lezioni quaquarelli: introduzione alla filologia: Flashcards

1
Q

cos’è la filologia:

A

La filologia è un atteggiamento.
Il filologo non si accontenta di un dato, senza porsi il problema di verifica delle fonti e cose simili.

Il motivo per cui Boccaccio dà un soprannome al Decameron (cognominato ‘Prencipe Galeotto’), è un omaggio al canto 5° dell’Inferno di Dante.
Sconvolgente il fatto che Boccaccio, un prete, dedichi la sua opera alle donne, donne intelligenti che sanno raccontare.

Da qui capiamo che già solo il titolo di un’opera richiede una verifica continua di cose che non vanno prese alla leggera.

‘philologia’ = spesso, come in questo caso, la parola per indicare una disciplina vuol dire poco o nulla (amore per la parola?).

La filologia nasce in concomitanza con l’enciclopedia ( = paideia = educazione/formazione + encuclo = in ciclo > la formazione di un uomo avviene attraverso tante materie differenti) e con la biblioteca (= posto dove si tengono i libri).

La biblioteca nasce dall’idea di essere il posto dove vi sono tutti i libri, fruibili da chiunque a qualunque ora.

La migliore definizione di ‘filologia’ viene data da Joseph Bedièr nel 1903 nell’introduzione di una raccolta di suoi saggi.

sulla definizione di Bedièr:
* Prima di metterti a fare della critica letteraria, devi metterti a fare filologia. > la filologia è la condizione della critica.
* un abito mentale, cioè un’attitudine intellettuale, un ‘esprit’
* verificare cosa è vero e cosa è falso, le verità sono tutte importanti, non esistono verità minori, indifferenti o trascurabili.

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2
Q

lingua della letteratura italiana:

A

Nei primi 3 secoli dell’esistenza della letteratura italiana, essa è bilingue: gli scrittori sanno scrivere sia in latino che in volgare.
Ad esempio, Petrarca si esprime in maniera molto più semplice e meno studiata in latino, rispetto al volgare.

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3
Q

di cosa si occupa la filologia:

A

La filologia si occupa di:
1. storia della tradizione = **trasmissione del testo **arrivato a noi dal tempo in cui è stato prodotto dal suo autore.
2. critica del testo = come leggiamo noi i testi? siamo sicuri che quello che noi leggiamo lo abbiano scritto loro? Ad esempio, di Dante e della Commedia non sappiamo niente. Non abbiamo neanche una riga autografa.
Boccaccio stesso voleva capire come mai il testo di Dante era pieno di errori, di cose non scritte da lui probabilmente. Neanche i figli stessi di Dante per commentare il suo testo probabilmente non avevano un testo fededegno dell’opera.
Le ricostruzioni del testo sono approssimative, in molti punti non siamo certi.

Tasso aveva in mente di lasciare aperto il finale della Gerusalemme Liberata, ma l’ultimo editore ci ha invece dato il finale in cui i soldati si riappacificano.
La critica testuale serve a capire come valutare le testimonianze che noi abbiamo delle opere letterarie.

Critica = dal greco ‘krìnein’ (scegliere).

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4
Q

edizione critica di un testo:

A

edizione critica di un testo = è il fine ultimo della filologia

edizione = testo pubblicato + ‘critica’ in senso di scelta

l’atto di pubblicare un testo cercando di avvicinarsi il più possibile alla volontà dell’autore (l’originale).

E’ un’edizione in cui mi prendo la responsabilità di fare delle scelte che non sono fatte solo per una mia volontà di rendere il testo in un determinato modo, ma anche per fargli fare un salto superiore di qualità: amplio il ragionamento sul testimone che sto studiando studiandone altri, vado oltre il singolo testimone. Per fare questo, io mi assumo la responsabilità di trovare tutti i testimoni rimasti fino a noi, tutti, sia quelli di tradizione diretta, che quelli di tradizione indiretta, compresi vocabolari, parodie ecc. Serve tutto, servono tutte le testimonianze che ho su un testo, comprese anche le edizioni critiche precedenti, che non so se sono scadenti o delle miniere d’oro di parti mancanti oggi finché non le leggo. Oltre i testimoni devo anche studiare le lettere.

L’edizione critica, inoltre, deve avere anche una nota al testo (o prefazione o nota filologica o nota editoriale), in cui l’editore deve dire tutto quello che ha fatto, ad esempio la ricostruzione del testo, in cui scrivi tutte le note scritte a p.59, ovvero la storia del testo. Ci sono testi con una documentazione enorme che ci spiega com’era il testo nello scrittoio dell’autore, e se abbiamo anche gli autografi, tutto è più divertente e più soddisfacente, in quanto hai proprio la ricostruzione del lavoro dell’autore. Nel caso di Dante, e della maggior parte dei manoscritti in realtà, non abbiamo tante tracce. Nei casi di pluralità di redazioni, che conosciamo grazie a dei documenti che li riportano, il lavoro dell’editore sta nel mettere in un solo sistema tutto questo lavoro, affinché si ricostruisca l’ultima volontà dell’autore. Nella nota al testo metti tutto il materiale dell’autore.

Altra cosa: “edizione critica” non è un’etichetta, ma è la struttura dell’edizione, data proprio dall’editore che dichiara quello che fa. L’importante è che l’editore dichiari tutto quello che fa, perché così ci permette di ristudiare il testo con criteri differenti dai suoi.

Bausi si chiede, a fine capitolo, a cosa serva un’edizione critica, d’altronde è una cosa complicatissima da fare per un editore e una cosa complicatissima da leggere per uno studente; la risposta è che ai filologi interessa la volontà dell’autore. Sta di fatto che, se abbiamo tutti questi manoscritti, lo dobbiamo a qualcuno a cui è interessata, qualcuno che ci garantisce che ci sia un testo più vicino all’originale di un altro o di una parodia. Serve anche a quelli a cui non interessa, in quanto ti dà la possibilità di scegliere uno qualsiasi dei testi, sia questo storicamente fondato o Topolino. Capiamo che serva soprattutto quando guardiamo le edizioni che critiche non sono.

L’attenzione sul testo è maggiore nei copisti che nei rubricatori e nei miniatori: ci sono casi in cui il miniatore fa una lettera tutta miniata con degli errori.

Se l’edizione critica che ho in mano non può avere altri miglioramenti, è fatta con tutti i passaggi e le notazioni e le fasi e così via dell’autore, allora abbiamo l’edizione perfetta, l’edizione in cui hai l’effettiva mente dell’autore. Non potrà mai essere così, è un’approssimazione alla perfezione, cerca di essere perfetta per dare a un testo la possibilità di essere il più vicino alla volontà dell’autore. Uno dei nostri problemi è che non capiamo niente di cosa sia vero e falso, ma nel campo della letteratura non ci cambia la vita, questo problema.

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5
Q

il metodo per fare un’edizione critica:

A

Altra cosa è l’indicazione di metodo: che metodo c’è per fare un’edizione critica? Un metodo unico e univoco non esiste: più vai avanti con lo sviluppo e col progresso delle metodologie filologiche, più ti rendi conto che non ci sono dei metodi finali. Non è una scienza matematica: il testo letterario è un prodotto dell’ingegno umano, non esiste un metodo unico.

Basta solo che ti aiuti a cercare la verità, a capire l’autore. Il metodo di cui si sta parlando è il dichiarare ciò che si ha fatto, dire i problemi riscontrati e indicare le parti che non si è riusciti a capire, indicando le proprie scelte e le motivazioni dietro. La parola critica indica una scelta, il fare il giudice.

Ci si prende le proprie responsabilità davanti ad un testo che pone dei problemi dichiarando tutte le scelte, anche quelle arbitrarie fatte dai tuoi gusti; sono, invece, da evitare le omissioni di operazioni fatte. Ogni singola scelta va resa, quindi ogni singola volta che hai scelto et al posto di e, ogni volta che hai scelto ç al posto di z e così via, per esempio.

Dentro la nota al testo si indica anche la datazione, se è possibile trovare in qualche documento un riferimento cronologico ad una determinata fase di scrittura; insomma, si indicano tutte le informazioni possibili sulle fasi del testo.

La cosa più complicata da fare è la scelta della restituzione linguistica, grafica e formale, che è una cosa non scritta su pietra: la punteggiatura non è mai ferma, cambia nel tempo. La punteggiatura italiana è difficilissima, poiché convivono allo stesso tempo una punteggiatura ritmica e una sintattica, e non è neanche uguale a quella di cinquant’anni fa.

Ciò vuol anche dire che nessuna edizione critica è eterna, proprio perché sono tutte delle approssimazioni. È il mito di Achille e la Tartaruga.

L’edizione critica dev’essere un andare avanti di piccoli passi, pian piano verso la verità, è un’ipotesi di lavoro con la realtà storica come fine.

Fin qui abbiamo ragionato a partire da com’è fatta un’edizione critica, com’è fatta e cosa serve per leggerla; partiamo, invece, dai testimoni per arrivare all’edizione, ora. Partiamo dallo scegliere un testo e i suoi documenti, dalla sua tradizione: come faccio a fare l’edizione di un testo? Parto dai documenti, non da una mia idea, ma da tutta la tradizione che ho, sia quella indiretta, sia quella diretta. Come faccio ordine in questa tradizione?
1. Me la guardo, cerco di capire quanto grande è e quali sono, una volta che li ho visti tutti, i manoscritti migliori per la mia edizione; d’altronde, la sopravvivenza dei documenti è puramente casuale fino ad un certo punto, in quanto si conservano solitamente di più i manoscritti più preziosi di quelli scarabocchiati (che ti fa capire uno dei motivi per cui gli appunti e le carte originali sono scomparse);
2. comincio a vedere, nella tradizione, quali sono i testimoni che contengono il testo in toto;
3. fra i testimoni interi cerco quelli che, ad occhio, mi sembrano meglio secondo il criterio base dell’antichità che, nonostante tutti gli accorgimenti da fare, è quello che mi indica testimoni con meno probabili errori (ci sono comunque momenti in cui, come per la Commedia, magari sbuca un Luca Martini che copia un manoscritto in brutte condizioni ritrovato e si scopre che è il migliore tra tutti quelli che si hanno, anche di quelli antichi);
4. scelgo un testo di collatione, che uso come testo di confronto con gli altri testimoni;
5. comincio a vedere diplomaticamente ogni manoscritto preso in considerazione e mi costruisco un metodo per capire quali rapporti ci siano tra questi testimoni, che non sono altro che oggetti che materialmente trasmettono il testo in modo cronologico;
6. inizio a capire quale sia l’edizione più giusta: l’unico modo che possa farmi da guida, di tutti quelli escogitati nei secoli scorsi, è quello di vedere le letiones di ogni singolo testo partendo da quelle manifestamente sbagliate, che non hanno senso rispetto a quello che sappiamo delle conoscenze dell’autore o delle cose che l’autore vuole dire in base a quello che sappiamo della sua vita, del suo tempo, dei suoi testi e così via, individuo gli errori;
7. creo una tavola dei rapporti genealogici dei testimoni in base agli errori ereditati, o in base alle differenze di errori (mai più continuato questo elenco, ma vede lo stemma, la scelta delle lezioni che si vuole mettere a testo, la scelta e la scrittura dell’apparato critico, l’indicazione di ogni scelta fatta nella nota al testo).

