottico, per cui si scambiano lettere per altre lettere (si collega all’ortografia, alla calligrafia, come c e g che si confondevano, stessa cosa per la f e la s sonora a forma lunga),
4. anche omeoarchia, cioè una copiatura veloce che ci spinge a leggere solo le prime lettere di una parola, per poi completarla senza finire di leggere la parola, e quindi sbagliandola (es., per “tradizione” scrive “traduzione”)
5. salto per omoteleuto ( = si ha quando due o più parole terminano alla stessa maniera o similmente.)/salto a pesce/lezione scorciata, per cui accade la pericope (es. manoscritto B70 del De Principatibus di Macchiavelli, che vede nell’originale una ripetizione di tenerlo, con tutto il tratto in mezzo ai due omoteleuti cancellato nella copia; sempre nello stesso manoscritto, accade la stessa cosa anche per parole che sembrano simili).

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24
Q

costitutio textis:

A

Quando parliamo di filologia della copia, parliamo di ricostruzione del testo, di costitutio textis, tramite cui ricostruiamo l’ipotetico archetipo, che è l’idea astratta del testimone più prossimo all’originale perduto.

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25
la fascicolazione:
serve non solo per descrivere i codici, ma anche per capire i primi sistemi editoriali (come quello della ‘pecia’, sistema medievale). La **fascicolazione** è alla base della ‘**mise en livre**’, cioè messa a punto del libro. L’unità minima di quando si parla di fascicolazione > il **foglio/folium** (da non confondere con la **mise en page,** cioè lo spazio/il rettangolo di scrittura; il *layout* che impostiamo su word con i margini) **Nel medioevo c’è un’evoluzione della mise en page**, che va di pari passo con altre scoperte (ex. l’uso da **una solo colonna a una doppia colonna di scrittura**, come il codice autografo del Decameron, l’Hamilton 90, scritto su doppia colonna). Il **folium** invece è la **superficie** del supporto scrittorio che utilizziamo. L’altra unità di base accanto al folium per la fascicolazione è il ‘**bifoglio**’ (composto da 2 carte recto e verso). Con queste unità troviamo i sistemi di fascicolazione usati nel corso del tempo: * il **binione**, due bifolia uno sopra l’altro, e quindi quattro carte retto-verso; * il **ternione**, fatto da tre bifolia; 3x2 = 6 cart r-v * il **quaternione**, da quattro bifolia; * il **quinione**, o quiternione, che è costituito da cinque bifolia, quindi dieci carte; * il sestione, da sei, molto utilizzato in Francia; il decanione, che ha venti carte retto-verso e che è l’ultima unità minima utilizzabile (non si va al di sopra dei dieci bifolia). Ci sono alcuni aggiustamenti che permettono o di rafforzarli o di aggiungere altro: * **Tallone**, il **prolungamento di una facciata di un folium** (immagina un quaderno normale: quando strappi un protocollo lo strappi dal centro verso l’alto; quando ne strappi uno normale, lo fai tirandolo dal lato verso di te; ecco, un tallone è un prolungamento dell’altro foglio di quel foglio protocollo perché resti ben cucito al fascicolo del quaderno), che mostra o la scomparsa di un folium, o l’aggiunta all’interno di un manoscritto di un unico folium; * **Brachetta**, una fascetta di pergamena piegata e incollata ad un folium per dargli **rafforzo** e permettere che venga cucito nella rilegatura del fascicolo (se quello di prima te lo devi immaginare come un foglio protocollo senza un foglio, qua devi immaginarti un foglio da stampa a cui aggiungi con la colla una striscetta di carta per pinzarlo in mezzo ad un quaderno; ovviamente non avrà un foglio corrispettivo dall’altra parte del quaderno); * **Fondello**, un brandello che **unisce due folia in un bifolium**; solitamente lo mettevano all’esterno di un fascicolo o all’interno. L’**infolio** era un folium piegato una sola volta (piegato in 2 > un solo folium piegato in 2, mentre il bifolium è formato da 2 folia); l’**inquarto**, nato con la nascita della stamperia, lo ottieni piegando due volte il folium e rendendolo quattro folia. Le due formule principali erano: * **La A2** , che erano due quaternioni posati uno sull’altro, creando **otto folia**; * L’**intonso**, ovvero una fascicolatura di **due quaternioni prodotti dallo stesso folium a cui non venivano tagliate le piegature dei fogli** (non succede dagli anni ’40, ma si intendono quelle pagine di un libro che non riesci a sfogliare separatamente perché ancora unite: quelle due pagine presentano una piega del quaternione originale che le unisce e che il lettore, da sé, doveva tagliare col taglierino). La **pecia** è il **pezzo di pergamena**, vocabolo antico di origine celtica preso dal francese e poi adoperato in italiano; indica **un fascicolo**, in particolare il **quinione**, per un totale di **dieci carte retto-verso**, usato nell’**università di Bologna** dagli studenti (a Parigi usavano, invece, il sestione). Per costruire un libro, il fascicolo diventa solo uno di più tasselli di un determinato libro. Per arrivare al libro, si metteva in moto tutto il sistema accademico: le *nationes* erano gli studenti, divisi in **citramontani** e **ultramontani**, con le Alpi come riferimento; le facultas erano le facoltà; il consiglio accademico, guidato dal rettore e formato da consigliere, tesoriere e peciari, andava a **stabilire i manuali di riferimento per ogni disciplina**; **una volta stabilito, questo codice diviso in pece veniva consegnato agli stazionari = i librai e le copisterie di oggi** (pensalo come un medievale sistema di dispense); da qui entra in circolazione tra gli studenti. La pecia è anche una tassazione: **lo studente si rivolgeva allo stazionario per prendere a noleggio la pecia, copiarla a casa e poi ritornarla per prendere la prossima**: su un codice di quattrocento carte, uno studente ci metteva un anno a ricopiarlo.
26
la pecia:
Indica un fascicolo, in particolare un quinione o quintilione. L’università di Bologna era divisa in nationes (i gruppi di studenti, divisi a loro volta a ultramontani (venivano aldilà delle alpi, come dalla Francia o dalla Germania) e citramontani (coloro che venivano prima delle alpi)) e facultas (le facoltà; le prime furono medicina, giurisprudenza, lettere e teologia). Per mettere in moto le lezioni il consiglio accademico (guidato dal rettore assieme ai sindaci, i tesorieri e i ‘peciari’) stabiliva i testi di riferimento. Una volta stabilito ciò, il codice (diviso in fascicoli/pece) veniva consegnati agli stazionari/copisterie. Una volta che il testo veniva revisionato dai peciari e poi arrivava agli stazionari, le pecie entravano in circolazione. Ogni pecia aveva un suo costo; lo studente lo prendeva in prestito, lo portava a casa, lo trascriveva e poi lo riconsegnava. Era quindi un procedimento lunghissimo; su un codice di 400 carte uno studente impiegava quasi un anno per copiarlo. **2 atti di copia**: * singolarmente (cistercensi e certosine); * simultaneamente; i benedettini copiavano distribuendo le sezioni ai vari copisti, che contemporaneamente trascrivono varie sezioni di un codice. Alla fine le sezioni vengono riunite e rilette dal capo del laboratorio. Quello della pecia era un lavoro singolare compiuto dallo studente, ad intervalli di tempo. Metodo ‘a tappe/a turnazione’ o ‘ a prestito’. I **richiami** servivano poi a portare avanti il lavoro di fascicolazione (solitamente erano la prima parola del fascicolo successivo posta alla fine del primo fascicolo). Boccaccio, attorno alle parole di richiamo, disegnava dei personaggi delle sue novelle. Una delle immagini medievali più famose è quella dell’amanuense che, in atto di copia, è seduto sullo scanno con davanti un leggio. Sulle gambe hanno solitamente un ‘**pluteo**’, cioè la tavoletta lignea che il copista poneva **fra** le sue gambe (tavolino). Sul pluteo andava collocato il **preductale**, che fungeva da sostegno al foglio (lo alzava) e serviva anche a mantenere la corretta andatura. Questo ci serve anche a capire che il copista non scrive come noi, ma, invece, adottava un **ductus lento e illustrato**; quindi, dipingeva, che ci fa capire come mai ci volesse così tanto sforzo. Nei casi della scrittura gotica, vedi come sia disegnata; la semi-gotica, l’evoluzione della gotica, vede l’evoluzione nella spaziatura, che permetteva meglio la leggibilità.
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i nuovi strumenti per scrivere:
Accanto ai supporti scrittori (pergamena, carta…), ulteriore rivoluzione sono gli **strumenti per scrivere** (gli egizi usavano il giunco); la grande innovazione fu quella dei greci col ‘**calamo**’ (ricavato sempre dal *giunco*, ma non più come pennellino ma come penna vera e propria). Nel **5° sec. d.C**. > nasce la **penna d’oca/di volatile**; il processo di lavorazione era lunghissimo; si immergeva la penna in una sostanza di acqua e arena per **sgrassarla**, si andava a **rimuovere il midollo** e a incidere col coltello per **appuntirla**. Riguardo l’inchiostro, quello più utilizzato era il ‘fero gallico’, cioè fatto in casa e fatto dalla **noce di galla** (che ha all’interno una sostanza oleosa, il’ tannino’). **Miscelato con sostanze metalliche, resina o gomma arabica**, il tannino creava l’inchiostro bruno. 2 erano le grandi tipologie di inchiostro in uso nel medioevo: * inchiostro **bruno** * inchiostro **rosso** (con cui si facevano le *rubriche*) Il **calamaio** (il contenitore dell’inchiostro) aveva solitamente 2 fessure, uno per ogni inchiostro. L’evoluzione dell’inchiostro va di pari passo con l’evoluzione della leggibilità della pagina. Il testo era costituito da **segnicità** e **ripetibilità**, queste due hanno a che vedere con la **leggibilità** di un testo. La pagina era la colonna di testo che si leggeva nel papiro. **scriptio continua** = è uno dei ritorni all’indietro del medioevo, infatti è la scrittura tutta attaccata senza spazi fra le parole. **La spaziatura è una conquista (come l’interpunzione) che avviene nel corso dei secoli**. giunco calamo stilo penne d'oca/cigno penna
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metodo aureo e metodo di Pitagora + altri strumenti:
La costruzione della mis-en-page vedeva due sistemi nel medioevo: * **metodo aureo/rettangolo a numero d’oro**: lo specchio di scrittura si ricavava tenendo in considerazione la base e l’altezza (cioè il margine inferiore e il margine laterale). Una volta stabilita la base, si stabiliva il lato. Poi si punta il compasso in O e si traccia la parabola. * il **rettangolo di Pitagora**: si basa sul rapporto fra lato corto e lato lungo, che deve essere di 4/3 (1,33) (base : altezza = 4 : 3). Ci potevano essere altri sistemi con rapporto ⅘ etc. Quando affronta la mis-en-page, **il copista non fa ogni volta il calcolo, ma col righello ricalca le linee sui fogli successivi**. Il **codice Parigino** del Decamerone è contraddistinto da tantissime illustrazioni, con una che è posta **oltre il rettangolo dell’impaginatura**: questo ci permette di datare il codice, in quanto ci dice che quel codice parigino è stato fatto prima che questo ci disegnasse. Altri strumenti per capire l’impaginazione sono: * I **margini**, che permettevano l’aggiunta di *postillati oltre l’impaginazione*; * La **scrittura**; * Il **coefficiente di riempimento della pagina**, ovvero la *disposizione della scrittura* nel riempimento della pagina, il rapporto tra il nero della scrittura e il bianco della spaziatura (la doppia colonna, per esempio, permetteva di avere più spaziabilità, più areazione nel foglio); * La **scelta della piena pagina o della colonna**; * Il **coefficiente di sfruttamento della pagina**, che indica la *densità dei tratti grafici* all’interno della pagina, quindi facendoci parlare della loro grandezza a seconda della tipologia di scrittura, del font (ognuna delle scritture, tra cui gotica e minuscola cancelleresca, che fiorisce nel Cinquecento e nel Seicento tra i cortigiani perché la più chiara, doveva essere pianificata nello sfondamento dello spazio interlinea nel caso di quelle lettere con l’asticella, come la p, la f in corsivo, la g e così via; stessa cosa vale, soprattutto, per l’italico).