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6
Q

differenze di copiatura fra Boccaccio e Petrarca:

A

Petrarca aveva invece almeno 9 servitori, e controllava lui stesso i manoscritti.

Boccaccio, non essendo ricco come Petrarca, non aveva servitori, non aveva una bella pergamena e un buon inchiostro. Ha poi consegnato la sua ultima volontà, cioè leggiamo il testo come lui voleva.

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7
Q

il papiro nell’impero di Alessandro Magno:

A

L’impero di Alessandro Magno si basava su:
* forza militare
* forza della cultura e della lingua greca

Dell’impero di A. faceva parte ad esempio Pergamo (dove venne inventata la pergamena), l’Egitto (il luogo più pregiato dell’impero).
L’Egitto (e poi anche Pergamo) era l’unico posto ove si produceva il supporto per la scrittura, il papiro, unico supporto per la scrittura nel mondo antico e quindi di forti introiti.
Il papiro si conservava in rotoli all’interno di tubi di pelle, era molto delicato e sensibile all’umidità, si scriveva solo da un lato e poteva contenere circa 1000 versi. Per essere conservato negli anni, ha bisogno di condizioni climatiche molto specifiche.

Intorno all’anno 0 nasce il libro come lo conosciamo noi, che chiamavano ‘codex’.
Non era fatto di papiro, che era troppo fragile, ma di pergamena.

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8
Q

Tolomeo 2° e la biblioteca di Alessandria:

A

Ad Alessandria d’Egitto il monarca era un macedone generale di Alessandro Magno, che ereditò parte dell’impero dopo la sua morte.
Tale generale era Tolomeo, capostipite della dinastia (greci in Egitto) che si esaurirà con Cleopatra (ultima regina dell’Egitto ellenistico).

Tolomeo 2° (circa 280 a.C., 50 dopo la morte di Alessandro) ha l’idea di dotare il suo regno di un centro culturale per speculare, studiare, ampliare le conoscenze umane in qualsiasi disciplina. Questo centro lo chiamerà ‘museo’ (da ‘muse’, cioè le divinità che proteggono gli studi).

Per studiare erano ovviamente necessari i libri, e così nasce l’idea della biblioteca annessa al museo; si ha l’idea di una biblioteca universale, per contenere tutti i libri scritti dall’uomo, di qualsiasi genere > la biblioteca di Alessandria. Alcune biblioteche (anche pubbliche) esistevano già, ad esempio ad Atene (i templi).

Gli studiosi, per realizzare questo proposito, si pongono già il problema della qualità dei testi.

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9
Q

i dettagli per la filologia:

A

Articoli di Bausi: ‘Dio (o il diavolo?) sta nei dettagli. Martelli e la filologia a dieci anni della morte’ > i dettagli servono a capire cose che altrimenti non capiremmo.

Del passato non sapremo mai tutto, abbiamo solo frammenti. I testi letterari sono però la cosa che dal passato si è conservata meglio, nonostante anch’essi come abbiamo visto presentino differenze come erano nel passato.

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10
Q

come fa Dante a riempire le sue opere di citazioni senza avere i suoi libri davanti:

A

Quando è in esilio Dante riesce a comporre la maggioranza delle sue opere facendo moltissime citazioni metatestuali pur non avendo i suoi libri poiché all’epoca i poeti avevano una grandissima capacità mnemonica.

Dante = priore, cioè gli ufficiali che comandavano firenze. Erano al potere per 2 mesi, perché il loro potere era enorme e non poteva durare molto.
Erano poi odiatissimi, tanto che non uscivano quasi mai dal palazzo dove risiedevano.

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11
Q

la filologia come ricerca storica: Dante e Petrarca:

A

La filologia non è altro che ricerca storica; non è solo un esercizio puramente teorico, non è una scienza ( = disciplina con poco margine alla soggettività).

ricerca storica = cercare di arrivare a un’approssimazione della verità, poiché la verità al 100% non è possibile.

Alcune ricerche sono pià semplici di altre; le cose più semplici da ricostruire sono gli eventi storici, come ad esempio ricostruire una battaglia.
Infatti ovviamente si capiscono le strategie di una guerra, le decisioni prese dai comandanti, i retroscena, si conoscono solo dopo. All’epoca dei fatti tutto era segretato.
Di solito poi la storia la scrive chi ha vinto, solo pochi i casi in cui noi conosciamo come le cose funzionavano nel paese perdente.

Per fare invece ricerca storica intorno a un testo, i documenti che ci servono sono più facilmente reperibili, ma di tutto quello che c’era è rimasta solo una piccolissima percentuale.
Ad esempio, non abbiamo nulla di autografo di Dante, ma abbiamo la Commedia.

E’ strano che neanche Jacopo e Pietro avessero un libro in casa con la grafia di Dante, neanche la moglie.

Dei RVF di Petrarca abbiamo un codice non proprio autografo, ma è stato dettato da Petrarca e scritto dal suo (o i suoi) copista/i, poi riletto e controllato da Petrarca (nei casi in cui trovasse errori li correggeva di mano sua).
Non è quindi un autografo, ma è un ‘idiografo’ > documento scritto sotto il controllo dell’autore del testo, che lo ha dettato e poi ricontrollato.

Abbiamo autografo il ‘codice degli abbozzi’, una ‘mala copia’, un taccuino in cui quando era giovane Petrarca buttava giù dei sonetti.

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12
Q

in quali ambiti si fa questa ricerca intorno a un testo?

A

La critica lett è un esercizio che uno svolge intorno a un testo, ma un conto è farlo senza preoccuparsi se il testo è quello che davvero pensava l’autore e cose così, altro conto è farla se queste informazioni effettivamente le abbiamo.

Di fronte a un testo, il filologo non si preoccupa subito di un’interpretazione complessiva, ma si porrà queste semplici domanda, strettamente legate al testo:
1. preoccuparsi di cosa esattamente il testo significa, parola per parola, lettera per lettera. Se non è tutto chiaro/spiegato, non faremo mai un’analisi critica corretta.
Non si può fare un’edizione critica senza un commento.
2. chi è l’autore, perchè diciamo che l’autore è x e non y.
3. la datazione del testo e se la cronologia tradizionalmente fissata sia esatta o plausibile, o se invece possa e debba essere modificata.
4. se ciò che si legge nel testo corrisponde davvero a ciò che l’autore scrisse, o se alcune parole sono state sostituite da altri. Capire se il testo che abbiamo davanti sia davvero da attribuire all’autore o se qualcun altro, volendo o meno, ha inserito una parola diversa da quella decisa dall’autore.

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13
Q

tradizione del testo e percorso evolutivo: il caso di Manzoni:

A

Interessante è quando all’interno della documentazione troviamo il percorso evolutivo del testo; (il viaggio che il testo al di fuori del controllo dell’autore, cioè quando il testo viene pubblicato, è chiamato ‘tradizione del testo’, che ha nel mondo una volta solitamente una volta terminato. Qui non parliamo della tradizione, ma del percorso evolutivo che il testo ha prima di arrivare ai lettori).
Poi vi sono le questioni intermedie, ex. quella dei ‘Promessi Sposi’; Manzoni cominciò a scriverlo (‘Fermo e Lucia’ = 1° redazione), quando decise di metterlo via e dedicarsi ad altro, senza rivederlo.

Quindi questa redazione non diventerà mai un’edizione
Edizioni saranno quelle dette:
* ‘ventisettana’ (perchè i 3 volumi in cui era diviso il romanzo vennero finiti di pubblicare nel 1827) > 2° redazione.
* ‘quarantana’ > 3° redazione. (“lava i panni nell’Arno”).
Dato che la ventisettana ebbe un grande successo sì di vendite, ma vi fu anche un grande lavoro di pirateria. Inoltre i libri costavano parecchio, e quindi per permettere di leggere il romanzo a tutti decide di far uscire i ‘Promessi Sposi’ a puntate/fascicoli.
Per scongiurare la questione delle copie pirata Manzoni ha l’idea di renderlo un libro illustrato (una figura ogni 3 pagine).

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14
Q

la parte del testo su cui gli autori si concentrano di più:

A

La parte del testo su cui gli autori si concentrano è l’inizio; Guicciardini fece e rifece più volte la parte iniziale, con ovviamente esiti diversi (ad esempio spostando pezzi dell’inizio alla fine e viceversa).

Quando Guicciardini trova poi la versione dell’opera che gli piace, allora cambia il senso di tutta l’opera.

Guicciardini inizia ‘Storia d’Italia’ con una domanda; come può essere stato possibile che l’Italia, in pochissimo tempo, si sia sgretolata con l’arrivo di potenze straniere se siamo stati per anni a capo del mondo.

Da qui spiega come secondo lui è stato possibile.

La fine è la parte meno curata.

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15
Q

varianti, lacune e interpolazioni:

A

Troviamo poi, sempre leggendo la tradizione di un’opera, delle parole o frasi diverse rispetto a quelle che l’autore aveva scritto. È il caso delle varianti. Ci rendiamo conto dell’errore se conosciamo bene il modo di scrivere di quell’autore. Parliamo in quel caso di variante, che è una parola ambigua; quando, invece, ci rendiamo conto che manca qualcosa, parliamo di lacune, che possono essere volontarie oppure involontarie.
Un disturbo nel continuum della scrittura possiamo notarlo o nella perdita o nella aggiunta di altre parti messe lì che non sono farina del sacco dell’autore: in questo caso parliamo di interpolazioni.

Capita poi spesso che l’autore stesso cambi idea/volontà.

Ad esempio, se Manzoni fosse morto nel 1828, la sua volontà sarebbe rimasta quella della ventisettana. Successivamente invece cambia con la quarantana.

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16
Q

a cosa sono dovuti gli errori dei copisti:

A

Gli errori del copista sono dovuti a:
1. la mano: se è mancino ad esempio ha più difficoltà > ‘tre dita scrivono, ma tutto il corpo fa fatica’ dicevano molti copisti.
2. la penna: quelle dell’epoca andavano caricate continuamente, erano delicatissime
3. l’inchiostro: era fatto artigianalmente, spesso fatto in casa con gli scarti della cucina (la cenere del camino, il fondo del vino (la gromma), piante…)
4. il supporto: ex. la pergamena, che aveva una lunghissima preparazione (spesso fatta dal cartolaio). Quando verrà introdotta la carta, sarà molto più economica della pergamena (che era pelle di capra), poichè viene da piante (ex. canapa).
Ovvio era che la carta era meno spessa della pergamena e meno robusta, per questo chi usava la pergamena, quando la carta venne portata dagli arabi in occidente, era diffidente nei suoi confronti.
Infatti vi sono prove di documenti che dovevano essere fatti solo sulla pergamena, non sulla carta.
La differenza principale fra pergamena e carta era il costo;

scrivere non era sinonimo di essere colto, leggere lo era. Per questo a copiare erano i servi.

Scrivendo a mano (da copista professionista) si commettono meno errori di quanto pensiamo. Da 2 a 4 errori (singole lettere) a pagina.

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17
Q

esiste un testo trascritto senza errori?