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la tradizione:
Il concetto di **tradizione** indica l’**insieme di testimoni che trasmettono il testo di un’opera** (di nostro interesse, di interesse dello studioso). Quando si parla di tradizione, si parla anche di vicende interne ed esterne al testo: nel primo caso dobbiamo avere in testa i concetti di lezione e di variante, che sono differenti (lezione, da lego, è la parola come si presenta in un determinato testimone; la variante è una lezione alternativa, ovvero la lezione in un testimone diverso da quello scelto come riferimento). Considera, inoltre, che esistono anche varianti di tradizione e varianti di autore (le varianti dei manoscritti di Boccaccio sono diverse da quelle dei copisti). Le domande importanti sono “come ci è pervenuto il testimone? A quando si data? A che tradizione appartiene? Com’è costituito?”. Può essere che il nostro testo faccia parte di una miscellanea, e noi dobbiamo essere in grado di identificarlo in ogni modo possibile per tutti gli altri filologi (per esempio, è postillato, non è postillato, è fascicolato, che fascicolazione ha, di che materiale e così via). Tradizione **diretta** e **indiretta**: la prima riguarda i testimoni che vogliono trasmettere in toto il testo scelto (che può non essere completo); la seconda riguarda, invece, citazioni, brani, versi in altri autori, come per la Vita Nova di Dante, che non è circolata solo in modo unitario, ma anche per componimenti, in quanto prosimetro. Tradizione **organica** e **estravagante**: la prima è la tradizione di un testo integrale, nella sua completezza; la seconda è, invece, un testo riportato non omogeneo, non completo. Tradizione **monotestimoniale** e **pluritestimoniale**. Sono concetti importanti anche per la filologia dei testi a stampa: sul finire del Cinquecento, per diversi generi teatrali come quelli delle commedie pastorali, l’obbiettivo dell’autore era la circolazione. Se nel medioevo i testi circolavano in un gruppo, in un élite di persone ristretta, con la stampa abbiamo un gruppo più largo. Più pubblico, più emissione: ci possono essere casi in cui circola ancora una copia autografa, come nel caso dei dedicatari, ma, una volta stampato, il manoscritto autografo veniva distrutto; quindi, le copie date ai signori, che le volevano prima della stampa, sono uguali alla versione manoscritta, se togliamo gli errori. Allaa tradizione plurima appartengono i testimoni sia di tradizione indiretta, che diretta.
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tipi di testimoni:
Possiamo avere testimoni * **completi** e **incompleti**, ovvero quelli che ci danno il testo integralmente e quelli che ce la danno **acefalo** (cioè, che ha perso la parte incipitaria, introduttiva) o **mutilo** (cioè che ha perso la parte finale) o **lacunoso** (il concetto di lacuna si divide in *testuale* e *materiale*, ovvero dove si ha un errore significativo di salto di una porzione di testo, che ti mette sull’attenti, o di parti effettivamente danneggiate sulla materia). Le lacune si dividono in **lacune maggiori**, come quelle create dall’*allagamento di Firenze*, che ha distrutto moltissimi codici manoscritti col fango, o come quelle create dall’incendio della biblioteca di Torino nell’Ottocento, e **minori**, come quelle causate dai *pesciolini azzurri*, che rosicchiano e danneggiano la carta, o come le carte di fascicolo che son state staccate e poi riattaccate tramite brachetta con carte diverse e con una copia di bassa qualità della grafia dell’autore).
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la filologia della copia:
Parliamo di filologia della ricostruzione della copia. Volendo offrire una definizione di questa, la filologia della copia è quella filologia che, **da uno o più testimoni di una tradizione, si spinge il più a ritroso possibile nella ricostruzione di un ideale archetipo, che, si suppone, derivi da un originale perduto**.
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l'archetipo e l'ideale corrotto:
L’archetipo è quel testimone ipotetico e ideale che si pone al **vertice della catena ricostruttiva, però già corrotto, poiché lo scarto temporale o di copia che lo pone a distanza dall’originale non lo possiamo conoscere**. Noi ci spingiamo a ricostruire la volontà dell’autore **consapevoli** che il risultato coincide con un ideale già corrotto: per esempio, la Divina Commedia, di cui non abbiamo l’autografo, a nove anni di distanza era già un testo contaminato, una conclusione a cui Enrico Malato arriva studiando il testimone dalla sigla **Mart**, che richiama **Luca Martini**, che nel Cinquecento ritrova un **esemplare ricopiato da un certo Forese**, che una buona parte degli studiosi di Dante fa ricondurre a Forese Donati, amico e poeta di Dante. Luca Martini entrò in possesso di questo codice e riportò le correzioni della Commedia nell’Edizione Aldina (della tipografia di Aldo Manuzio) del 1515, il cui testo Luca emendò con delle varianti presenti all’interno del Forese Donati, riportandoci anche delle **sottoscrizioni** presenti all’interno di questo codice, in cui **Forese afferma di aver compiuto la sua opera di trascrizione tenendo sotto mano più codici: quest’operazione ci fa capire che il copista Forese, dove il testo non funzionava, usava questi codici per correggere secondo il suo iudicium**, operazione compiuta tra il **1330** e il **1331**, un testo già contaminato a **nove anni dalla morte di Dante**. Abbiamo uno stemma codicum della Commedia fatto per tutti i manoscritti fino a metà Trecento, riportando quindi i più importanti degli oltre ottocento che abbiamo.
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le edizioni miste:
Nella filologia della copia, però, includiamo anche gli autografi delle edizioni miste: è il caso del Decamerone. L’autografo, in questo caso, è il codice Hamilton 90. **Dati quattro testimoni di nome A, B, C e D, se io ne prendo solo uno e ci faccio un’edizione critica, sto compiendo un atto filologico? No**, perché non è un atto né obbiettivo né sistematico (con questo termine ci si riferisce al sistema dello stemma codicum). Mettiamo il caso che io studi l’A e necessiti, all’occorrenza, di usare i manoscritti B, C o D, starei facendo un atto filologico? No, perché **non starei tenendo a mente le parentele tra i testimoni**. **Questo è lo studio fatto dai filologi del Trecento sino ai pre-Lachmanniani**: prima si prendeva in considerava il *codex vetustior*, ovvero il codice più antico, che per loro era quello più degno di autorevolezza; quindi, l’umanista basava su questo codice tutte le operazioni di emendatio. L’umanista, **se aveva a disposizione più codici di un classico, poneva di fronte il codex vetustissimus o vetuxior, emendandolo sulla base del suo iudicium**: è qui che entra in scena l’abilità interpretativa degli autori, come Poliziano nei Miscellanea, per cui non si sta avendo un atto filologico. Giorgio Pasquali, grande filologo che realizzò l’edizione della Textkritik di Paul Mass, scrisse recensiores non deteriores, ovvero che i testimoni recenti non sono i peggiori, volendo dire che anche i testimoni più vicini a noi non sono da scartare, ma che, anzi, sono forse delle vie traverse di manoscritti più puri e incontaminati.
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le fasi dell'edizione critica: il 'census':
La prima fase dell’edizione critica è il census, a seguire recensio e collatio. L’operazione del censimento coincide con l’**individuazione, il reperimento e la raccolta dei testimoni che ci trasmettono il testo di nostro interesse**. È un’azione di pura ricerca che passa per inventari, cataloghi cartacei e digitali, per segnare archivi e biblioteche volte a individuare i manoscritti di nostro interesse; inoltre, si ha il **rifiuto del textus receptus, ovvero della vulgata**, il testimone non più autorevole, ma **in maggiore circolazione di una determinata epoca **(vale anche per le critiche contemporanee, sennò non ha senso scrivere una nuova edizione, se ti basi solo su quella precedente).
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le fasi dell'edizione critica: recensio e collatio:
Dopo la fase del census abbiamo **collatio** e **recensio** insieme, in quanto coesistono quasi automaticamente: la recensio consiste nell’accertamento valutativo e qualificativo dell’edizione che abbiamo in possesso sia a livello dei testi (interno), sia la sua dimensione materiale (fascicolatura ecc.; esterno); la collatio viene da confero, ovvero il mettere assieme, il confrontare, che quindi fa parte dell’accertamento valutativo della recensio, in quanto l’accertamento si basa sul confronto. Il filologo, solitamente, stabilisce un esemplare di riferimento, un esemplare di collazione su cui basare il confronto con gli altri testimoni; solitamente si sceglie un testo completo, poiché facilita il processo di confronto. Non tutti gli errori sono utili in fase di 'recensio': vi sono **errori 'facili**' (che non hanno rilevanza filologica) e qundi *non sono indizio di parentela* fra i testimoni perchè possono essere commessi *sepratamente* da vari copisti, ed **errori 'significativi/guida**', rilevanti. Essi devono essere **monogenetici**, cioè tali che due o *più copisti non possano esservi ricorsi indipendentemente*, e tali che i copisti dei codici che non li presentano *non possano averli emandati* per congettura. !!! = **Gli errori individuati in fase di recensio devono essere obbligatoriamente corretti, laddove sia possibile farlo con sicurezza**.
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le fasi dell'edizione critica: conspectus siglorum:
La recensione ci porta davanti al **conspectus siglorum**, ovvero la **denominazione**, la siglatura dei manoscritti, che **ci serve in fase di commento e di ricostruzione dello stemma codicum**, per cui, magari, chiamiamo A il codice 61 della Biblioteca provinciale “---” di --- e **solitamente si dà, come lettera, l’iniziale del luogo di conservazione** (per convenzione ormai consolidata, infatti, l’**Hamilton 90** è stato chiamato **B**, in quanto da **Berlino**). Alle volte capita che la denominazione porti il **nome o del fondo di conservazione o della personalità**, che lo ha esemplato: quell’edizione di Luca Martini è chiamata **Aldina** poiché richiama l’edizione della personalità di **Aldo Manuzio** (il tipografo). Tutte queste informazioni sono nella **nota al testo**, che precede, ovviamente, il testo che si sta commentando con la presentazione dello stemma codicum.
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il 'codex descriptus':
Immaginati di avere due testimoni, A e B: se il testimone B ha gli stessi errori significativi monogenetici del testimone A, allora può essere discendente dall’A, o viceversa > parentela Quando si verifica questa condizione, siamo in una situazione chiamata **codex descriptus**, ovvero **un codice che può essere scartato, in quanto ci presenta una condizione degenerativa rispetto ad un codice che già abbiamo**. Non sono solitamente così semplici da scartare, questi codici, proprio perché si chiamano tali SOLO dopo aver avuto diverse prove esterne ed interne di questa condizione.