A

Dal 1200 al 1500 la maggior parte dei testi che noi possediamo è stata conosciuta e trascritta esclusivamente attraverso la trascrizione manuale (o dall’autore stesso = autografo, o da qualcun altro).

La trascrizione di un testo è un’operazione che porta inevitabilmente alla creazione di errori, non esiste un trascrittore neutro.
Anche chi fa il copista di mestiere ha le sue abitudini, le sue distrazioni, la stanchezza, il non vedere bene al buio…

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18
Q

fattori che rendono difficile la lettura di un testo:

A

I testi poi possono essere complicati da leggere; il primo ostacolo è paleografico (leggere correttamente ciò che hai davanti).

secondo ostacolo: ciò che il testo dice; vi sono due scuole di pensiero:
* quella che pensa che il migliore copista sia quello che non capisce il testo, e che quindi lo copia in modo meccanico. Quest’idea però è sbagliata perché non è detto che questa imitazione inconsapevole porti un risultato migliore di una copia consapevole. > gli errori ci sono ancora.
* quella che pensa che pensa che sia meglio un copista colto, poichè in situazioni in cui non si capisce cosa dica parte del testo, entra in gioco la sua cultura della lingua.
Questo può al massimo sbagliare per eccesso > ha la presunzione di correggere l’autore, magari banalizzando la scrittura raffinata dell’autore.
Le prove ci dicono che è meglio che il copista sia colto, e che quindi capisca ciò che scrive l’autore. Ovviamente, la cosa migliore sarebbe un copista colto e fedele.

Un copista di professione fa circa da 2 a 4 errori per pagina. Gli errori veri sono quelli che un copista non può correggere.

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19
Q

come si copia un testo:

A

Copiare un testo è una roba molto complicata e per farlo in modo professionale serve costruirsi un modo, un protocollo della copia.
Parola per parola? Frase intera per frase intera? Riga per riga?

Sappiamo che i copisti medievali ne leggevano un pezzo (un periodo intero o un verso), non parola per parola (lo capiamo perché se facessero parola per parola, oltre che ci metterebbero molto più tempo, gli errori che troveremmo nei manoscritti sarebbero diversi).
Non sappiamo se leggessero a voce alta o a mente, sappiamo che nel ‘300 la lettura interiore era molto rara.

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20
Q

quando è l’autore stesso a commettere errori:

A

Anche quando è l’autore stesso a fare il copista, commette errori. Gli errori veri e propri in filologia sono più che altro i casi in cui l’autore scrive una cosa erronea (ad esempio l’autore che attribuiva a qualcosa un nome, che però non è corretto. Noi per rispettare la cultura dell’autore non lo correggiamo).

ex. Montale che scrive ‘diaspori’ al posto di ‘diosperi’ (diospero = caco/cachi).

In un’edizione successiva Montale correggerà il termine.

Può anche succedere che l’autore riporti qualcosa di errato, ma che lo faccia apposta (ex. Machiavelli che deve far fare la figura dello stupido al marito della protagonista della Mandragola, e quindi dice sciocchezze, come un proverbio sbagliato).

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21
Q

la lettera ‘Ghiribizzi al Soderino’

A

Oggi la maggior parte dei contributi critici (non solo filologici) sugli autori prima del 500 ha un contributo filologico del modo in cui i testi sono stati trasmessi.
Anche da piccoli dettagli possiamo trarre informazioni.
Bausi parla del caso di un testo di Machiavelli, ‘Ghiribizzi al Soderino’, testo epistolare.
Ghiribizzo = cosa di poca importanza. Il testo era una ‘minuta’ cioè un abbozzo, probabilmente mai spedito al Soderino.
Machiavelli morì senza aver dato indicazioni sul sistemare le sue opere, che vennero curate da un gruppo di amici.
Non sappiamo precisamente però chi mise opere alle carte, e nell’ultimo periodo della sua vita molte opere sono state stravolte, ricomposte e ripensate.

Il nipote Giuliano de Ricci, tardo ‘500, con altri amici, ricopiò tutto ciò che trovò in casa di Machiavelli, e a ciò dobbiamo le opere che studiamo oggi (ex. la lettera a Vettori).
Non sappiamo come la lettera fosse autografa, se fosse diversa, se nella versione che studiamo noi ci siano errori di lettura e non.

Ghiribizzi in Raugia (Ragusa) al Soderino’: manoscritto risalente al 1512-1513

in Raugia = a Ragusa, dove era stato esiliato Soderini dopo la cauta della Repubblica di Firenze.

Soderino = il capo di Machiavelli quando questo era secondo cancelliere della Repubblica Fiorentina.

Piero Soderini era il capo gonfaloniere di Firenze, Machiavelli era invece un semplice funzionario che poteva essere licenziato in qualunque momento.

Tuttavia, quando la Repubblica di Firenze viene smantellata e i Medici tornano al potere, Soderini non è più perpetuo. Viene esiliato a Firenze.

L’interpretazione della lettera è falsa, la copia che era stata fatta 60 anni dopo la morte dell’autore diceva cose che l’originale non diceva.

Lo sappiamo perché anni fa un filologo, nel 1960, trova nella biblioteca Vaticana l’autografo della lettera. Innanzitutto l’autografo non è indirizzato a quel Soderini, ma a un altro, il figlio: Giovan Battista Soderino (grande amico di Machiavelli).
Non è indirizzata ‘a Raugia/Ragusa’, ma scritta in Perugia; Machiavelli era appena stato a Perugia nel 1506, per cui la lettera va datata nel 1506.

Il tema della lettera è lo stesso, cioè la sfiducia nello stato. Il quadro e la cronologia sono completamente diversi, come anche la persona a cui è indirizzata, che era un pari, infatti il tono era amichevole e alla mano.

Il principe sarà il sunto dell’idea politica di Machiavelli, già anticipata in questa lettera. Per Machiavelli le signorie = i principati romani > da qui ‘De Principatibus’.

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22
Q

il codice Capponiano 107:

A

Il codice Capponniano 107 (I Capponi sono un’antica famiglia di Firenze) si trova nella biblioteca vaticana ed è quello di cui parlavamo l’altra volta riguardo Machiavelli: è un codice messo insieme da pezzi sparsi, è complicatissimo per la fascico-lazione ed è l’autografo del ghiribizzo ai Soderini.

Soderini parla a Macchiavelli come fosse un fratello, per questo gli scrive con molta tranquillità.

L’indirizzo è A Perugia o dove sia: i viaggi per le lettere erano complicati e rischiosi, poiché i tempi di consegna potevano variare da un giorno ai tre/quattro. Scrive ‘o dove sia’ nei casi in cui la lettera fosse arrivata prima che Machiavelli arrivasse a Perugia oppure dopo la partenza.
E’ a questa lettera del Soderino che rispondono i ghiribizzi di Machiavelli, scritti in Perugia.

Nelle lettere c’è tutta una tipologia. Abbiamo davanti un foglio che è stato scritto e piegato su se stesso fino ad ottenere una specie di bigliettino da mettere dentro un foglio di carta piegato allo stesso modo: si tratta di un carteggio. Tra il 13 e il 21 settembre Machiavelli è a Perugia.

Alla fine, ci sono i testimoni della lettera: V.C è il Vaticano, e vediamo che non vengono numerate per pagine, ma per carte, che indicheremo con retto o verso. E’ conservata comeMinuta autografa, ciò vuole dire che è una malacopia, cioè non è quella che effettivamente è stata spedita; quindi, non sappiamo se effettivamente Machiavelli l’avesse davvero inviata.

A.R: apografo Ricci; si specifica tra parentesi che è un apografo, cioè una copia di un’altra cosa.

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Q

sull’idea di “epistolario”:

A

Petrarca è uno dei primi uomini a concepire l’idea di epistolario come lo intendiamo noi oggi, ovvero come il mettere insieme una raccolta di lettere.

Per Cicerone era una raccolta di lettere destinate alla famiglia.

Certe lettere sono un’operazione letteraria concepita dall’autore per dare una certa immagine di sé, mentre altre sono inviate anche a destinatari fittizi come esercizio retorico: questo è ciò che si intende per epistolario.

Il carteggio è quando andiamo a cercare tutto quello che troviamo di buono di lettere scritte e inviate da un personaggio. Spesso troviamo non solo le lettere che l’autore ha scritto, ma anche quelle che ha ricevuto. Delle lettere che Machiavelli scrive, di pochissime conosciamo la risposta, mentre abbiamo molti pezzi. Spesso e volentieri queste lettere sono sincere, scritte senza nessun intento di autoglorificazione, quindi dei carteggi .

U’ significa ‘vostra’; non scrive “lettera” ma lett, cioè, abbrevia; 10 è scritto con una X con in apice una c; seguono poi delle righe cancellate da un tratto di penna, per far capire che quello non gli andava più bene (per questo si parla di minuta).

Siamo in una edizione critica. Si riporta una
parte di testo sulla quale vuoi attirare l’attenzione del lettore. L’editore mette in corsivo i suoi *commenti *e in tondo quello che c’è nel testimone. Cancella la frase, la corregge, ma poi la cancella ancora (cassato significa cancellato). Le pieghe sul foglio, invece, fanno capire che quella lettera ha viaggiato: al tempo non c’erano buste, quindi, una volta ripiegata, la lettera veniva chiusa con la cera lacca e poi volendo poteva anche venir aggiunto il si-gillo personale, che indicava che, se intatto, la lettera non era stata ancora letta; dopo aver sigillato il biglietto ripiegato, si scriveva l’indirizzo. A volte il foglio poteva rompersi, poiché veniva piegato così tanto e così spesso, da farci trovare oggi i buchi.

Un caso come questo ci insegna ancora una volta l’importanza dei particolari come, per esempio, la datazione corretta del testo, l’identificazione di coloro che vengono citati nella lettera (anche il destinatario) e il luogo.

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24
Q

filologia come arte dell’approssimazione alla verità:

A

filologia = arte dell’approssimazione alla verità, si avvicina alla verità.

La letteratura è un arte a metà fra l’astratto (un testo può essere imparato a memoria…) e il concreto (il supporto del testo).

Ad oggi è difficile che un testo venga perso completamente, poichè il nostro tempo fa copie di tutto. Fino a 100-200 anni fa non era così, e molti testi (antichi e non) sono andati persi.