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l'archetipo ideale:
Un’altra condizione è che A e B discendano da un antenato comune, che è un testimone ideale e ipotetico: si verifica **quando un testimone B presenta gli stessi errori significativi di A, ma con diversi altri errori significativi; dunque, sono testimoni fratelli.** Con la **collatio** di entrambi si può avere un **archetipo ideale**, e questo proprio grazie a questi due **subarchetipi**.
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tradizione chiusa e aperta:
Le **lettere maiuscole** delle denominazioni dei testimoni sono per indicare i **testimoni reali**, quelli di cui abbiamo possesso; le **lettere in greco** sono i **testimoni ideali e ipotetici**, gli anelli intermediari di cui abbiamo bisogno per ricostruire lo stemma; **x** è l’**archetipo**. Quando parliamo di **strutture fatte da famiglie e sottofamiglie**, e quindi abbiamo delle fasi intermedie in una catena, stiamo parlando di una **tradizione chiusa**; è invece **aperta** quando tutti i miei testimoni non hanno sotto-parentele, ma **vengono tutti dallo stesso archetipo**, che ci complica tutto, poiché ci annulla la legge della maggioranza (poichè i manoscritti discendenti direttamente dallo stesso archetipo, senza sotto-parentele, non hanno errori che prevalgono nella tradizione in maniera palese, come invece accade con testimoni discedenti da altri).
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emendatio ope codicum:
Come procede il filologo? Adotta la **legge della maggioranza**, una legge della probabilità, chiamata anche **emendatio ope codicum**, per cui la maggioranza di codici di una tradizione dà un’ideale maggiore veridicità. Però, perché accada, devo essere certo che entrambi i rami abbiano gli stessi errori significativi riportati, altrimenti non la posso applicare.
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'lectio difficilior' e 'usus scribendi':
Se la 'emendatio ope codicum' non porta grandi risultati poichè succede in un solo ramo, si fanno due operazioni molto complesse: il criterio della **lectio difficilior** e il criterio dell’**usus scribendi**, entrambe le quali devono essere basate su una base testimoniale. Devo avere delle situazioni adeguate alle quali io possa approvare in maniera decisiva. * La **lectio difficilior** è quella lezione per la quale la lezione più difficile è quella giusta, *supponendo che un copista abbia banalizzato una lezione* per errore di comprensione. * L’**usus scribendi** si tiene in conto quando si parla di lectio difficilior e solitamente è chiamabile anche *contestualizzazione*. Uno dei più famosi esempi di lectio difficilior è il verso 31 del 3° canto dell’Inferno dantesco: E io ch’avea d’**error** la testa cinta. Nella maggior parte delle edizioni noi vediamo orror. Giorgio Petrocchi, a cui dobbiamo l’edizione del 1966-67 della Commedia, metteva in risalto come la variata alternativa, la *lectio difficilior* error, è da accogliere rispetto ad **orror** per *contestualizzazione* e perché i testimoni che la riportano sono quelli più autorevoli. L’area semantica dell’orrore è **già usata** nella scena in cui sta per varcare la porta, ma nel verso 31 Dante si riferisce a Virgilio: per Petrocchi, 'orror' cozzerebbe con la sua comparsa qualche verso dopo, in quanto **ripetizione di un’area semantica**; inoltre, Dante poteva solo essere confuso in quel momento lì, **non poteva ancora conoscere l’orrore dell’Inferno senza averlo varcato**; infine, tra error e orror si genererebbe una paronimia. Per giustificare ancora questa scelta, lui chiama in questione tutti i testimoni più autorevoli, tra cui l’edizione **Mar** (per farti capire quanto siamo messi bene nella ricostruzione del testo originale) e il codice **Asburnaniano 828**, conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana e il **Trivulziano 1080** a Milano. Un altro verso è il 69 del 24° dell’Inferno: ma chi parlava **ad ire** parea mosso, per Petrocchi. Gli stessi criteri di sopra sono stati applicati anche qui. Un’altra tradizione metteva invece **ad ira**, che mette ancora di più in contrasto l’ira del pistoiese **Vanni Fucci**, uno dei **ladri** che viene colpito da serpenti mentre corrono; **ad ire**, infatti, mostra l’iter, il muoversi, “**ma chi parlava pareva mosso al muoversi**”; **ad ira**, invece, è una **lectio semplicior**, in quanto è molto più facile da capire per un copista. Addirittura, Petrocchi ci dice che non è stato il primo, in quanto **Foscolo** e Zani dei Ferranti, nell’Ottocento, l’avevano già inserita **nelle loro edizioni**, scelta basata sul codice Cassinese, che vede capitoli del Comentum alla Commedia di Iacopo de’ Alighieri, ovvero il codice **Ottoboniano Latino alla biblioteca vaticana**, che ci scrive che **“tuttavia, chi aveva scritto questa voce sembrava mosso non all’ira, come dicono erroneamente altre versioni, ma al movimento**” (risulta, quindi, in una testimonianza indiretta).
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la tripartizione nell'edizione della Commedia di Petrocchi:
L’edizione della Commedia di **Petrocchi** vede una **tripartizione**, ovvero: * **testo** della Commedia * un **apparato critico negativo** * un **commento alle scelte filologiche effettuate**. In questo caso si parla di apparato negativo o implicito, in quanto nel testo riporta solo la lezione scelta e nell’apparato, invece, non scrive la sua, ma riporta tutte le altre varianti di tutti gli altri testi; in un apparato positivo, invece, avrebbe scritto sia la sua sia tutte le altre lezioni. È una questione di leggibilità. Nell’Hamilton 90 le doppie colonne fanno risaltare ancora di più le iniziali, per garantire la leggibilità.
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sul materiale autografo di Boccaccio:
Il **materiale autografo** di Boccaccio è abbastanza **ricco** e anche collocato in un arco temporale definito (**1330-1370**). Abbiamo complessivamente **34 codici manoscritti autografi**; * **22** riguardano **le sue opere e i testi di autori antichi trascritti da Boccaccio** (*Decamerone*, *Teseida*, *Buccolicum Camen*, *Trattatello in laude di Dante*, ma anche i ‘*codici miscellanei/zibaldoni*’, cioè raccolte di opere, ad esempio latine). Anche le *lettere private* (ex. quella a Leonardo del Chiaro) * **11** sono i **notabilia**/**marginalia** (le *postille*) * **parigino latino 6802** (copia dell'*Historia Naturalis* di Plinio il Vecchio) > famosa per l’illustrazione dell’*airone* di Boccaccio Fra i 34, **solo 3** codici presentano la **sottoscrizione autografa** di Boccaccio. Tutti gli altri sono stati soggetti a studi sulla grafia.
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il testamento di Boccaccio:
Testamento di Giovanni Boccaccio: redatto il **28 maggio del 1374**, mentre la morte sarà il **21 dicembre del 1375**. Ne possediamo sia il documento in **latino** che quello in **volgare**. All’interno del suo testamento Boccaccio **lascia in eredità i suoi libri** a un frate agostiniano (**Martino da Signa**). A da Signa, Boccaccio lascia ‘tutti i suoi libri tranne un breviario’. Dopo la morte di da Signa, i libri di Boccaccio passeranno agli altri frati del **convento di Santo spirito** a Firenze. 2 clausole nel testamento: * i frati dovranno lasciare **libertà agli studiosi di consultare** i libri di Boccaccio, potendo anche copiarli * i frati dovranno realizzare un **inventario** dei libri donati da Boccaccio (‘omnes suos libros’) I frati realizzano un inventario dei libri (vari anni dopo la morte di Martino da Signa, intorno al **1450**); sono registrati **107 codici** di Boccaccio, ma oggi da questo inventario sono stati rinvenuti solo **18** manoscritti. Un altro nome importante fu **Vincenzo Borghini**, che dobbiamo ringraziare per il **recupero del testamento in volgare**, accaduto nel Cinquecento. Borghini ebbe in incarico nel 1573 da Cosimo I de’ Medici di attuare la “**rassettatura” del Decamerone**, il **ripulire la vulgata in circolazione** (in questo caso l’**edizione Giuntina** del **1527** della topografia dei Giunti di Firenze, un’edizione stracolma di errori). Borghini fu dunque messo a capo dei lavori, che finirono nel **1574** con l’**Edizione Romana** e l’accompagnamento (uscito l’anno dopo) intitolato **Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decamerone**. In questa pubblicazione, dopo il proemio, Borghini pubblicò il testamento in volgare scomodando **Giorgio Vasari**, che nel 1573 dichiarava di non aver trovato ancora nulla. Pochi mesi dopo lo trovò e lo diede a Borghini, che ne fece una copia sua. Il testamento circolava con **molte lacune dovute all’acqua e all’umidità**, e lo capiamo perchè Borghini deve spesso interrompere la copia dell’opera perchè non capisce cosa c’è scritto. Il documento, oltre a per il suo contenuto, è interessante anche per le **annotazioni di Borghini** (la ‘**k**’ abbreviazione di ‘**che**’ o la postilla ‘**ancora sempre senza h**’).
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gli studi sulla grafia di Boccaccio:
Boccaccio ha usato **dictus grafico** diverso in base alla sua vita, e le attribuzioni sono state fatte in base alla data. **Piergiorgio Ricci** fu uno dei primi studiosi della grafia del Boccaccio, sopratutto lo studio relativo alla genealogia. **Giorgio Padoàn**, critico e filologo, mise in discussione anche il fatto che Boccaccio abbia donato ai frati **non solo le opere in latino ma anche quelle in volgare**. Prende in riferimento una lite giudiziaria fra il **fratello di Boccaccio** e **Martino da Signa,** a proposito di 24 quaderni e 14 quadernucci in carta bambagia, che costituiscono le '***Esposizioni sopra la commedia di Dante***’, di cui non possediamo autografo. Questa opera, secondo Padoan, farà interessare Martino da Signa alle opere in volgare. Secondo questa teoria, dopo la morte di Martino da Signa il convento cambierà strada (confermata dal fatto che i codici in volgare non presentano diciture fiorentine, come lo stesso Hamilton 90).