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25
l'importanza della tradizione:
Noi non possiamo sapere perchè di alcune cose abbiamo di più e di altre di meno (ex. Saffo; abbiamo solo pochissimi frammenti dei suoi, e non sappiamo perchè abbiamo proprio quelli e non altri). C’è una poesia di Virgilio che racconta che nascerà un bambino che cambierà la storia; a seconda di chi è il lettore (ex. un cristiano, un pagano legge di un elogio a un Asinio Pollione, personaggio importante della corte ) la interpreta in modo diverso. Forse l’**assenza dei testi di Saffo** forse è dovuta al fatto che il **lessico** della poesia di Saffo faceva fatica ad essere accettato dalla **Chiesa** (dato che i termini che la Chiesa usa nei suoi testi viene in origine dal lessico erotico-amoroso dei testi greci). Per certi autori greci abbiamo solo i frammenti riportati da enciclopedie/glossari di epoca tardo-bizantina.
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termini e abbreviazioni nel libro:
* **omette**: si usa spesso negli **apparati** dei testimoni (ex. in un’edizione, nel suo apparato della divina commedia ci può essere scritto ‘il manoscritto x omette ‘vita’ in ‘nel mezzo del cammin di nostra vita’). * **volumen** > da ‘volvo’ (ripetere) * **incipit** - explicit, le parole latine per indicare l’inizio e la fine di un volume (**explicit** = abbreviazione di ‘**explicitum est**’ > letteralmente ‘è stato srotolato tutto’). Le ultime pagine riportano l’indicazione tecnica (stampato il…) e questa si chiama **colofone**, chiamata così perché nei libri greci i copisti usano una parola particolare per indicare quando il testo finisce (in tempi antichi, i lettori avevano il bisogno di capire quando iniziasse il testo e quando finisse; Dante, e tutti i medievali in realtà, indicavano l’inizio con incipit e finivano in explicit, oppure col colophon). Il colophon è un **triangolo rovesciato** disegnato dalla formattazione delle righe, che ser-viva per far capire che il testo finisse lì, e in greco questa figura, questa cuspide, si chiama proprio colophon. Cos’è un foglio protocollo? Il **papiro** era costruito di tanti filamenti di **stuoia** e **pezzi incollati**, con cui si faceva il rotolo; il primo quadrato con cui si iniziava a fare tutto era il **protocollo**. L’ultimo si chiamava **escatocollo**.
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parti del libro:
* **coperta anteriore** e **coperta posteriore** (copertina esterna) * **piatto anteriore** e **piatto posteriore** (copertina interna) * i fogli bianchi all’inizio = **carte di guardia** * **frontespizio** = pagina interna al libro dove c’è solitamente il **titolo** e l’**autore** (+ altri dati, come la data e il luogo di stampa). C’è soprattutto nei libri a stampa, raramente in quelli manoscritti. * il **libro in sè** * le **ultime pagine che danno le informazioni tecniche** (ex. le informazioni sulla stampa del libro) > ‘**colofòne**’ (disposizione delle ultime righe di testo in modo tale da far assumere alle righe stesse la forma di un triangolo con la punta/cuspide verso il basso). Perchè il papiro era costituito di tanti pezzi (quadrati incollati a quadrati); il quadrato si chiamava ‘collon’, tutti insieme ‘**collemata**’. Per cui > **protocollo** (protos = primo), il primo foglio di un rotolo di papiro. **escatocollo** > ultimo foglio. quando apriamo un libro abbiamo due pagine (una a sinistra e una a destra), la pagina di destra è quella in cui comincia il libro (ed ha numerazione dispari; di conseguenza le pagine a sx hanno numerazione pari).
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sistema di numerazione per 'carte':
sistema di numerazione per carte: Nel passato, si numerava per carta/foglio (carta 1, carta 2…). * carta 1 **recto** * carta 1 **verso** (rovescio) > insieme formano la **carta 1**. Nelle lingue scritte da sinistra a destra, come l'italiano, il **recto** è la **pagina di destra** e il **verso** è la **pagina di sinistra seguente**; !! = in un libro aperto che mostra due pagine, quella di destra è il recto di un foglio e quella di sinistra è il verso del foglio precedente
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abbreviazioni per i fondi delle biblioteche:
I manoscritti, fortunatamente, dalla fine della 2° guerra mondiale, non cambiano casa (almeno quelli di proprietà pubblica; quelli di proprietà privata chissà che fine fanno). Non tutte le biblioteche catalogano i pro-pri manoscritti nello stesso modo: solo le biblioteche che non ne hanno molti numerano i manoscritti dall’uno al numero massimo di quelli che hanno, altrimenti, le biblioteche con grandi fondi (luoghi da cui la biblioteca ha ottenuto il libro) accumulati nei secoli usano diversi tipi di nominazioni (il fondo inglese Cotton è numerato come **Cotto**, il nobile inglese, numerava le stanze dei manoscritti, che avevano un busto di imperatore al centro, e quindi uscivano cose come **Cotton Nero**, cioè Cotton Nerone). Moltissimi manoscritti qui a Bologna hanno il timbro della **biblioteca napoleonica**, che, quando era arrivato qui, si era portato via moltissime co-se dall’Italia. **Acquisti e Doni** > i doni della gente che morendo decide di donare alla biblioteca i suoi libri. Il fondo con molti **soppressi** (testi di monasteri che, chiudendo, donavano i loro testi. ex. chiusi con Napoleone) è presente in molte biblioteche in Italia, come la **Laurenziana**; a Bologna molti provengono da conventi soppressi. Un fondo spesso trovato è quello segnalato dalle lettere **Ital**. ad indicare la loro provenienza italiana, siano questi rubati o comprati. Il fondo **Magliabechiano** si trova alla Biblioteca di Firenze. Il Palatino è intrigante: **Pal** senza alcuna specificazione significa che pal. > di proprietà dell’elettore palatino di Germania (o in generale, codici della famiglia regnante). I codici plutei (**Plut**.) vengono da una biblioteca italiana, la Laurenziana di Firenze, dove si hanno tavoli-armadi progettati da Michelangelo chiamati *plutei*. L’**Urb. Lat**. è nella biblioteca apostolica vaticana, che divide i codici non per lingua, ma per alfabeto, quindi il **Vat. Lat**. indica che è scritto coll’alfabeto latino; il fondo urbinate era quello di Federico da Montefeltro, soldataccio, ma grande studioso, che i suoi discendenti, non potendo andare avanti, donano i libri. **Vind. Pal**. indica un codice a Vienna.
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il libro che noi compriamo è vettore di ciò che voleva dire l'autore?
**testo** ≠ **opera**. Il libro che compriamo, sarà vettore di ciò che voleva dire Dante? Infatti, se con un dipinto o un monumento l’opera coincide con la sua materialità, **le opere letterarie non hanno un vincolo materiale a meno che non siano proprio gli autografi**. Spesso però chi fa questa operazione che permette all’opera di arrivare a noi fa riferimento a copie, quindi la volontà dell’autore non è necessariamente rispettata (ex. con Dante, di cui non abbiamo autografi). Di **Petrarca** invece abbiamo molti **manoscritti autografi**, di cui però **pochissimi sono di sue opere**. Al contrario, la maggior parte dei manoscritti autografi di Boccaccio erano di sue opere. Petrarca era ricco, mentre Boccaccio no. Per cui non aveva un manipolo di persone che lavoravano per lui. ex. In Inf. III. 31-33 ‘e io c’avea d’**error** la testa cinta’ oppure ‘e io c’avea d’**orror** la testa cinta’? Sono due varianti che si trovano in manoscritti diversi della commedia, e in base a quale inseriamo nella frase il significato cambia (error = il vagare ; orror = paura/rizzarsi dei peli). Abbiamo quindi 2 possibili letture di un passo dantesco. Non si può escludere del tutto che Dante sia stato **incerto** fra 'error' e 'orror', o che abbia scritto prima ouna delle due o poi l'abbia sostituita con l'altra. Se così fosse, entrambe le varianti risalirebbero a lui, e i copisti, dividendosi, avrebbero rispecchiato l'una o l'altra delle due fasi elaborative di quel verso; **in tal caso, neppure il ritrovamento di un autografo della 'Commedia' risolverebbe tutti i dubbi**, perchè quell'autografo, a meno che non fosse una bella copia del poema eseguita da Dante sul finire della vita, rifletterebbe una sua **volontà provvisoria**. Nei libri antichi: * le **parole** erano spesso **attaccate** * **non** erano **numerate** le **pagine** * la **punteggiatura** era molto **scarsa e diversa dalla nostra** * **non** vi era l’**indice** o gli indici correnti * noi abbiamo 'arci grafema' **u-v** (**gli antichi non le differenziavano**)
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'testo' e 'opera' coincidono?
Fino all’800 testo (l’oggetto materiale) e opera non coincidono. Poichè **dalla copia dell’autore, si diramano tutte le altre e creano la tradizione, che appunto è fatta da tante copie/testi**. Più il tempo fra la composizione del testo e me che lo leggo è lungo, più saranno state le modificazioni effettuate dai copisti. Questo fino all’epoca di stampa. il libro a stampa, dato che qualcuno ci guadagna, è una merce; non sempre un manoscritto lo è.
32
gli errori di copia e di stampa:
**manoscritto a mano** > gran numero di innovazioni (che non sono necessariamente errori, semplicemente rendono il testo ‘diverso’ rispetto a ciò che aveva scritto l’autore) perchè si producono errori? perchè siamo esseri umani, a meno che a essere riprodotto non sia un testo brevissimo e in condizioni favorevoli (ex. il copista non è distratto) Inoltre il copista deve capire cosa scrive, e non è sempre facile. Per Dante ad esempio, **non sappiamo se Dante alla fine della sua vita avesse un’idea definitiva del suo libro**. Non sappiamo se diede indicazioni a qualcuno. Per cui, se il suo autografo era sicuramente il primo anello della catena della tradizione della Commedia, **non sappiamo se fosse certo di quella versione. Non sappiamo nemmeno se fosse l’unica versione autografa.** La **prima opera in volgare stampata** in Italia fu proprio la **Commedia**, a Foligno nel **1472**. Se ad oggi due copie stampate sono uguali, all’epoca non era così. Per cui **non è vero che due copie stampate erano uguali.** Ad oggi le macchine stampano una serie di multipli tutti uguali fra loro, all’epoca il procedimento non era automatico; vi erano tante persone che lavoravano alla stampa. La macchina inventata da Gutenberg era ispirata al torchio per fare il vino. Nel torchio da stampa venivano chiuse le **pagine (formate da lettere)**, un altro operaio le inchiostrava con un rullo di inchiostro, sotto si metteva il foglio di carta e si stampava. **I libri costavano così anche molto meno**, e dal punto di vista della qualità del testo non è cambiato niente, poiché **il modello era comunque un testo con sicuramente degli errori** (e comunque **potevano capitare errori anche nel processo di stampa**). Inoltre quasi mai vi era un controllo sui testi usciti dal processo di stampa da parte dell’autore o di qualcun altro. Una cosa che succedeva era che **metà testo** fosse stampato da un modello magari scadente, e l’altra metà fa un modello migliore. stampa > prima industria Tuttavia, **il motivo per cui dopo 700 anni la Commedia è ancora comprensibile nonostante tutti gli errori, è che parte di essi, se ci ragioniamo sul motivo per cui è avvenuto l’errore, può essere corretta**. E’ il lavoro del filologo, non del copista. Per questo il filologo deve capire più di qualsiasi copista. **Il filologo si appoggia ovviamente al lavoro di chi lo ha preceduto**. I migliori documenti che possiamo avere a disposizione per analizzare un testo sono quelli che risalgono al tempo dell’autore, ma non sempre esse sono disponibili. Per cui spesso dobbiamo affidarci a documenti che non siamo sicuri siano affidabili, che siano gli originali. Gli errori commessi ad esempio sono davvero errori? L’errore è un punto del testo che noi capiamo rendere il testo incomprensibile. **E’ più facile scovare un errore in poesia che in prosa (per la questione della metrica**) Tuttavia, può succedere che il lettore moderno non capisca un punto del testo e che non sia però un errore, semplicemente l’autore è molto oscuro o il concetto è molto distante da noi.
33