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il rapporto Petrarca-Boccaccio:
Donazione della Commedia da Petrarca a Boccaccio > **Vaticano Latino 3199** * immagine dell’**airone** all’interno del **Trattatello**. * **Trattatello** = prima biografia di Dante. Menziona il *sogno* della madre di Dante; prima di partorire, la madre di Dante avrebbe sognato il figlio sostare presto un fiume e mangiare delle bacche della pianta di Apollo, l’alloro. Dopo, la madre sogna che il figlio si getti in questo fiume e riemerga trasformato in *pavone*. La trasformazione è un’allusione alla scrittura della divina commedia. **100 occhi del pavone**: i **canti della Commedia** la **voce stridula**: le **rime aspre e chiocce** di Dante che caratterizzano le ultime 4 zone dell’inferno l’**andatura instabile del pavone**: il **cammino** di Dante . E' poi un’immagine dell’**otium poetico**. * la carta 143v delle '*Historia Naturalis*' di Plinio sempre nel codice **Parigino**, che è **un codice che Petrarca e -boccaccio si sono prestati postillando** dove è scritto 'Non erano quelle di Certaldo' in latino, che gioca sull’intratestualità delle cipolle di Plinio con quelle della novella decima della giornata VI con Frate Cipolla, che inizia con le cipolle di Certaldo. Avevano anche un rapporto **maestro-discepolo**, che possiamo vedere nelle loro **epistole** e nella loro **condivisione dei libri**, nella loro bibliofilia, che vediamo nelle Seniles. Di Boccaccio abbiamo un corpus molto corto, mentre di Petrarca ne abbiamo circa **576**, raccolte distinte tra Familiares, **24** libri, Seniles, **17**, e missive. Esempi di missive sono la **5° del I libro** del 28 maggio 1362 e la **2°** del 28 aprile 1373. La prima è **testimonianza della condivisione del sapere**, che poi si ripresenta nella successiva, in cui fa riferimento all’immagine degli eremiti Paolo e Antonio. Boccaccio donò a Petrarca non solo una trascrizione del testo della **Commedia**, ma donò anche le **Narrationes in salmos** di Sant’Agostino in due libri, donato all’altezza del 1355, ovvero il Parigino Latino 1897, che contiene il commento di Sant’Agostino ai 150 salmi; inoltre, donò anche il **De lingua latina** di Varrone e il **Pro Cluentio** di Cicerone, ovvero il nostro Laurenziano 51.10, che trovò in un monastero a cui Petrarca non aveva accesso. Circolazione del Decmaeron: La prima data che sappiamo è quella del **1348**, quella della *Peste* di Firenze. Sappiamo, anche se non certamente, che certe novelle circolavano già nel **1340**, quando ritornò da Napoli, dall’introduzione della IV Giornata, in quanto ci fa pensare che gli accusatori, per accusarlo, le avessero già lette, e quindi lui le avesse già pubblicate). La seconda è quella del **1360**, in cui scrive una lettera spedita da Francesco Buondelmonti allo zio Niccolò Acciaiuoli, il cui **mittente doveva essere un allievo di Boccaccio** e che ci conferma certamente che il **Decamerone *integrale* girasse soprattutto nell’ambiente mercantile**, testimoniandoci la **1° redazione del Decamerone** (l’**Hamilton** testimonia la 2°).
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il Frammento Magliabechiano:
Uno dei primi testimoni della prima redazione è il frammento del manoscritto II.II.8, o **Frammento Magliabechiano**, chiamato così in quanto è composito, assemblato, da **frammenti del Decamerone**. **Il copista, anonimo, menziona Boccaccio come ancora in vita**; perciò, viene datato tra la **fine degli anni ’50 e ’60 del Trecento**. È una sorta di antologia che comprende il **proemio** al Decamerone, che è però **inventato dal copista** (lo leggi alle carte 20r e 21r), gli **estratti delle chiuse delle giornate dalla I alla 9°** (solo le conclusioni) con le lor rispettive **ballate**, la trascrizione della **novella 9°,10** su Donno Gianni. Questo frammento si inserisce all’interno della prima tradizione manoscritta del Decamerone. All’interno del Proemio il copista scrive il valoroso messer Giovanni di Bocchaccio, a chui Iddio Presti lungha e prosperevole vita chome a liui medesimo è piacere, che ci conferma che era in vita. Marco Cursi è riuscito a scoprire che era un **funzionario di madonna Lapa Acciaiuoli, sorella di Niccolò Acciaiuoli**, prima citato. Come ha raggiunto questo risultato? Con degli studi paleografici, per cui **ha messo a confronto un altro codice paleografo**, il Panciatichiano 32, che tiene qualche novellina del Novellino, la cui mano è la stessa che è stata anche trovata in altri codici. Noi sappiamo che Boccaccio era molto vicino a questa famiglia.
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la trascrizione codicologica dell'Hamilton:
Altro documento è la **trascrizione codicologica** del manoscritto hamiltoniano, sempre fatta da Marco Cursi, e la trovi nelle slides. Con **Berlin Sb** indica il luogo, poi continua indicando che è **membranaceo**, che ha **112 carte**, una carta bianca ad introduzione e una carta bianca conclusiva. Originariamente, il codice Hamiltoniano era composto da **sedici fascicoli/quaternioni** (quindi 8 carte retto-verso x 16). Nell’Hamilton vedi i **richiami**, che congiungono i fascicoli e intorno ai quali Boccaccio si diverte a **disegnare**. Cursi ci dice anche che **sono caduti tre fascicoli**, ovvero i quaternioni primo, undicesimo e sedicesimo, e che ci sono diversi **errori poligenetici** (quindi, nonostante sia una bella copia del 1370, si vede comunque che è stato copiato cinque anni prima della morte, a ridosso della malattia che lo colpì nel 1374). Ha una carta iniziaria del 15° secolo, **diverse correzioni e varianti alternative in margine e interlinea**, che mostrano **cinque varianti d’autore**. Indica che ci sono due **maninculae**, ovvero i punti d’interesse e le figurine che collegano i fascicoli ( = La manina è un segno a forma di mano disegnato ai margini di una pagina, mediante il quale si vuole porre evidenza su un particolare passo del testo) Ci dice che ci sono stati **diversi punti in cui l’inchiostro stava svanendo e che sono state riempite da persone che hanno sbagliato**. Grazie a Branca, conosciamo anche la biografia del manoscritto dalle postille di Pietro Bembo e di Angelo Colocci, accompagnate da quelle di altre dieci mani.
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come facciamo a sapere che il codice Hamiltoniano facesse parte della biblioteca di Giuliano de’ Medici?
Vittorio Branca scrive un qualcosa d’interessante, ovvero che il codice, alla carta **111v**, presenta un’**aggiunta di un sonetto scritto nel Quattrocento come fine del Decamerone** da **Pellegrino Zambeccari**. **Apostolo Zeno** (1600-1700) mostra a Branca (non erano contemporanei, Branca lo “consulta” dai suoi documenti della sua biblioteca, che poi è stata esportata) che **questo poeta si trovava anche nel manoscritto Italiano IX 203** (**Biblioteca Marciana**), che nella carta 36v mostra il sonetto dello Zambeccari **con aggiunto dietro il libro delle Cento Novelle del nostro Giul. de’ Medici** ducsa di Nemours. Da Giuliano de’ Medici è passato con probabilità a **Bembo**, che nel periodo di Urbino lo passò ad **Angelo Colocci**. Tempo dopo arrivò da **Zeno** ai suoceri e, per via delle confische napoleoniche, non alla biblioteca marciana con le altre cose della biblioteca zeniana, ma nelle aste di Venezia, in cui **passò il duca di Hamilton**, il cui fondo ancora oggi lo contiene. La rilegatura di oggi fu fatta dagli inglesi nel 1882 (il duca di Hamilton in quel momento si trovava in Inghilterra) e passò infine nel 1883 nella biblioteca di Berlino. **Boccaccio** -> **Pellegrino Zambeccari** scrive il sonetto -> nel Cinquecento sappiamo fosse nelle mani di **Giuliano de’ Medici** dalla presenza del poeta nel manoscritto italiano IX 203, contenente il suo libro; Giuliano aveva copiato il sonetto nel suo libro) -> lo dà a Bembo, che lo dà a sua volta a **Angelo Colocci** (li si vede dalla grafia delle postille) -> nel Settecento ce l’ha **Apostolo Zeno** -> finisce ai **suoceri** -> **confische napoleoniche** -> anziché nella **Biblioteca Marciana di Venezia**, finisce nelle aste -> lo compra il **duca di Hamilton** -> rimane a Berlino e lo trova e studia Vittorio Branca. Prima di studiare la biografia di Boccaccio, Branca riuscì a portare il codice Hamiltoniano alla biblioteca marciana di Venezia, in quanto si poteva disporre, ai tempi, solo della riproduzione filmica in bianco e nero dell’Accademia della Crusca, che però non permetteva la lettura della grafia e lo studio dell’inchiostro, soprattutto anche perché nella Germania del 1960 non si poteva girare in pace.
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stemma codicum del Decamerone:
Il primo albero genealogico mostrato nelle slides è offerto da **Branca**, mentre l’altro è uno stemma codicum realizzato da **Maurizio Fiorilla**. Lo stemma codicum è bipartito in due rami: * a sinistra abbiamo il codice denominato “**P**”, che porta la denominazione del luogo in cui è custodito, cioè, Parigi, essendo il codice **Parigino Italien 482**, custodito presso la biblioteca nazionale di Francia; la data di realizzazione è posta al **1360** e lo colloca insieme al **frammento Magliabechiano**, con cui costituisce quella che viene chiamata la **prima fase relazionale del Decamerone**; Fiorilla dispone il codice più vicino all’archetipo rispetto agli altri; * nel ramo di destra troviamo i nostri codici reali, che sono “**MN**” (**Mannelli**, che era un copista per passione) e “**B**” (**Berlino Hamiltoniano**, bella copia autografa), che vengono considerati la **seconda fase redazionale del Decamerone**. Hanno entrambi **un parente in comune, un testimone ipotetico a noi ignoto**. Per la ricostruzione del Decamerone possiamo constatare che i due rami della tradizione devono coincidere. L’Hamilton è costituito da **16 fascicoli, ognuno dei quali è un quaternione** (costituito da 4 bifolia per un totale di **8 carte recto-verso**). Sono **caduti tre fascicoli**: il 1°, l’11° e il 16° quaternione, ovvero quello conclusivo: queste sono le tre lacune. Nel primo quaternione troviamo il **proemio del Decamerone reintrodotto da un altro copista anonimo del Quattrocento**, il quale non solo non ha inserito la miniatura iniziale, ma ha anche tentato di imitare la grafia di Boccaccio: questo è un esempio di **bracchetta**, quella fascetta che serviva per rafforzare i codici e soprattutto per inserire altre carte, se servivano. Una delle ipotesi più verosimili per la perdita di questa carta proemiale è stata tolta perché presentava la sotto iscrizione autografa di Giovanni Boccaccio e, quindi, faceva molto gola. Le figurine a mezzo busto rappresentano i novellatori o i personaggi delle novelle di Boccaccio. Il codice Hamiltoniano non è un codice da lavoro ma è una **bella copia**, ed è stato copiato meccanicamente da Boccaccio stesso. L’obbiettivo che voleva raggiungere era quello di realizzare un codice manoscritto per un **pubblico di lettori eruditi**: infatti, questo codice assomiglia molto ad un **volume da banco universitario** per la sua costituzione. Presenta all’interno una **architettura grafica ben studiata dallo stesso autore**: parliamo soprattutto del sistema delle iniziale in maiuscolo o in corpo leggermente minore. L’uso delle iniziali in maiuscolo serviva a Boccaccio per mettere in evidenza la **metatestualità della sua opera**, cioè i **quattro piani narrativi del discorso** che attraversano tutta l’opera. Si parla di **extradiegetico** dove interviene l’autore, **intradiegetico** dove parlano i dieci novellatori, **diegetico** dove parlano i personaggi delle novelle stesse e **metadiegetico**, quando la novella è presentata all’interno di un’altra novella. Per quanto riguarda le **figurine a mezzo busto**, molti studiosi si sono chiesti se derivano da qualche **influenza di tipo pittorico**. Il fatto che Boccaccio inserisca delle illustrazioni serve per **potenziare il dettato testuale con le immagini**, che è una funzione editoriale. Risentono del momento culturale di Firenze del Quattrocento, in cui si vanno creando delle scuole di pittori specializzati nel creazione di cicli illustrativi. Molto è poi dovuto al cosiddetto **compendium di Paolino Veneto**: costui era un frate francescano vissuto alla fine del Duecento, che scrive nel compendium una cronaca da Adamo ed Eva fino alla sua contemporaneità. All’interno troviamo moltissime illustrazioni, e questo manoscritto era proprio in possesso di Boccaccio. Nel **Teseida** autografo di Boccaccio abbiamo ben 57 riquadri destinati a raccogliere illustrazioni. Le manipulae servivano per indicare un certo luogo, come fossero delle freccette. **Probabilmente Boccaccio aveva l’idea, almeno nel Teseida, di realizzare un ciclo illustrativo**. Il **codice Hamiltoniano** presenta diversi **errori** di trascrizioni dovuti a diverse cause: tra queste possiamo riscontrare delle** correzioni che servivano a sistemare delle momentanee distrazioni**, degli **interventi immediati compiuti dall’autore*. Quello che è importante ricordare è che il codice Hamiltoniano presenta cinque varianti d’autore. Hamilton 90, che però è contraddistinto da errori e quindi necessita una **concordanza di letiones tra P e Mn** (il Parigino e il Mannelli). **Nel caso in cui entrambi non funzionassero, si agisce tenendo conto della prima redazione, del Parigino**. Andiamo nello specifico. Abbiamo due rami diversi; quindi, quando l’autografo non funziona, troviamo delle **concordanze tra due manoscritti di rami diversi**, cosicché abbiamo un **riconoscimento oggettivo** con cui si possa emendare e si correggere un errore dell’autografo. Prendiamo un caso in cui P e Mn si oppongono a B: nell’VIII giornata, novella II, 22, nel Parigino e nel Mannelli leggiamo andate, la stessa letio, mentre Branca, idolatrando il B, salva *andante*. Qui ci ritroviamo in una battuta teatrale che vede, anziché un avverbiale *andante*, un teatrale ed enfatico *andate! Andate!*. **La maggioranza** dalla parte di andate **vince persino su un autografo**. Prendiamo un caso in cui P si sostituisce, invece, ad α, che è il codice ipotetico da cui si generano Mannelli e Berlinese: giornata IX, I, 5, Fiorilla e Cursi accolgono la lezione del *ad Pistoia dimoravano*, mentre Branca accolse quella di B, ovvero solo *dimoravano*, quando anche il Mn, anche se non esplicitamente, indicava *là dimoravano*; dunque, Boccaccio si è dimenticato di aggiungerlo nel B, come Mannelli stesso ci fa notare con una marginale, in cui scrive *deficiebat*. A testo, oggi nell’edizione Bur si accoglie la tradizione di P.
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i tipi di variante d'autore:
cos’è una **variante d’autore** = quella **lezione, di norma autografa, introdotta dallo stesso autore per modificare una determinata parte del testo**. Abbiamo tre tipi di varianti d’autore: * **sostitutiva**, se l’autore vuole esprimere chiaramente il *superamento* di una lezione precedentemente utilizzata; * **destitutiva**, se l’autore si accorge che una parola non serve più e quindi la *elimina* una volta per tutte; * **alternativa**, se l’autore *non prende una decisione definitiva* ma *lascia in piedi due o più opzioni*. Le varianti possono inoltre essere **tardive** o **immediate**, una differenza che notiamo osservando l’inchiostro (nota non di Vaccaro: in certi manoscritti, per esempio, si vede la differenza tra l’inchiostro **bruno** e quello **nero**, che è stato creato dopo quello bruno). Nel codice Hamiltoniano possiamo parlare di cinque varianti d’autore alternative e immediate: * '*fuggendo*', c. 27r., II giornata, ottava novella, rigo 74, alternativa di '*fuggito*', che tutt’oggi, come le altre varianti, non è stata introdotta in seguito alle argomentazioni di Vittorio Branca, ma che, allo stesso modo, sono riflessioni del suo ultimo Decamerone; il gerundio serve a dare, in questo contesto, un’azione che perdura nel tempo, ma oggi si preferisce concordarlo a partito; * '*sospignerà*' per '*riceverà*', c’63r dell’Hamilton 90, V giornata, seconda novella, rigo 34, usa un verbo caro a Dante che noi ritroviamo nel canto VIII dell’Inferno; vuole ricreare il momento in cui si tira la corda dell’arco per spingere la saetta; perciò, noi oggi troviamo riceverà optimamente la saetta; * '*sopra*' per '*presso*', c.65r dell’Hamilton, V giornata, novella quarta, rigo 12; * '*costeggiando*' per '*corseggiando*', c. 67v dell’Hamilton, V giornata, settima novella, rigo quarto; * '*confortar*' per '*pregar*', c.72r dell’Hamilton, V giornata, novella decima, rigo 46.
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il codice 'Italien 482':
Il codice **Italièn 482**. Codice straordinario non autografo di Boccaccio, ma copiato da **Giovanni D’Agnolo Capponi**. Poche notizie abbiamo di questo copista, si può dire che nasce tra **1363** e il **1367** a Firenze e appartiene ad una delle famiglie più in vista di Firenze al patriziato fiorentino, con le sue residenze nel quartiere di Santo Spirito, dove sorge il convento di Santo spirito, dove si trovava il monaco (Martino da Signa), che era l’erede dei manoscritti di Boccaccio. Per questo motivo, dunque, si pensa che realizzò questo atto di copia sotto la **supervisione dello stesso Boccaccio**. La copertina riporta lo stemma di Luigi 14°. All’interno del codice troviamo l’**ex libris**, la nota di possesso, di **Jean Debilen**, ammiraglio francese e letterato di metà Quattrocento. Abbiamo una scrittura posta a **doppia colonna**; inoltre, presenta al suo interno una **architettura grafica ben precisa**: abbiamo il **sistema delle iniziali maiuscole**. I colori principali che troviamo sono il **turchese** e la rubrica scritta in **rosso**, con scritte in corpo grande, meno grande e minore. Troviamo diciotto vignette con **sottoscrizione** all’interno delle rubriche (prima del proemio), che ci permettono di datare il manoscritto. Una delle diciotto vignette ci restituisce anche la **datazione** del codice: parliamo dell’illustrazione sinistra alla c. 79 v, in cui si vede il **Duomo di Firenze col campanile di Giotto**, finito a partire dal **1360**; quindi, il manoscritto, le cui illustrazioni sono state fatto da un altro, che per noi è anonimo, è da porre tra **1360 e fine Trecento**, arco temporale che riguarda la realizzazione delle vignette. Eppure, si nota che, a livello codicologico, **le illustrazioni escono dal rettangolo di scrittura, mostrando che furono fatte dopo la scrittura del manoscritto**, che a questo punto si deve pensare fosse avvenuta tra **1358 e 1360**, quando Boccaccio era ancora in vita. Costituisce, perciò, una delle prime redazioni del Decamerone, al punto che **Aldo Rossi** disse che questo codice non solo precedeva l’Hamilton di dieci anni, ma che era anche un** autografo**, ma **le sue convinzioni non furono accolte**. **Marco Cursi** ha ipotizzato che questo codice fosse stato **scritto sotto osservazione di Boccaccio**. Come ha fatto a dirlo? Perché c’è un’**integrazione interlinea di Boccaccio** alla c. 25v, ovvero *Azzo*, che ci mostra che correggeva il testo scritto sotto la sua supervisione e che, a livello paleografico, richiama la sua grafia. Questo Azzo riguarda il marchese **Azzo da Ferrara** con dei **segni diacritici che dovevano rendere la pronuncia**, segni che pochi copisti usavano al di fuori di Boccaccio stesso. Tutto questo lo ha capito confrontandolo col *Teseida*, contemporaneo di questo codice, in cui usa segni diacritici come la o accentata. Sono due le altre ipotesi: **o Capponi e Boccaccio provengono dalla stessa scuola fiorentina**, anche se il ductus di Boccaccio, come avviene anche per noi, è cambiato nel tempo (quella che vedi nelle slides è una mercantesca, mentre l’Hamiltoniano ha una semigotica), o **Giovanni d’Agnolo Capponi imitava la sua scrittura**.
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il codice Mannelli:
Il codice Mannelli (codice del 1384, copiato da Francesco di. Amaretto Mannelli, amico di Boccaccio) è strettamente collegato ad una personalità importante, uno dei principali filologi del Cinquecento: **Vincenzo Borghini**. **Passa attraverso quella che è la rassettatura del Decamerone** compiuta tra il 1573 e il 1574. 'Rassettare' significa 'ripulire': questa operazione doveva sistemare l’edizione Giuntina del Decamerone del 1527, un’edizione uscita da una tipografia importantissima a Firenze nei tempi, la **Giunti**. Accade che abbiamo un concilio importante in questo periodo: il **Concilio di Trento**, che **impedisce la completa pulizia del Decamerone**. Le azioni principali vennero condotte dal punto di vista dei personaggi e dei loro titoli, in quanto **le loro sostituzioni, che servivano a adeguare il testo al Concilio di Trento, tolsero termini bassi come bestemmie o impudicitiae all’interno dell’opera**. Gli autori stessi di questa pulizia parlavano di imbastardimento dell’opera, prevedendo quelle contaminazioni di cui avrebbe poi detto Lachmann nell’Ottocento. La Santa Chiesa voleva salvare il Decamerone in una **revisione romana**, **ripulendolo però da tutte le maldicenze** (come accadde, tra l’altro in quel momento storico, alla Liberata di Tasso): la Santa Sede li chiamava errori intollerabili e coincidono con tutti quegli **errori fatti contro la Fede**, quindi tutte le blasfemie che si possono riscontrare nel Decamerone. Questo compito fu dato ad una equipe di quattro studiosi del Cinquecento: * Vincenzo **Borghini** * Agnolo **Guicciardini** * Bastiano **Antinori** * Antonio **Benivieni**. I quattro, andando avanti nel lavoro, si scrivevano **lettere**, in cui mostravano gli uni agli altri i dubbi sulla creazione di questo ibrido. Il gruppo di lavoro andò a rimuovere alcuni luoghi delle novelle più soggetti a blasfemia, altre volte **sostituirono i nomi dei personaggi del Decamerone, che servivano a parodiare l’operato di ecclesiastici**. Borghini in una delle sue lettere parla di guastamento all’arte e alla storia di Giovanni Boccaccio e della sua opera maggiore, definendo questo processo un **imbastardimento**. Nelle Annotazioni Borghini dice, addirittura, che, *se Boccaccio tornasse in vita, non riconoscerebbe la sua opera*. Quando quest’edizione uscì nel 1573, loro annunciarono immediatamente che sarebbe uscita in concomitanza anche la parte delle **Annotazioni al Decamerone**, una pezza d’appoggio realizzata da Borghini e gruppo per **giustificare e criticare le modifiche da loro apportate**. Il codice Mannelli, riscoperto da Baccio Baldini, incisore dei Medici, fu utile per risistemare il Decamerone per controbilanciare anche le scelte di Roma, e lui sviluppò, nel suo studiarlo e usarlo, un anticipo del metodo Lachmanniano. **Borghini** trovò menzione all’interno della miscellanea dei testi di **Pier Francesco Giambullari** edita da Giovan Battista Gelli nel *Ragionamento infra M. Cosimo Bartoli, et Giovan Batista Gelli, sopra le difficultà del mittere in regola la nostra lingua*. Le difficoltà sono quelle delle opere di Bembo e dei dialoghi di Galileo, ovvero delle **dispute in dialogo sulla lingua fiorentina, nelle quali troviamo nominato per la prima volta il manoscritto Mannelli**. Scrive, infatti, riferendosi all’edizione giuntina del ’27 del Mannelli. Vittorio Branca, come fece lui stesso con l’Hamilton 90, scrisse che **fu da quel momento che nacque il culto del manoscritto Mannelli** (piccola nota su Branca: lui stesso vide che non era soddisfacente l’Hamilton, quindi dovette intromettersi il Parigino). **Gelli ci riporta che questo manoscritto sia stato copiato direttamente dall’autografo**, che forse costituiva la copia da lavoro in cui erano presenti degli elementi correttori apportati in note e interlinee, che la critica ha potuto accertare grazie al lavoro di Mannelli, copista di passione che non cambia il testo, ma che, quando ha dubbi sul testo, li annota ai margini. Il fatto che lo stesso mannelli copiasse dall’autografo lo possiamo leggere dalla data nella c.142r del codice, in una sua notazione autografa: **così dice il testo originale, et però non radere (ovvero raschiare, cancellare) quello che leggi**. Quest’espressione è una delle pezze d’appoggio che consentono di dichiarare che Mannelli, conoscendo anche Boccaccio, copiasse dall’autografo. Possiamo chiamare in causa Vincenzo Borghini e la sua filosofia con due documenti: * Lettera intorno a’ manoscritti antichi; * Il Proemio alle annotazioni. Le **Annotazioni**, ricorda, sono molto importanti, anche perché **all’interno c’è il testamento di Boccaccio in volgare, che gli venne dato da Giorgio Vasari**. Teniamo però conto della Lettera: per Vincenzo Borghini vale la legge assoluta del **codex vetustissimus**; tuttavia, **anticipa alcuni orientamenti filologici della filologia stemmatica Lachmanniana e post-Lachmanniana**: infatti, riesce a cogliere il principio recentiores non deteriores, cioè quel criterio sviluppato da Giorgio Pasquali nel ‘900 che contiene al suo interno il principio per cui **i codici peggio tenuti sono quelli da studiare con più attenzione**. Borghini, però, **non tiene conto della tradizione plurima**, ma ricostruisce un testo solo **in base a un ristrettissimo gruppo di testimoni**. Per l’operazione della rassettatura usa solo due testimoni: il codice **Mannelli**, il più autorevole; la **deo gratias**, ovvero l’initio princeps, la **prima edizione a stampa del Decamerone**, un incunabolo databile al 1470 privo di editore.