tradizione indiretta e tradizione diretta:
2 diverse tipologie di tradizione * **la tradizione solita/indiretta** = la fonte che stiamo utilizzando non ha come scopo quello di tramandare ad esempio la Commedia, ma un altro testo, al cui interno c’è una citazione alla Commedia. Tradizione indiretta sono anche le parodie ( = riscrittura di un testo tramite un abbassamento di grado) o le traduzioni in altre lingue. * **la tradizione diretta** = la fonte che usiamo ha come scopo la trasmissione di quel testo in particolare, la Commedia nel nostro esempio. Esempio di tradizione a metà fra diretta e indiretta della Commedia sono gli atti dei notai bolognesi (erano contratti, operazioni commerciali o giuridiche…). Gli spazi lasciati vuoti (che non potevano essere lasciati vuoti per evitare che qualcuno ci scrivesse qualcosa che corrompesse il contenuto del documento) erano riempiti con versi di Dante. Risalgono circa al 1317, cioè più o meno l’epoca a cui risale il più antico manoscritto della Commedia che possediamo. Il problema era che li scrivevano a memoria, o magari i versi erano messi in quel modo anche perchè non era ancora avvenuta la prima diffusione del testo dantesco!!. esempio di tradizione indiretta > ‘Principe’ di Machiavelli. Negli anni in cui Machiavelli, o chi per lui, sta facendo i ritocchi finali, si vede un testo di Agostino Lifo, che traduce in latino Il Principe, la quale datazione ci indica che tradusse non la versione finale, ma quella prima della rielaborazione finale. Anche questa tradizione è indiretta.
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altro esempio di tradizione indiretta: Dante:
Altro esempio > passo della Commedia in cui Dante rielabora (traduce) l’Eneide; questo passo è legato al notaio fiorentino **Andrea Lancia**, che fece una traduzione in volgare dell’Eneide (in prosa). Viene ripresa anche nel racconto dell'incontro di Dante con l'amico Casella nel Purgatorio, in cui gli viene automatico abbracciarlo, ma l’amico è incorporeo, per cui le sue mani ritornano al suo di corpo, senza toccare quello dell’amico. ‘Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante *mi tornai con esse al petto*’ Questo è il modo in cui la maggior parte dei codici della Commedia riportano l’episodio; Andrea Lancia traduce l’episodio del libro 6° dell’Eneide di Enea del regno dei morti ‘tre volte m’isforzai d’avvinghiarli le mani al collo, e altre tante *mi tornai con esse indarno al petto*’) > sembra rifarsi totalmente a Dante, l’unica differenza è che qui scrive in prosa. Alcuni testimoni autorevoli come l'Urbinate (1532), pochi, hanno la versione ‘*mi tornar le mani con nulla*’. Questa doppia versione o ci dice che, quella del 'con nulla' è errata, poichè Dante voleva rifarsi a quella di Lancia, oppure che Dante prima opta per una versione simile a quella di Lancia, e poi la rielabora con una versione più fedele all'Eneide Virgiliana.
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esempi di errori: 'Ninfale Fiesolano' di Boccaccio:
Ex. 4 sul manuale ‘tu vedi che del giorno omai ci ha poco e potremmo esser **trovati** in esto loco’ Boccaccio, **Ninfale Fiesolano**. l’ultimo verso è di **12 sillabe**, e non di 11 come tutti gli altri endecasillabi. Questa è una delle opere di cui non abbiamo autografi di Boccaccio. L’unica parola che stona è ‘**trovati**’ (le altre non hanno corrispettivi con meno sillabe che Boccaccio userebbe). Il senso del verso si capisce, quindi è un errore formale, non sostanziale. Per rispettare la volontà dell’autore dobbiamo però riportarlo a endecasillabo. Ci sono casi in cui troviamo versi di metrica un po’ fallace in autografi d'autore, ma **Boccaccio era molto attento e non lo avrebbe fatto**.
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esempi di errori: Lorenzo de Meidci, commento ai suoi sonetti:
Qui *non è la metrica* a farci intuire che c’è un errore, visto che il testo è in prosa, ma il **senso del discorso**, che non c’è. > **errore sostanziale**, non **formale**. L’errore è dovuto al fatto che poche righe prima Lorenzo aveva fatto riferimento alla ‘**grandezza**’ (cioè all’altezza), e quindi vi è l’errore di *ripetizione* (nel rigo dopo si palra del colore della pelle, non di altezza o 'grandezza'). Non è un errore che il lettore corregge in automatico (come invece può essere lo sbaglio ortografico), ma deve capire il senso sommario della frase. E' probabilmente un errore del copista. E’ vero che **senza autografo facciamo molta fatica a ricostruire la volontà dell’autore**, ma anche avendo gli autografi, neanche essi sono sinonimo di edizione perfetta. Anche l’autore stesso infatti può commettere gli stessi errori dei copisti (ma meno di quelli dei copisti).
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esempi di errori: 'Decameron' di Boccaccio:
ex. Boccaccio, Decam. II 2, 4. Rinaldo d’Asti? Successivamente dice che per tornare a casa passa da Verona. Quindi probabilmente era **Rinaldo d’Este**, che è vicino Padova (Asti = Piemonte). Il fatto strano è che anche l'**Hamilton**, cioè l'autografo, e con lui i codici più autorevoli del Decameron, portano '**Asti**', quindi alcuni non lo ritengono errore.
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esempi di errori: errore di Bausi:
Alla pagina 33-34 del manuale trovavi l’errore tipografico di Bausi inducendo quindi il copista e commettere un errore nell’edizione prestampa; dunque, anche l’editore di Bausi stesso ha commesso un errore, di cui vedi la genesi. È un errore che, se non ti metti a leggere parola per parola, non noti. Questo errore qui, però, non lo vedi, mentre nel testo che abbiamo noi si ha inducendo quindi il copista e a commettere un errore, che leggi benissimo come un errore. Quando correggi automaticamente un testo mentre leggi, stai facendo il filologo: la lettura è una serie di meccanismi che il nostro cervello mette in moto secondo una logica incasinata, per la quale noi non leggiamo tutte le lettere, ma per la quale capiamo la parola dall’insieme di lettere; infatti, leggere, in latino, ha il significato di raccogliere, un’azione che puoi fare anche togliendo dalla maggio-ranza delle parole in un libro le vocali. In filologia abbiamo bisogno degli errori per correggere un testo, ma solo di quelli che non correggiamo automaticamente. Un altro concetto da assimilare è che, **anche con l’autografo, non hai l’edizione perfetta, in quanto anche lo stesso autore è portato a sbagliare per gli stessi errori di memoria di un copista**. Quando un autore si trasforma in un copista, sbaglia; eppure, ci sono autori più sul pezzo di altri, che quindi ci fanno avere un testo molto più corretto. Comunque sia, **è sempre meglio avere un testo autografo di un autore scarso, che uno di copista bravissimo.**
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come fanno gli errori ad esserci utili?
Il nostro scopo è quello di aggiustare un testo, perché sia il più simile alla volontà dell’autore, ma se non ho documentazione sufficiente ad aggiustare un errore che potrebbe essere d’autore, come faccio a correggerlo? Gli studiosi della Biblioteca di Alessandria già si posero il dubbio della qualità dei testi e per capire come aggiustare gli errori dei testi, loro cercarono in tutto il loro mondo conosciuto informazioni e testi su e dell’autore che vogliono correggere, come Omero. Come capivano la qualità del testo? Prima degli Alessandrini, le biblioteche del mondo greco avevano uno scopo a metà tra il **pubblico**, il **politico** e il **sacro**, uno scopo di conservazione di testi istituzionali per la memoria dello stato. **Gli Alessandrini mandano nelle città emissari a prenderli secondo il criterio del prestigio di un tempio**, che conservava perfettamente i testi per i motivi sopra scritti.
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nel mondo medievale, come funzionava l’affidabilità di un testo?
**Boccaccio stesso** si mette a fare il filologo ponendosi **molte domande sull’affidabilità dei testimoni della Commedia**, poi sviluppando i suoi criteri in base all’antichità dei manoscritti. Questi criteri funzionavano abbastanza bene, se contiamo quello detto la scorsa volta del **figlio di Dante (Jacopo) che presta l’autografo che viene copiato con più e più errori** (un ipotetico Jacopo Alighieri presta l’autografo ad un amico, che lo copia e fa i suoi errori, per poi prestare la sua copia a un altro amico, **così creando una serie a cascata di manoscritti sempre più lontani dall’originale**). Il punto è che noi non siamo in grado di ricostruire la cronologia di ogni manoscritto senza altri elementi che non siano la scrittura. * **Vat. Lat. 3195**. Prima pagina: conservazione dell’energie appoggiando la **e** di 'petrarche' alla pancia della **h**. I dittonghi sono scritti con la lettera del suono con cui gli pronunci (e per ae). Vedi una V miniata, poi delle s alte e basse. Questo lo capiamo anche dal luogo: infatti, se ho davanti due manoscritti fatti nello stesso luogo da due mani simili, possiamo datarle entro i vent’anni. A livello filologico non cambiano tanto questi vent’anni. Queste informazioni, però, non sono abbastanza per decretarne l’autorevolezza, e per farlo devo fare delle operazioni: la prima è quella di cercare di capire tutte le cose che ho a disposizione, quali sono le fonti del testo. Nella biblioteca ideale, di un testo io devo avere tutte le fonti, tutti i testimoni disponibili. I testimoni sono per me aiuti nel giudicare una tradizione, esattamente come in tribunale: devo tracciare tutti i testimoni di un reato, poi giudicare se i possibili autori della rapina sono tali; entrano in scena anche gli avvocati difensori e i prosecutori. È importante avere tutti i testimoni, perché devo capire se dicono tutti la stessa cosa, però non succede sempre così, e la stessa cosa accade anche coi testi, in quanto noi siamo esseri umani e non macchine.
41
l'edizione:
Abbiamo visto che **un testo è un qualcosa di complesso da definire**, a causa della **differenza tra la parte materiale e quella immateriale**, della memoria delle persone, dei gusti delle persone. Oggi abbiamo delle biblioteche individuali molto grandi, anche se ci sono libri che non leggiamo; in passato, quando i libri erano molto costosi, c’era un maggior desiderio di averli, portando le persone a memorizzare quei pochi che avevano. Il libro e la conoscenza erano quasi cose divine. Quando scrivi, prima di scrivere aspetti l’ispirazione, che per gli antichi era il messaggio divino, un concetto che i greci chiamavano entusiasmo, ovvero un qualcosa che hai dentro il petto (θυσια è il petto), un’agitazione creativa, un furore creativo che un dio ti mette dentro. Quando fai un’**edizione critica**, affronti un procedimento che** ricostruisce il più possibile la volontà di un autore**. Quando parliamo di edizione del testo, parliamo di una cosa precisa: **editio** vuol dire “**da-re fuori**”, ovvero pubblicare e editare, rendere diffuso al numero più grande di persone (anche se noi lo pensiamo solo per i libri a stampa, in realtà vale anche per altri tipi di opere). Già **nel mondo latino, greco e medievale** si parlava di **edizione** per indicare la **circolazione di un’opera**; quando, invece, parliamo di **edizioni a livello filologico**, intendiamo una **pubblicazione di un testo fatta secondo un certo criterio**, ovvero quello di ripulire un testo perché sia il più vicino all’idea del proprietario. Nel medioevo, o già ai tempi di Sant’Agostino, si pensava che il testo non appartenesse all’autore, ma a Dio, che l’aveva scritto usandolo come tramite. Noi, il concetto del testo che appartiene all’autore in quanto lui l’ha scritto, lo usiamo anche per autori passati. La cosa più importante per rendere un servizio al progresso della cultura è il **rispetto della volontà dell’autore, non di ciò che avrebbe voluto scrivere, di ciò che è scritto attualmente, ma di ciò che ha effettivamente scritto**.
42
come cambia un testo?
Il **testo** non **cambia** solo agli occhi dei posteri a distanza di anni, ma **anche nelle mani dell’autore** * caso limite: **TASSO**, volontà dell’autore IGNOTA, la Gerusalemme Liberata viene letta, ma la sua volontà è nella Gerusalemme Conquistata (non più un’opera solo bella, ma utile all’ortodossia religiosa) * caso limite: **UNGARETTI**, prima raccolta di poesie pubblicata dal suo tenente
43
la poesia per Leopardi e per Pascoli:
**Leopardi** trova il suo metro ideale (**endecasillabo sciolto**) attraverso le parti recitate/non cantate del **melodramma/opera lirica**. per **Pascoli** > **la nostra poesia è senza oggetto**, cioè le cose descritte non sono concrete (Ex. le donne amate che non vengono neanche mai viste a volte, astratte
44
come si leggono i testimoni:
Per leggere e capire i testimoni bisogna tenere conto di **tantissimi fattori**: **chi** li ha scritti, su che **materiale**, la **commissione** o se sono stati creati spontaneamente. Il testimone diventa l'interfaccia per ricostruire la realtà, motivo per cui si cerca di sapere il più possibile su di esso.
45
il Trivulziano 1080:
Abbiamo il **Trivulziano 1080** della Commedia fatta nel **1337**, a **pochi anni dalla morte di Dante**; il copista è un toscano di nome **Francesco di ser Nardo**, che conosceva bene il testo di Dante e che produce per un intenditore ricco (lo vediamo dal fatto che il manoscritto è riccamente miniato). Molte informazioni della vita del manoscritto le trovi sul piatto della rilegatura, all’interno della copertina. Il fatto che sia un codice Trivulziano significa che facesse parte del **fondo di Trivulzio**, che lo catalogò come 2; sotto c’è un **cartiglio**, un pezzo di carta incollata con il segno della proprietà della biblioteca di Trivulzio e lo scaffale in cui si trovava; sotto ancora c’è l’**ex libris**, ovvero un timbrino, un’etichetta che una persona mette nella sua raccolta di libri. Dalla prima pagina vedi l’usura delle varie letture, la **scrittura calligrafica di un copista professionale**, le **miniature** e una **gerarchia nella scrittura** (vedi parti con un inchiostro diverso, in questo caso rosso; vedi delle **iniziali abitate**, ovvero con personaggi disegnati dentro, altre decorate, altre fatte per richiamare l’attenzione del lettore; sono tutte parti fatte da specialisti diversi). Fiorenza è scritto Fiorença, con la c con una cediglia; quel segno simile al **7** indica una congiunzione et, che noi abbiamo accessibile tramite il simbolo **&**, che sembra esser stato inventato dal liberto di Cicerone, Tirone. La carta **5r** vede dei **ghirigori**, delle **filature rosse** che ricordano la filigrana dei gioielli, motivo per cui si chiama iniziale filigranata, che solitamente è alternata tra i colori rosso e blu per rendere diversi i vari canti, **facendo anche risaltare col blu la lettera nella filigrana rossa e la lettera rossa nella filigrana blu**. Vedi l’evoluzione della scrittura che chiamiamo **gotica**, ovvero la diplomatica, che è usata soprattutto nelle cancellerie di un’istituzione, motivo per cui è chiamata anche **cancelleresca**.
46
sistema di scrittura di un manoscritto dell'antichità: il caso del Trivulziano 1080:
se lo avessimo vicino, noteremmo che il manoscritto ne ha uno diverso dal nostro, che mancano cose per noi indispensabili per leggere e che ci sono cose che non capiamo. Per capire questo sistema, necessitiamo di coordinate; infatti, se noi guardiamo il sistema di questo manoscritto, **non viene usato sempre lo stesso tipo di carattere e la stessa grandezza**. Tutti i meccanismi di Word che ti fanno l’interlinea automaticamente, che ti scrivono tutto in un solo tipo di carattere, una sola grandezza e così via, servono a rendere leggibile il testo secondo determinate caratteristiche per noi fondamentali, come il distinguere le lettere l’una dall’altra (anche se il nostro cervello ci permette di controbilanciare con diversi meccanismi, come il capire una parola già dalle prime lettere, che è una sintesi dei segni scritti fatta in collaborazione con gli occhi). Una volta, però, questi sistemi erano diversi dai nostri, tanto diversi da, nell’evoluzione dello scritto, rendere diversi gli alfabeti greco e cirillico. I caratteri sono tutti in una gerarchia di esposizione: c’è un pezzo di testo fatto da lettere molto grandi, con le più grandi che sono quelle a capo o quelle ad inizio. Inizia con una partizione anche a colori, una rubrica, solitamente è scritta in rosso. Nel caso del Trivulziano, la **rubrica**, che è contrastiva alle parti in inchiostro nero, **ha una parte di cui non conosciamo l’autore, che poteva essere lo stesso copista o magari le persone che facevano girare e commentare il testo** (il commento è un atto subito successivo alla lettura; **un testo letto che viene commentato è la più grande dimostrazione della fama di Dante già tra i suoi contemporanei**, non era un’epoca morta per la poesia e lui non era solo un poeta). Ci sono **parole che sono attaccate tra di loro per diversi motivi** (uno dei quali l’economia della scrittura); inoltre, già a trat/ta lui va a capo, in quanto era prosa, senza il segnettino. Guarda anche punimenti, è uno dei vari testimoni del fatto che parlavano un’altra lingua. Vicii mostra l’uso di una v al posto della u che si usava solitamente; inoltre, nota la c al posto della z; infine, guarda virtu e la sua mancanza di accento. Questo sistema non è coerente neanche con se stesso, e questo è perché solo posteriormente ne abbiamo creato uno per evitare fraintendimenti. Prima di Comincia mettono una sorta di C, che serve a segnalare al lettore un nuovo punto su cui concentrarsi. **pte** è un’abbreviazione per **parte** utile a scrivere più velocemente (la carta accoglieva difficilmente l’inchiostro ai tempi e la penna, perché la scrittura fosse scorrevole, necessitava una determinata presa e inclinazione, che rendeva il tutto più scomodo e più preciso, quindi più costoso di tempo). **Per mostrare che è un’abbreviazione, disegnano una linea sulla stanghetta della p in modo da indicare er o ar**, una scelta convenzionale che tutte le persone di quell’epoca sicuramente capivano. lop anche ha questo tratto (lop-er-) accompagnato da una a sopra, che indica la a (lop-er-a). La Commedia inizia con una scena animata dentro la grande **N** di nel mezzo, che è tracciata in colori diversi con pallini. I colori sono sempre il rosso e il blu, ma c’è anche con l’oro, che mostra la ricchezza del committente (era tanto prezioso, che certe persone grattavano via la polvere dai manoscritti o per riutilizzarla o per fonderla). Tra il X e il XII secolo, il **rosso** e il **blu** erano i **colori tipici dei manoscritti italiani**, mentre, solitamente, quelli in **verde** e **rosso** erano quelli tipici **francesi**. Mezzo è diviso a metà ed è scritto con le ç. La **s al contrario** e la **croce fatta con quattro puntini** non servono a nulla per noi, ma forse questo fatto (apparentemente solo) **estetico** significa che il testo era già così tanto nella testa della gente, che tutti c’erano già abituati. Il fatto che siano maiuscole, inoltre, sembra richiamare le scritture di apparato, le scritte nel marmo, quasi come se facessero da cornice per la lettera miniata. La i e la i lunga sono la stessa lettera, con quest’ultima che non serve ad altro che a far notare al lettore che vicii ha due i. Il testo è scritto su due **colonne parallele**, che ha senso se pensiamo al formato: sono libri grandi, solitamente. In realtà, però, la grandezza era decisa anche dall’animale da cui si traeva la pelle per la pergamena (ricorda sempre che una pecora ti dà solo due fogli, mentre una mucca te ne dà un po’ di più). I libri letterari solitamente erano spostabili, quelli più grandi superano di poco i 40 centimetri di costola. Il modello del libro cambia ovviamente a seconda del suo scopo: i manoscritti giuridici, per esempio, avevano due colonne di testo in latino (con immagini per agevolare la leggibilità di un muro di testo) e una cornice di commento con, certe volte, anche canaletti per il commento stesso dello studente. Nel Trecento all’università si studiavano con commenti solo i classici, mentre solo dalla fine del Trecento si includeranno anche Dante, Petrarca e Boccaccio. Il testo su due colonne, inoltre, aiuta ad economizzare il materiale scrittorio, poiché il tutto ancora più bello. La **filigrana della carta 5r** ha una lavorazione a filo a **colori contrastanti per allietare l’occhio del lettore**. **La fine di un canto e l’inizio di un altro è segnalato da una rubrica e dall’iniziale del nuovo canto, che è più piccola delle lettere miniate, ma che è più grande di quelle a inizio terzina**, da cui si differenzia anche per il colore. Perché il copista scrive et? Perché in tutta la loro vita professionale, che iniziano già dai quattordici anni, i copisti scrivono talmente tanto in latino, da scriverlo automaticamente. Anche in Luxuria abbiamo una scrittura latineggiante, che può essere o mimetica del latino o un altro punto dato dal sistema incerto. Ritorniamo sempre al manoscritto a pagina 53, la carta 5r del Trivulziano. Ci sono edizioni diplomatiche in cui la maiuscola dentro filigrana viene estesa anche alle righe dopo. **Perché la O è maiuscola in cosi? Perché, evidentemente, ci stavano lavorando più copisti, che quindi significa che prima il copista ha messo la O maiuscola per indicare che il miniatore dovesse disegnare la miniata prima di quella**, e poi ha scritto la lettera in piccolo nello spazio dedicato alla miniata per dire che lettera dovesse esser scritta, che poi il miniatore coprì con la lettera miniata. La scrittura che vedi è una **cancelleresca**, che era un possesso quasi naturale per chi scriveva, poiché rendeva più veloce e facile la scrittura sia per l’ambito cancelleresco sia per l’ambito letterario; è, inoltre, strettamente legata alla gotica, come si nota dalla caratteristica dell’appoggio di certe lettere su quelle precedenti. Tipico di questa scrittura