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Le 'Annotazioni':
Nel Proemio delle Annotazioni veniamo a conoscenza che **Bacio Baldini** trovò il codice Mannelli. Borghini, qui, entra nel vivo della questione di come il testo del Decamerone sia giunto fino a lui, parlandoci anche dell’atto di copia, che **certi copisti, senza malizia costellano di errori, mentre altri lo fanno volontariamente**. Abbiamo anche il concetto dell’**imbastardimento**, che è l’abbassare la qualità dell’opera *abbassando il livello delle letiones*. Continua distinguendo le due tipologie dei copisti con riferimento all’azione dei fiorentini della vulgata dei suoi tempi. Troviamo uno dei suoi punti filologici: **partire da’ testi antichi e sinceri, che lui pensa non siano stati ritoccati dalla malattia** (era nella metafora degli errori come malattia). Il suo recentiores non deteriores è ritrovabile dall’e quantumque il ritrovarne oggi a p.142 del documento su Virtuale. Dice che **questo codice, tra tutti quelli ritrovati, lui lo considera il più degno di tutti, chiamandolo così l’Ottimo**. Ci dice che il Mannelli fu scritto 9 anni dopo la morte di Boccaccio. **Intendente, diligente e uomo** è il tricholon che usa per indicare un **buon copista**. Dopo questo, che riguarda il primo testimone, parla anche della **Deo Gratias**, stampata cento anni prima delle Annotazioni. Fa una interessante osservazione riguardo la stampa, in quanto ci parla di eliminatio codicum scriptorum dicendoci che **questo incunabolo rispetta nei principali luoghi il Mannelli, ma se ne distanzia, per errori significativi**, in altri, tanto che non si può parlare di una derivazione diretta; quindi, **è di tradizione diversa, che quindi significa che non è da scartare**. Per fare questo, ovviamente, ha collazionato il Mannelli con la **Deo Gratias** (Deo Gratias = copia stampata del Decameron, non diretta parente del Mannelli) Ci dice, inoltre, che in 6 casi su 7 la Deo Gratias rispetta e rispecchia l’Ottimo, mentre se ne distanzia in uno per errori importanti. Questa, ci dice lui, non è contaminata come altri codici.
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l'eliminatio codicum descriptorum:
Altro principio a cui arriva è quello dell’**eliminatio codicum descriptorum**, ovvero lo **scartare quei testimoni che derivano da un altro testimone**, di cui riportano gli errori significativi insieme ad innovazioni accidentali. I codici descritti sono da scartare, una volta riconosciuti. A parole sue, lo stesso Borghini rileva questo criterio mettendo in relazione il codice Mannelli con la Deo Gratias tenendo conto della collatione dei testi. Da ciò capì anche che **non vi è manoscritto buono senza errori al suo interno,** a cui arrivò grazie allo **studio del lavoro del copista**. Questo è importante dal punto di vista sociologico, in quanto studiò il grado di cultura dei copisti: i **copisti di passione** sono, solitamente, eruditi, acculturati, lavorano con calma, non intervengono, non banalizzano, non lavorano per congetture in passaggi che non capiscono; i **copisti a prezzo** sono quelli guidati dal produrre il più velocemente possibile una copia avendo un livello culturale più basso di quelli per passione.
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perchè si chiama 'Deo gratias':
Perché è una **formula di saluto e buon’augurio che chiude molte prime edizioni a stampa** e qualche manoscritto. Poiché il Mannelli è l’Ottimo, questo lo chiama Secondo, in quanto **ha i pregi del Mannelli, ma coi difetti di una stampa che era agli inizi e, probabilmente, affidata ad un tipografo poco acculturato**. Parla anche dell’operazione di stampa e di rimozione dell’edizione di stampa del **1527**, che lui vuole proprio emendare. Borghini, in un altro manoscritto, non solo **si lamenta** dell’edizione del ’27, ma anche delle richieste di Roma, che, con le correzioni che volevano, avrebbero tagliato il collo a Boccaccio
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la 'Lettera' di Borghini:
BNC, Fondo Nazionale, II.X. 121, c.178, pubblicato nel ’95 da Riccardo Dusi, è l’**autografo di Borghini** della Lettera: qui scrive della differenza tra il **copista che commette errori accidentali**, senza malizia, e il **copista che, con malevolenza, banalizza o interviene per congettura**. Questo è il concetto di **diffrazione** in presenza e in assenza. Questo concetto fu teorizzato da Contini nel ‘900, che riprese il termine dal concetto della diffrazione della luce: affermò che, quando uno o più copisti copiano da un unico modello di riferimento, possono commettere delle banalizzazioni, che avvengono quando una lectio difficilior non viene compresa. **Se almeno un copista riporta la lectio difficlior, si parla di diffrazione in presenza**; se nessuno dei copisti riporta la lectio difficiliori, banalizzando, si parla di diffrazione in assenza. Vincenzo Borghini costituisce un passo in avanti rispetto alla filologia di Poliziano. Nella Lettera parla del suo primo affondo nel Mannelli: fa riferimento, anche se non la conosce, alla situazione che differenzia il Mannelli al Berlinese, che passò tra più mani, mentre il primo fu salvaguardato.
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l’apografo Mannelli ci riporta solo il codice del Decamerone?
No, anche il **Corbaccio**. Nota codicologica: il codice Mannelli è composto da **2 carte di apertura, 190 carte che riportano i due testi e 1 carta bianca di chiusura**, le prime e ultime indicate coi numeri romani, le seconde coi numeri arabi; inoltre, è scritto in **mercantesca**.
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la lettera di Coluccio Salutati:
Nella carta 171r del Mannelli, questo riporta la sua firma, che rimane ancora un mistero della filologia: *qui finisce la decima et ultima giornata del libro chiamato Decameron cognominato principe galeotto. **Screpto per me francesco d’amaretto mannelli** dì tredici agosto 1384. Deo sit laus et gloria in ecternum. Ad honerm egregi **simacuspinis** et beneplacitum et mandatum*. Questo '**simacuspinis**' costituisce uno dei tanti misteri della filologia. Giorgio Padoan diede la sua opinione: non ha attestazione in latino, è dunque una voce anagrammatica, ovvero è un anagramma in cui è nascosto l’esemplare di copia e il lavoro del copista. Lo divise in '**si ma cu spiri S**', il cui spiri è una forzatura perché torni tutto come '**signensis martini cunventus spiritus Sancti**', voce anagrammatica che tiene in considerazione Martino da Signa. Rimane solo l’aspetto grafico della trasformazione di '**n**' in '**r**', che, per quanto sia il tutto forzato, è l’unica a farci capire il significato di questa parola. Nasconde il nome del possessore dell’autografo (Martino da Signa) per non farlo disperdere e oscurare; è però sempre un’ipotesi.
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lettera a Leone 10°:
Lettera a Leone 10 = non è una lettera viaggiata, cioè giunta a destinatario. Ha forma a involto (le pieghe che ha la lettera viaggiata). Questa è una lettera prefazione (lettera prefatoria = che doveva fungere da prefazione a un libro, non viaggiata), scritta da Baldassarre Castiglione probabilmente sotto la supervisione di Raffaello Sanzio, al papa Leone X (giovanni de Medici). Vediamo la prima carta della Lettera a Leone X. Stiamo parlando di un abbozzo non datato di un testo destinato ad una pubblicazione, di quello che doveva essere il gran progetto di Raffaello Sanzio, ovvero una descrizione della pittura della Roma augustea: infatti, voleva fornire pianta, prospetti e descrizione dei siti dove sorgevano gli edifici, le statue e i monumenti della Roma antica. Era un progetto avviato dal 1508, quando Raffaello si trasferisce a Roma per lavorare anche alla costruzione della Basilica di San Pietro. Sempre all’interno di questa lettera, però, ci espone anche un metodo che nel Cinquecento gli diede l’immagine di sovrintendente dei beni culturali, un innovativo scavo archeologico. Questa lettera fu vergata da Baldassarre Castiglione sotto la supervisione di Raffaello, che piace immaginare esser stata fatta mentre Raffaello ritraeva Baldassarre. Bisogna dire che Raffaello non conosceva il latino, o lo conosceva poco, e che i suoi studi di architettura provenivano dal modello indiscusso del 'De Architetura' di Vitruvio fornito in volgare da Marco Fabio Calvo. Raffaello non aveva le competenze tali per scrivere un documento destinato a Leone X. Per fare questo si serve di uno dei più grandi letterati del tempo, inoltre esponente della cultura cortigiana del tempo. Un co-progetto di sodalizio tra uno dei più grandi della corrente artistica del Cinquecento con uno dei grandi della corrente linguistica del Cinquecento. Lo studioso a cui si deve l’edizione contemporanea è quello di Francesco Paolo di Teodoro, non filologo, ma che ci ha dato una bella edizione critica, grazie alla quale si è datato il documento al 1519, l’anno prima della morte di Raffaello. L’acquisizione di questo documento è recente, addirittura del 2016, quando la direzione degli Archivi Generali è riuscita a trasferire l’archivio privato dei Castiglione preso l’Archivio di Stato di Mantova. Grazie a questa operazione è riuscita la pubblicazione di questo testo originale autografo, di cui abbiamo anche i testimoni. Abbiamo nella filologia dell’originale l’autografo Ma (Mantova) al capo, con un testimone derivato chiamato Ma1, poiché anch’esso custodito a Mantova, e, sempre derivato, P, edizione cominiana a stampa pubblicato a Padova. Questa lettera era già stata pubblicata nel 1733 nelle opere di Castiglione. M è un altro testimone che si trova a Monaco (l’It 37b), che però è in un’altra tradizione perché ha molte varianti ed errori. Disponiamo dell’originale autografo, per cui dobbiamo puntare a darlo nella maniera migliore possibile. In questo semplice albero P e Ma1 derivano da un semplice antigrafo o archetipo alpha, che deriva da Ma. In questa tradizione abbiamo tre testimoni in forma manoscritta, Ma, Ma1 e M, e uno solo a stampa, P. Qual è la storia redazionale di questo testo? Qual è la porta d’ingresso? Ci è data da un amico di Raffaello, Marcantonio Michiel, architetto, letterato, scrittore e collezionista d’arte che ci fornisce due testimonianze indirette. Michiel assiste anche alla morte di Raffaello; veniva dal patriziato veneziano e si formò ad Urbino, dove conobbe Bembo, Sadoletto e così via. Il primo documento fonte indiretta si trova dentro i suoi diari ed è databile tra il 6 e il 7 aprile del 1520, tre giorni dopo la morte di Raffaello. Già ci dice che Raffaello stava ancora lavorando a San Pietro, con informazioni di interesse riguardo ciò che lasciò. Il curatore ha scelto il sistema delle parentesi tonde per sciogliere le abbreviazioni, che vuol dire anche appesantire il testo, che è meglio, dunque, togliere mentre si sciolgono completamente, per poi indicare il tutto nelle note del testo. Stava ancora compiendo il testo della descrizione di Roma Antica, per cui ottenne il breve dal papa. È interessante constatare come Michiel ci comunichi sia il progetto, sia il breve pontificio di Leone X, che in realtà era già stato ricevuto da Raffaello Sanzio nel 1515 tramite bolla pontifica, che lo incaricava come sovrintendente della Roma Antica; è, dunque, un errore di Michiel. Altro documento, e altra fonte indiretta, è sempre di Michiel dell’11 aprile del 1520. Ci dice che Raffaello aveva in mente di organizzare un libro, che ci permette di capire che questa lettera, non viaggiata, era prefatoria. Parla del fatto che la Roma Augustea, costituta in 22 rioni, regioni, era già stata illustrata in una da Raffaello. Quello che viene dopo non è interessante, in quanto parla anche del crollo dell’edificio pontificio lo stesso giorno della morte di Raffaello, che viene testimoniato da altre gazzette del tempo (fatte dai letterati di corte per i loro principi). I tre contenuti principali sono: * Organizzazione della pianta della Roma Augustea; * Stesura di un testo con disegni di dove gli edifici della Roma Augustea sorgevano; * Prospetto degli edifici più importanti e come potevano esser stati nel loro primo momento di attualizzazione. Un esempio di apparato diacronico sono le prime righe del primo paragrafo della Lettera a Leone X, che è un apparato diacronico poiché ci restituisce tutte le azioni fatte da Baldassarre Castiglione. Vediamo il testo: Sono molti, (e vediamo un’abbreviazione molto classica, ovvero una Pr con uno svolazzo che finisce in e) Padre Santissimo, li quali misurando (vedi un titulus, che abbrevia con una forma di cappelletto le nasali n m) nel suo piccolo iudicio… Fermiamoci su piccolo, che è scritto in piccolo e integrato interlinea con una freccetta, che merita di essere accolta nell’apparato diacritico. Qui si vede che l’approccio filologico di Francesco Paolo di Teodoro rende troppo discorsivo l’apparato: infatti, nota che ha scritto piccolo è aggiunto interlineare anziché piccolo in inter., per il quale avrebbe utilizzato il rigo o la paragrafatura, che è più una scelta editoriale se metterla o meno, in quanto anche l’editore ha difficoltà a tenere integro il testo senza rovinare tutta l’impaginatura. le cose grandissime (vedi un che abbreviato) che de li romani circa l’arme (è una grafia di carattere cancelleresco, che si stabilizza nel Cinquecento) (Per leggere un testo antico devi relazionare i segni grafici e abituarti a leggerli) e de (altra integrazione interlineare; inoltre, i grafemi non sono costanti) la citta di Roma (nota innanzitutto che la doppia di citta, non accentata, non esiste; il punto forte era usato molto raramente, a sostituirlo era il punto e virgola, mentre la virgola era sostituita dai due punti) circa (abbiamo una variante dell’articolo illa) el mirabile artificio (ci sono due cassazioni) ricchezze, ornamenti e grandezza. I depennamenti ci fanno capire quante varianti estemporanee ci sono, quante cancellature immediate, che puoi notare dal fatto che utilizza lo stesso inchiostro. El mirabile artificio nell’apparato diacronico è indicato come interlinea. Altra cosa importante: depennato > cancellato; la variante va riportata così come la si legge, non si fa variare. Degli edificii si scrivono: quelle piu presto estimano fabulose piu vere, ma altremente a me sole avvenire, perché considerando (scrisse comprendendo, poi l’ha depennato) le reliquie che ancor si veggono de le ruine di Roma: la divinitate di quegli animi antichi non estimo di ragione vedere che molte cose a noi appaiono impossibili: che ad essi erano (fossero depennato) facilissime: poi: essendo io stato (s lunga con t) assai studioso (prima studiosissimo, poi ha depennato issimo con uno scarabocchio, ma lasciando ancora il puntino sopra la o) di queste antiquitate et avendo posto non piccola cura dei (tantissime depennazioni) cercharle minutamente e misu-rarle con ogni diligenzia e leggendo li boni autori e conferendo (introdotto dalla freccetta) l’ope con (simbolo dell’h sopra a con) le scritture penso haver conquistato qualche notizia de la architetura antica. ricapitolando: testo della lettera: * piccolo = integrazione interlineare aggiunta successivamente * abbreviazioni (ex. che abbreviato) * in apparato diacronico si riporta la variante così come la si legge, non si manomette
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apparato diacronico e sincronico:
* apparato **diacronico/dinamico/genetico-evolutivo** = utilizzato nella **filologia dell’originale** * apparato **sincronico** = utilizzato nella **filologia della copia**
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raccolta di lettere e epistolario:
* **raccolta di lettere** = messa solitamente a punto da uno **studioso** (non si presentano quindi già in una forma omogenea prima dell’intervento dello studioso) **postuma** alla morte dell’autore; contiene tutte quelle **missive scritte per uno scopo pratico ed effettivamente spedite a un destinatario** (a questo bacino rientrano le lettere viaggiate, che possono essere di argomento poetico, diplomatico…). Facendo questa operazione, lo studioso cerca di pubblicare il cosiddetto '**carteggio**' * **epistolario**: messa insieme **dall’autore** stesso per fini artistici, e quindi è un’opera **soggetta a finzione letteraria** (è l’autore stesso a manomettere i dati e a raccogliere le lettere a suo piacimento). **Non c'è quindi una finalità pratica e occasionale**. Esempi sono le **lettere latine di Petrarca**, o l’epistolario in volgare di **Pietro Latino** (primo epistolario in volgare d’Italia).
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criterio conservativo-interpretativo:
in funzione ecdotica, fare un’edizione critica di una serie di lettere, soprattutto quando le lettere sono antiche, occorre usare questo criterio. **interpretativo** poichè = conservare le **peculiarità grafiche e linguistiche** (quindi non si manomette, cosa che invece è accaduta ad esempio con la lettera di Machiavelli a Vettori) introducendo **piccoli interventi correttori**, di normalizzazione.
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la nota al testo:
Un’accortezza che dobbiamo avere è avere come supporto la **nota a testo**, cioè la sezione testuale/paragrafo di carattere storiografico in cui il curatore/filologo fornisce tutte le informazioni relative al testo che sta per pubblicare. Le informazioni sono: 1. **descrizione della tradizione**: se esiste ed è ricostruibile 2. **esiti dei confronti** (collatio) fra i testimoni 3. **stato materiale/codicologico dei testimoni** 4. **ipotesi ricostruttiva della storia del testo** che si pubblica; se possibile 5. **correzioni** fatte sul testo 6. note sulle ‘**scelte’ grafiche** adottate per l’edizione del testo 7. storia della **fortuna del testo**: se risulta tracciabile
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cosa significa 'storicizzare i documenti':
Per **mantenere in vita le peculiarità dei documenti**, bisogna **storicizzarli**; ex. ad esempio **non attualizzando i termini** (soprattutto quando siamo davanti a un originale autografo). esempi da seguire per il filologo (**normalizzazioni**): * Distinzione per l’arcigrafema **U** da **V**, che noi possiamo compiere per parole come auuto, poiché non va a toccare i sostanziali o gli allografi sostanziali, ovvero non manomettono la sostanza della parola; * La regolarizzazione delle alternanze **i** da **y** (chiamata anche i lunga), che **normalizziamo senza toccare la sostanza delle parole** (princìpii diventa tranquillamente princìpi); * Il ripristino del grafema <**h**> per il verbo a****vere, che è una partita molto delicata, in quanto nei documenti più antichi viene sempre reso, per esempio, all’infinito come havere, che probabilmente è un residuo grafico, non un qualcosa di fonetico, esattamente come ti anziché zi, che sarebbe più un’attualizzazione più moderna (dipende anche da testo a testo, in quanto, per esempio, i testi teatrali necessitano più respiro da battuta a battuta); * La congiunzione **et**, che alle volte, nella sigla cherioniana (il 7), rende sia et che e, con quest’ultima che potrebbe essere una normalizzazione troppo moderna per documenti antichi, i cui documenti avrebbero così una grafia molto semplificata. **Tutte queste devono sempre essere indicate nella nota al testo cosicché il lettore possa riconoscere tutte le sistemazioni**, anche le maiuscole o le minuscole introdotte, o lo scioglimento delle abbreviazioni (come srn.ssimo per serenissimo), con un’opzione mediana nell’introdurre le parti sottintese tramite le parentesi. L’introduzione, però, di segni grafici tuoi in un testo corrisponde ad una novità.
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l'epistolario:
Un epistolario è un’opera unitaria messa insieme da un autore per intenti artistici, un’opera soggetta a finzione letteraria in cui è lo stesso autore a manomettere i dati e a metterle in ordine a suo piacere; non v’è, dunque, un intento occasionale. Petrarca lo fece in latino; Pietro Aretino, invece, fu il primo a farlo in volgare. Gli epistolari, come genere letterario a sé stante, raggiungevano forme sempre più complesse e i letterati li suddividevano per argomenti: infatti, per esempio, Isabella Andreini, poetessa italiana, fece un epistolario diviso per argomenti.
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l'idea di Mario Marti:
Mario Marti dice che **un’edizione di un epistolario non dovrebbe trasgredire l’idea e la concezione voluta dall’autore, ovvero con gli stessi criteri filologici di tutte le opere letterarie, anche se ci sono date sbagliate, una volta che si ha capito che sono state volutamente modificate dall’autore**. Al massimo **indichiamo gli errori o nella nota al testo, o nel commento**. Anche le **intestazioni**, le varietà del modo di indicarsi (con degli **pseudonimi**, per esempio), non sono da modificare.