è anche l’introduzione di **svolazzi in certe lettere**, come la h in cerchio, che danno un senso di ordine e ritmo alla pagina. Non sono però da confondere con i tratti abbreviativi. A seguito di cerchio c’è una p lunga con una i sopra ad indicare pri; la lettera, che trovi nella trascrizione di Bausi a pagina 52, in realtà vuol dire pro, ma serviva a Bausi per chi sa qual motivo (magari la tipografia o la sua tastiera non accettava il segno). La s alta si prolunga oltre la linea di scrittura. La scrittura maiuscola è tale perché può stare tra due linee parallele, mentre la scrittura minuscola sta in mezzo a quattro: una dove si appoggia la pancia, una sopra la pancia, una sotto la stanghetta delle lettere lunghe e una sopra le stanghette delle lettere alte. Cinghia è scritto con una i lunga al posto di in. Con dolor, nella terza riga, la r, poiché segue la o, è fatta con un pancino e una linea bassa. La terzina finisce col punto, che indica sempre la fine di una terzina. In alcuni casi si segna il cambio di carta o di retto-verso indicandolo tra parentesi quadre; nel caso di distinzione tra le due colonne, si aggiungono anche A e B. Nota, all’inizio della seconda colonna, stavvi, che ti ricorda la legge Tobler–Mustaffia (legge prosodica delle lingue d’oil che detta di non far iniziare mai la frase con particelle enclitiche come ci, vi, mi, ecc.). Ci scrive un nome con la maiuscola: non è automatico. Siccome l’endecasillabo è nato dall’unione di due versi, l’accento deve cadere in uno o in un altro posto: se inizia con un quinario, deve cadere sulla quarta sillaba, poiché è l’ultima (a maiore); se inizia con un settenario deve cadere su una sesta (a minore). Questo lo dobbiamo sapere perché è come Dante stabilisce che Minos debba esser letto tronco (quindi Minòs), in quanto sta su quarta in un quinario. In stauui Minos orribilmente ringhia manca un segno diacritico, che è una e o una ‘e a seconda dell’edizione critica. I casi come examina ti ricordano che c’è chi lo trascrive esamina, chi essamina e chi ecsamina, ma siamo in un’edizione diplomatica, quindi noi scegliamo examina. Dopo examina vedi un leggerissimo /, che non serve ad altro che a separare parole. Nota i clitici attaccati alle parole non separati da un apostrofo, come in lecolpe. Nella mis-en-page del manoscritto ci sono dei segni che guidano la mano del copista, come delle righe orizzontali per indicare dove scrivere in orizzontale e delle righe verticali, che chiudono ed incasellano le iniziali di ogni terzina. Bausi, nella sua trascrizione, non ha rispettato l’incongruente L in Lanima. Tucta ti fa capire che ci sono scritte pseudo-etimologiche latine, poiché sembrano latine ai medievali e anche ai moderni come Guicciardini. La filologia moderna, generalmente, nei casi di assenza di autografo, cerca di ricreare le parole similmente a come l’autore l’avrebbe pronunciata, ma è possibile farlo solo quando e se conosciamo moltissimi dettagli, e non, della vita del determinato autore. Capita anche che tanti autografi di un autore rendano queste questioni plurivoche, come il Macchiavelli delle lettere ai suoi amici e il Machiavelli diplomatico, in cui compaiono un sacco di volte diverse grafie di diverse parole, che ci fa capire che a Machiavelli stesso non interessassero questi dettagli.
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l'edizione diplomatica:
Di fronte ad un manoscritto venerabile per tutti i motivi che gli danno prestigio, i modi che abbiamo per dare letture più facili sono diversi: uno è l’**edizione diplomatica**. La parola greca **diploma** vuol dire **foglio piegato in due** ed è un termine attestato per la prima volta nel lessico dei militari, che venivano congedati con un diploma. Da questo atto deriva l’idea che un diploma sia un documento solenne, per cui lo usarono come congedo ance in altri ambienti. Ciò che lo rende un documento con un carattere di solennità è che viene prodotto da un’autorità, che lo rende ufficiale: infatti, la disciplina della diplomazia gira proprio attorno all’atto di pubblicare documenti con assoluto rispetto per la forma, in quanto hanno un’enorme importanza storica. Questo significa che **un’edizione diplomatica è tale se fatta con molta attenzione e precisione per il dettato del documento, che deve rispettalo il più possibile** (ha una gradazione, che va dall’edizione che rispetta tutto nel documento all’edizione critica, che introduce congetture, lezioni di altri documenti, interpretazioni dei segni grafi, ecc.). Quest’edizione non dev’essere una foto, ma deve rendere il testo leggibile mantenendo tutte le sue peculiarità.
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i gradi di incisione sul testo:
Siamo sul problema della pubblicazione di un testo a partire dalla scelta dei testimoni. Abbiamo preso uno dei testimoni di Dante più antichi, il Trivulziano, che rispecchia come venisse letta la Commedia nel 1337. Non è detto che la sola antichità di un testimone garantisca la sua autorevolezza, ma ha sicuramente pochi errori rispetto ad altri successivi. A partire dal Trivulziano 1080 abbiamo capito come leggere un testimone per riuscire a capire come rendere un testo con le convenzioni di quei tempi leggibile secondo le convenzioni del nostro tempo. Noi dobbiamo scoprire gli usi linguistici di Dante, non dei suoi tempi; quindi, dobbiamo necessariamente ricostruirlo partendo dai documenti concreti che possediamo. Facciamo finta di avere solo il Trivulziano come unico testimone: avremmo rispetto ed interesse infinito verso esso, in quanto è l’unico. Noi possiamo aggredire il testimone in vari modi, ma qualunque sia il metodo di rappresentazione, abbiamo dei gradi di incisione sul testo: * Grado 1: l’**edizione diplomatica** (abbiamo visto che ci vuole arbitrarietà per ricostruire o capire il sistema della loro scrittura), una restituzione del testo in un sistema che assomigli abbastanza a quello del testimone (il voler copiare le iniziali in filigrana così che prendano tre righe ha molto senso, quando consideri proprio il loro utilizzo, come quello dell’Hamilton 90 di Boccaccio), e deve essere il più uguale possibile; * Grado 2: sostituiamo al sistema di scrittura antico il nostro mettendoci *la nostra punteggiatura*, cercando comunque di tenere le sue particolarità più importanti: questa è l’edizione **diplomatico-interpretativa**, la quale presenta tramite parentesi i punti d’attenzione per il lettore, ovvero i segni diacritici (7 viene reso et da Bausi anziché e perché, leggendo tutto il Trivulziano 1080, si trovano statisticamente più et che e o perché si cerca di capire gli usi scrittori dell’autore, in caso il segno non sia mai stato mostrato esplicitamente in tutto il manoscritto) o le lettere non scritte (Bausi, per errori di stampa da parte di Il Mulino o per scelte sue strane, si dimentica certi accenti fondamentali a p.54, come in piu e in Minos; la ç è da capire se mostrasse differenza fonetica in dinanzi e dinançi, che puoi comprendere solo guardando i trattati di grammatica, se ci sono) o anche le introduzioni di nessi latineggianti in parole che, in latino, non lo hanno (quindi latinismi falsi); * Grado 3: l’**edizione interpretativa**, che vede un et che, in nota introduttiva, dovrebbe esser specificato essere bivalente, in quanto dovrebbe essere pronunciato automaticamente e se volgare; qui non abbiamo un problema unico a Dante, al copista, al Trecento o a Petrarca, ma è una particolarità di chi era perfettamente bilingue, di gente che pensava e scriveva più naturalmente in latino che in volgare, tanto abituata a considerare il latino la prima lingua; è un’edizione con una spruzzatina di diplomatico, ma va verso la leggibilità, il sistema paragrafematico moderno, anche se siamo lontani da quella critica; * Grado 4: l’**edizione critica**, il “*compito del filologo*”.
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l'apparato critico:
L’apparato critico è la parte tipica dell’edizione critica, tale da essere presente il tutto il testo. A cosa serve? Serve a dare conto punto per punto del testo nella sua tradizione; spiega come capire il testo man mano che lo stiamo leggendo, **quali sono le differenze tra i testimoni del testo**; accompagna, dunque, il lettore nel testo passo per passo e parola per parola, perché con scopo speculativo perché ogni edizione critica è un’ipotesi di lavoro, chiunque sia la persona o il gruppo che l’ha fatta. Se poi accadono nuove cose per cui il testo non è più giusto, si rifà. L’apparato critico, proprio per il fatto che dà conto punto per punto della tradizione del testo, fa capire quali sono i dati che la tradizione ci mette in mano. Serve a chi viene dopo di me e al lettore a fare scelte diverse dalle mie. Il lettore, chiunque esso sia, deve esser messo in condizione di adottare criteri diversi per la propria edizione. **L’apparato critico ha una sua collocazione all’interno di pagina, poiché accompagna il testo pagina dopo pagina**, e il criterio per notarlo, semplicissimo, è vedere se il libro possiede una parte di testo oltre il testo dell’opera che si critica. Questo apparato critico è disponibile in tanti modelli, può avere tanti optional. **Diversamente dall’introduzione, che è scritta nel modo più semplice possibile perché il lettore comprenda e non abbia fraintendimenti, l’apparato critico deve essere il più formalizzato possibile; quindi, si usano sigle, abbreviazioni e tecnicismi**. Bausi fa l’esempio di un’edizione critica di **Matteo Frescobaldi** (poeta trecentesco). Le prime due righe contengono l’elenco dei testimoni del testo, che devono essere indicati da delle sigle. **FN5** è la sigla del testimone. In che ordine mette i testimoni? Lo vediamo dopo, forse. Questa è una sigla che qualcun altro ha usato, una **convenzione** rigidissima per cui una sigla non si cambia, se già esiste, poiché è già conosciuta. La filologia italiana è meno tradizionalista, perché qualcuno usa gli stessi manoscritti di un precedente, ma cambia le sigle, nonostante le indichi sempre in un indice. “**c**.” è l’abbreviazione più usata, in quanto ordina le carte, che i libri antichi erano soliti indicare e numerare al posto delle pagine; inoltre, sono accompagnate da “v” se verso, “r” se recto. **La carta è numerata sempre dalla pagina destra, che, se trovi a destra, è recto, se è a sinistra, è verso**. Ora, ci sono volte in cui trovi “**r-v**”: questo significa che il testo è scritto sia su verso che su retto, magari indicando che è stata interrotto per poi venir continuato in un’altra pagina: in quest’ultimo caso, indichi la pluralità delle carte con “cc.” anziché “c.”. Quando abbiamo a che fare con l’edizione critica, questi sono i casi che la rendono difficile da leggere: l’apparato non contiene soltanto la crosta del tempo, il deposito di modifiche al testo, ma c’è **in certi casi un apparato che indica tutte le correzioni d’autore, portando a una pluralità di apparati, con l’apparato d’autore che avrà tutte le correzioni dell’autore e l’apparato dei copisti, che riporterà tutte le modifiche dei copisti e le correzioni dei copisti su un manoscritto autografo**. Ci sono casi in cui, per la Liberata, gli editori hanno cercato di capire quali fossero i manoscritti dei copisti che hanno copiato da un autografo scomparso. Quando parliamo di un edizione, dobbiamo subito chiarire se l’apparato è positivo o negativo, se ha una redazione (che è sempre fatta dall’autore; quando ne hai una, l’editore mette nel testo il testo giusto, mentre nell’apparato le cose sbagliate, e parliamo di tradizione di copia nell’apparato) o se ha varie redazioni d’autore (vedi Manzoni e Ariosto, di cui abbiamo le multiple edizioni), e se sono presenti entrambe le fasce d’autore e dei copisti, o solo una delle due. **Quando si va a fare un’edizione critica, si prende l’ultima, che era quella che evidentemente andata meglio**, per poi mettere nell’apparato non le innovazioni delle copie o delle stampe, ma delle precedenti redazioni, che quindi presenta non errori, ma varianti d’autore.