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sulla comunicazione epistolare:
la comunicazione epistolare è uno dei principali strumenti che ci fornisce un **rapporto interpersonale ‘in absentia**’. Senza lo studio fra **pratica** e **modelli della pratica** non si può contestualizzare il documento, e quindi non si può semplicemente pubblicarlo. E’ un grave errore confondere i **sistemi dell'epistolografia medievale** con quelli magari del ‘500. Se quella medievale fa ricorso all’**ars dictaminis** (i modelli = **Cicerone** e **Quintiliano**), **nel ‘500 nascono nuovi modelli e nuove figure socio culturali** (il principe, il cardinale, il cortigiano). La lettera missiva costituisce innanizitutto un **microtesto** che può essere di **natura** informativa, affettiva, di dibattito, di polemica…, ma **sopratutto è un ragionamento breve**. **procacci** = attuali **postini** la lettera è un ragionamento nel senso che è un discorso simile all’orazione; semplicemente **deve persuadere a fare qualcosa, a ragionare, a scambiarsi idee/conoscenze/interessi**. ‘**breve**’ non tanto per la lunghezza della lettera, ma perchè **il ragionamento va al cuore del discorso** e a differenza dell’ars oratoria (utilizzata dagli oratori), la lettera non può servirsi dell’arte prossemica (pantomimica, gestuale), ma si serve invece di **escamotage discorsivi interni**. Anche il fatto della **distanza** è importante nella **corrispondenza epistemica**, in quanto rende chiara la circolazione delle idee. Uno degli esempi più belli è nelle slides, uno dei due apografi di **Francesco d’Assisi**, epistola scritta presso il Duomo di Spoleto. È una delle **prime forme dell’epistolografia tra privati**. Questa lettera, stesa in **latino**, risponde al confratello Leone rivolgendogli il suo **consilium**, ovvero di **non poter fornire informazioni circa il suo periodo vissuto presso i francescani**. Già a partire dal **Due e Trecento** nascono dei **modelli** epistolografici che compaiono tra i memoranda, le notificazioni, gli elenchi, le notificazioni religiose e così via.
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lettere mercantili e lettere di mercanti:
definizione di **Federigo Melis**, distingue **due categorie per le lettere medievali**: * **lettere mercantili** > i **carteggi comuni** (da azienda a azienda, scambio di informazioni politiche o di affari) e i **carteggi specializzati** (*documenti commerciali e finanziari* scritti in forma di lettera, come ‘lettera di cambio’, ‘lettera di vettura’, 'estratti-conto, ‘fatture’ = documenti riguardanti l’area commerciale. * **lettere di mercanti** > i **carteggi privati e familiari**. A questo bacino apaprtengono anche i ‘**libri di famiglia**’ per mettere nero su bianco le *discendenze* delle persone più abbienti (grande autore di libri di famiglia = **Guicciardini**).
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il foglio 'rezuta':
Nel corso del Medioevo, anche alla fine dell’uso della pergamena, per le corrispondenze c’è un formato importante, ovvero il foglio **rezuta**, il principale tipo di **carta** usato in questo periodo, ed è la **metà della carta imperiale**, che era il formato più grande. Fabriano usava quattro formati di carta, ovvero **imperiale**, **reale**, **mezzana** e **rezuta**.
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la scrittura mercantesca:
Quando parliamo di **scrittura mercantesca** parliamo di quella usata dal **ceto mercantile** fino a metà Cinquecento, che ebbe novità riguardo l’**esclusione del segno pittorico della gotica e della semigotica**, diventando il **ductus veloce** per comunicare informazioni in **rapidità**. Le sue caratteristiche sono: 1. **forte corsività** 2. **povertà interpuntiva** 3. **piccole dimensioni** 4. uso di **abbreviazioni** 5. **rotondezza** delle lettere 6. uso del **volgare**.
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il digrafismo:
Quello che ci porta dal Medioevo al Rinascimento è il fenomeno del **digrafismo**, ovvero la **convivenza di due grandi sistemi grafici importanti**: * la corsiva **mercantesca**, di derivazione medievale, * la **cancelleresca** corsiva, derivata dalla cancelleresca italica. La seconda dice tutto da chi è utilizzata, ovvero dall’*uomo di corte*; tuttavia, si afferma nel corso del Cinquecento grazie ad una formazione degli uomini di corte e grazie alla **stampa**, in quanto è anche il **formato con cui vengono stampati i libri**. Volendo riepilogare tramite qualche personalità, che sono anche sentieri di studi oggi non ancora avvenuti sulle scritture del tempo, **Giovanni Battista Palatino** è uno dei maggiori studiosi che ci forniscono informazioni sulle varie grafie e scritture del Cinquecento dello scrivano, con anche tutta la sua strumentazione. Ci serve per conoscere la scrittura mercantile utilizzata nei testi a stampa (slide con quella milanese), che assume **differenze** in base alle differenze geografiche, che vanno da Milano, Genova e Roma. La grande differenza sta nell’uso grafico di alcuni grafemi, ovvero i moduli delle aste della s, h, g. Il testo lo trovi sempre nelle slides/testi su Virtuale. Dev’essere tondeggiante, rapida, senza contorni, con **la differenza che viene non dalla grandezza delle lettere, ma dalla lunghezza dell’asta**, con la **genovese** che ha anche un paio di differenze di alfabeto. **Giovan Francesco Cresci** ci parla di quella cancelleresca. Questa si diffonde a livello alto per il cursus studiorum dei **cortigiani** e a livello basso per le **arti e mestieri** del Cinquecento, con delle sfumature più curiose a livello di resa grafica. Il libro è Essemplare di più sorti lettere. Cresci ci dice che la cancelleresca nel Cinquecento subisce delle variazioni fantasiose formulate da letterati, con due che sono **Tagliente** e **Rognoso**, il cui creatore della prima è Tagliente, grande trattatista. Lui, però, le considera inutili e dannose, in quanto è un uomo di corte e ha in mente solo il corsivo cancelleresco, stile che, per lui, deve far parte di tutte le persone che intendono entrare nelle corti di quel periodo.
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come si riconosce una missiva:
Si riconosce una lettera viaggiata: * dal **sigillo** (uno dei passaggi dal medioevo al 500 è l’utilizzo di sigilli in cera al posto che sigilli in metallo) * le **pieghe** = la lettera viaggiata è infatti racchiusa in un involto; di solito = *4 pieghe orizzontali e 3 verticali*. * l’**intestazione** (data, luogo, segnatura)
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i testimoni della lettera a Leone 10°:
Tornando a Raffaello e Castiglione, la lettera è trasmessa da tre testimoni manoscritti e uno a stampa: 1. Ma, **autografo** originale, visto la scorsa volta, con la segnatura **Mantova**, **Archivio di Stato**, Archivio Castiglione, 2016, busta 2, carta 12, con, tra parentesi quadre (ma può essere anche tra tonde) a seguire la segnatura antica; 2. Ma1, con segnatura **Mantova**, **Archivio Privato**, manoscritto; 3. M, **München**, Bayerische-Staat […, non ho voglia di scriverlo tutto], codice manoscritto; 4. P, **Padova**, Edizione cominiana, 1733, edizione a **stampa**. . 1. Il primo testimone, Ma. È costituito da 6 fogli sciolti, 24 carte r-v con una **fascicolazione curiosa**: abbiamo, nella prima parte, l’utilizzo di **due binioni**, che vanno dalla prima all’ottava carta r-v; nella seconda **altri due binioni** assemblati dalla nona alla sedicesima carta; nella terza parte **2 bifolii per le carte 17-20 e 21-24**. Altra caratteristica è l’uso di due filigrane, ovvero un pesce all’interno di cerchio e l’altra con una testa coronata. In un’altra divisione, la prima parte di questo manoscritto contiene la **minuta completa** (ovvero l’*abbozzo*, la fase preparatoria che solitamente indica un originale autografo) dalla carta 1 alla 16; la seconda, che va dalla carta 17 alla 21, ci trasmette **frammenti, ovvero una fase di creazioni ancora precedenti della stesura degli abbozzi**, denominati frammento primo, secondo e terzo. 2. Il secondo testimone, **direttamente correlato al nostro originale autografo**, è contenuto interno alla raccolta di **373 lettere di Baldassarre Castiglione**, che vanno dal 21 febbraio 1517 al 25 febbraio 1528, e si trova proprio all’inizio. È una **raccolta di copie, non di autografi**: infatti, si chiama Lettere del S. Conte Baldassar Castiglione cioè copie. È stato scritto da **Bernardino Marliani**, che scrisse nel Cinquecento una delle migliori biografie di Castiglione, per poi venire successivamente seguito da **Antonio Beffa Negrini**, che ne parla negli Elogi historici di alcuni personaggi della famiglia Castigliona del 1606, in cui leggiamo anche un’introduzione per la lettera. 3. M è segnato Cod. It. 37abc, con la b che testimonia la lettera e a che testimonia il *De architetura* di Vitruvio. Testimonia la carta 9 e nella carta 77 un testo quasi uguale ai testimoni Ma, Ma1 e P, però con **omissioni e aggiunte di una carta che viene considerata spuria**. Questo codice si apre con una coperta ottocentesca, a cui ne segue una del Cinquecento con in alto Oratio ad papam. L’originale si apre con Sono molti Padre Santissimo, qua no; poiché non presenta la parte iniziale, allora è un **documento acefalo, che ci dice che non testimonia l’originale, ma testimonia un errore significativo di un’altra ramificazione**: questo è il perché della ramificazione dello stemma codicum. Noi abbiamo l’originale, l’autografo, ma la storia di questo non è secondaria, perché, innanzitutto, è una bella copia (che vedi anche dal tratto della riga) che aveva come finalità quella di essere stampata, e soprattutto perché l’artefice era **Angelo Colucci**, segretario apostolico di Leone X e amico di Bembo che abbiamo visto per Boccaccio. 4. L’ultimo testimone è la settecentina a stampa, P, uscita nel 1733 grazie ai fratelli Giovanni Antonio e Gaetano **Volpi**, che stamparono la raccolta delle Opere volgari e latine del Conte Baldassar Castiglione, dietro cui forse v’è un testimone che abbiamo perso per la Lettera, in quanto **usarono una copia data a loro da Scipione Maffei**, letterato del Settecento impiegato soprattutto nella drammaturgia di cui abbiamo anche il fondo. Come facciamo a capire che loro usarono questa trascrizione? Perché **ce lo dicono loro nella dedicatoria** di questa settecentina, Intanto facciamo un regalo al pubblico di una lettera non più stampata, che in proposito […] Scipione Maffei […]. L’ultimo testimone è una stampa che testimonia il Ma1 nella vita di Baldassarre Castiglione di **Bernardino Marliani**.
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la lettera di Leonardo:
La lettera che stiamo vedendo come esempio notificava del dipinto di Leonardo della **Madonna degli Effusi**. È una **trafugata dell’archivio di Mantova**, il cui recupero è avvenuto grazie alla segnatura antica in alto, che sta per Estero. Già guardando le differenze di grafia capiamo che ci sono state **3 mani diverse**, ovvero l’**autografo**, chi ha scritto gli **estremi della lettera** e chi ha fatto la **segnatura**. Anche l’inchiostro, molto scuro, ci dice che non è una grafia cinquecentesca, che usava quello bruno; sembra, dunque, essere tipica del **Seicento**. Quando è avvenuto questo cambio d’inchiostro per gli spacci, sulle lettere si creava un foro causato dal nuovo inchiostro, che era troppo pesante per le vecchie carte. Guarda la firma e la data in fondo, che, quando v’è uno spazio grande, vengono seguite da un **serpentello**, che **serve a riempire spazi in cui sarebbe stato possibile fare aggiunte a posteriori da altri**, e che può essere sia verticale, sia orizzontale (basta che riempia lo spazio).