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la canzone di Frescobaldi:
Questa canzone di Frescobaldi (p.61 del manuale) ha quattro **testimoni**, che **noi indichiamo tutti**, anche se abbiamo capito che certi non servono a nulla. **Non dev’essere ripetuto per ogni testo, posso scriverlo anche una volta e per tutte nelle prime o nelle ultime pagine**, però, in questi casi in cui si parla di **versi** e non di interi manoscritti, noi tendiamo a scriverli **per ogni testo**. La riga dopo riporta ms. base: **FN5**, che indica il manoscritto (ms.) su cui mi baso. **In tutta la mia ricerca sui manoscritti ne scelgo uno con cui confrontarmi per valutare gli altri**; sarà per questo che lo mette all’inizio dell’elenco dei testimoni? Lascio una riga bianca dal testo, cosicché si capisca dove inizia il testo. La prima riga riporta Canzone di Matteo di Dino Frescobaldi parlando di Fiorenza, che potrebbe essere un titolo. Per noi è naturale pensare che il titolo sia fatto dall’autore, ma non sempre gli autori stessi intitolavano i loro versi. Questo titolo presenta solo l’autore e il padre, non proprio un titolo all’opera. Si diminuisce il carattere e vediamo il testo, ma passiamo al commento. Inizia con una R in italico. Ci sono cose scritte in tondo e cose in italico. Quello che vedi in **tondo** è **presente nei testimoni**, quello in **italico** è **scritto dall’editore**. Se non funziona (se è incoerente in altre parti dell’apparato), è perché c’è un errore di stampa. **R**. è la **rubrica**, corrisponde alla prima riga di testo della rubrica, che puoi considerare il titolo ( = in antichi codici e manoscritti titolo o nota esplicativa a paragrafi o canti redatta da amanuensi nel caratteristico inchiostro rosso.) Tutte le note scritte nell’apparato critico sono precedute da un numero: quando finisce tutto il pezzo introdotto da R., iniziano le **note introdotte da numeri arabi**, che indicano che prima, con R., hai visto una parte esterna e precedente al testo, e che dopo, con i numeri, leggerai le parti del testo che interessano all’apparato. L’apparato riporta in tondo la trascrizione diplomatica delle forme che la tradizione stessa mi dà per far capire al lettore com’è il testimone. **Sopra al testo trovi la scelta fatta dall’editore e sotto trovi un’ attribuzione diversa di un altro manoscritto, che attribuisce i versi a Boccaccio**. Serve a chi verrà dopo, che magari vorrebbe basarsi sul manoscritto RN, però non può consultarlo per vari mani. Dopo RN, separa, sempre relativa alla rubrica, quello che è scritto in Mar., a cui aggiunge om., che sta per omittit. Cosa non c’è nell’apparato? Sappiamo che riguarda quattro testimoni, di cui ci dice esplicitamente che uno ha la rubrica e uno no; quindi, quello che è riportato nel testo scelto è anche nei testimoni FN e VL. L’apparato positivo ti dice tutto esplicitamente, **l’apparato negativo ti costringe a ragionare su chi abbia e chi non abbia una determinata variante**. Fosse stato positivo, dunque, avrebbe anche riportato quello che noi abbiamo dedotto. * 1 indica il verso di riferimento: vediamo che iddio è in tutti i manoscritti eccetto VL, che presenta Dio. È un altro esempio che questo sia un apparato negativo. Nella rubrica abbiamo visto una concordanza tra FN e VL, ma con questo capiamo che questi testimoni, nonostante l’iniziale somiglianza, non sono uguali. C’è da dire un’altra cosa, che non significa nulla se due testimoni presentano due varianti diverse della stessa parola; eppure, lo devi riportare, nonostante non sia tanto fondamentale come la rubrica. Solitamente gli apparati negativi si fanno quando hai tradizioni molto semplici. * Verso 2. RN mostra bene al posto di ben, rendendo il metro ipermetro, da endecasillabo a un ingiustificato dodecasillabo. Questo errore di attenzione, siccome i manoscritti con cui abbiamo a che fare sono copie e verranno copiati, può entrare in quattro situazioni: prima, il copista lo copia senza porsi problemi; seconda, il copista sa che non è di Boccaccio e non lo copia; terza, magari non gliene ne frega alcunché e non lo copia; quarta, sbaglia ad attribuirlo e corregge la rubrica. Ci sono errori ed errori: questo bene è uno correggibile, ma quello della rubrica no. * Verso 3. Preccura al posto di procura sempre nel ms. RN. È un errore di distrazione o era scritto male il manoscritto da cui ha copiato? O aveva fretta nel ricopiarlo? Può anche accadere che un amanuense legga preccura, ma che lo corregga sapendo che non esiste come parola. * Verso 4. Veloce è chiusa da una parentesi quadra, per riportare che la situazione è ambigua, poiché **non è facile capire se sia meglio veloce rispetto a feroce, che non si sa perché il copista l’abbia scritto**. Stessa cosa per rrea ed etria. Veloce compare in tre testimoni; dunque, potrebbe essere che è la versione più sbagliata. Etria è com’è presente nel manoscritto RN, e rrea, scritto prima delle parentesi, è scelto per l’apparato critico. L’edizione scartata viene comunque riportata diplomaticamente. L’apparato non è solo un pezzo di testo scritto in più piccolo che ci aiuta a leggere, ma è anche un dialogante col testo: sono in rapporto l’uno con l’altro, non sono scindibili (a meno che tu non lo conosci a memoria). Questo dialogo tra i due vede il testo che rimanda all’apparato e l’apparato che rimanda al testo, soprattutto perché la sinossi continua dell’apparato sul testo, consente al lettore di rifare una nuova edizione con scelte diverse da quelle dell’edizione che legge. Proprio perché esiste questo continuo dialogo, devi tenere a mente che la tradizione dei testi non è fatta in un solo modo, non è una cosa scientifica, ma data dalla casualità storica. La grande divisione vede una bipartizione tra testi che hanno la tradizione dovuta all’autore, in parte o in tutto, e testi che non hanno a che fare con l’autore. Stiamo parlando del rapporto tra autografi, idiografi e testi copiati.
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l'Ubrinate Latino 366:
È un manoscritto fatto a Bologna da uno **studente** tanto **bolognese**, da riportare tutto con le **particolarità del suo volgare**. È un manoscritto di **decorazioni bolognesi**, come puoi vedere dal tipo e dai colori, anche se questi tipi di osservazioni non sono necessariamente giuste: infatti, per esempio, potrebbe esser state fatte da un miniatore bolognese nelle Fiandre. **Dante muore a Ravenna e la sua roba, forse, viene copiata da bolognesi proprio per la vicinanza**. Il problema del manoscritto non sono tanto gli errori, che sono pochi, ma più le varianti di diasistema bolognesi. È stato, nonostante ciò, considerato uno dei più affidabili. La sua **rubrica è illeggibile**. Nel 2001, l’edizione del **Sanguineti**, riportata da Bausi, vedeva innanzitutto, per riprendere quello scritto prima, l’**assenza dell’elenco dei manoscritti sopra ogni singolo canto, poiché, essendo un testo continuo di più canti, ogni manoscritto lo riporta completo; quindi, lo presenta nella sezione iniziale**. L’urbinate latino è un manoscritto del fondo appartenuto ai duchi di Urbino scritto in alfabeto latino (solitamente sono scritti molto bene, perché Federico da Montefeltro amava i manoscritti belli). Sanguineti non ha tenuto meggio, però non corregge neanche la grafia di smarita. L’apparato, qui, è ancora più ellittico/omissivo: non mette nell’apparato tutta la rubrica, ma riporta il **leggibile**. Quali sono i problemi? Mette stranamente Capitulum, poi il manoscritto U e poi la particolarità del manoscritto U, tutto in un modo strano. Prima abbiamo visto un editore che metteva tutte le sigle in tondo, ora vediamo, invece, **sigle** (anche se non costantemente) in **italico**; inoltre, nota la differenza tra le lettere minuscole, maiuscole (testimoni esistenti e reali, ovunque essi siano) e greche (manoscritti che non esistono più, che ricostruiamo): lui non usa il sistema dell’apparato bene, in quanto usa le minuscole al posto delle lettere greche. Altro problema è che non mostra ogni singola scelta che fa, omette cose, come si può vedere proprio nel caso di meggio. Ci riporta che lui sceglie oscura al posto di scura insieme ai testimoni in cui si trova.
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la filologia dell'autore:
Quando conosciamo di un testo il **percorso elaborativo del testo mentre era ancora nelle mani dell’autore**, parliamo di **filologia dell’autore**. Dentro questo territorio, le forme possono essere diversissime in base alle varie fasi dell’opera, che possiamo avere attestate in toto, in parte o anche non attestate. Accade anche che ci siano delle carte d’autore scarabocchiate che, però, magari erano solo degli interventi editoriali su un manoscritto d’autore; un altro caso, anche complicato, è il Tasso, in quanto possediamo un manoscritto che era collaborazione tra Tasso e un suo amico, come si può vedere dalle due scritture diverse, con uno che scriveva e l’altro che correggeva, senza che noi sappiamo quale sia Tasso (si è pensato che la mano che scriveva era quella di Tasso, però dovrebbe essere il contrario; non c’è alcun dubbio che i testi siano autografi, ma non sappiamo quale sia la direzione cronologica degli interventi); Ariosto mette due o tre correzioni, ma tutte fatte in modo diverso, che non capiamo in che ordine siano state fatte. **Ci sono casi in cui l’autore corregge qualche parola o lo riscrive tutto (vedi l’edizione quarantina dei Promessi Sposi).** La possibilità dei casi è massima.
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stanza di Poliziano:
Il manuale presenta una delle stanze del Poliziano. Anche se i manuali presentano sempre un metodo fermo, non si deve pensare che ce ne sia uno solo: per esempio, Bausi mette le edizioni in corsivo e le riporta le edizioni diversamente da quella analizzata scorsa volta, infatti vedi un apparato positivo in cui scrive, nel verso d’interesse, la parola che lui ha scelto, per poi indicare il testo da cui l’ha preso, poi chiude con una ] e scrive amorosa in tutte le altre edizioni precedenti (cett indica cetera e edd indica le edizioni precedenti). Nel verso 7 la differenza tra la nota d’autore e la tradizione dei copisti è poco importante, in quanto è facilmente correggibile, mentre la differenza tra amorosa e famosa sembra proprio indicare un cambio di volontà d’autore. Un’edizione critica ha un apparato complicatissimo, per cui si deve sempre prestare attenzione ad ogni singola scelta tipografica che, se risulta un errore da parte dell’editore, complica tutto e fa crollare il castello di carte.
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l'archetipo:
L’edizione critica, oltre ad essere un oggetto a cui dobbiamo avvicinarsi con cautela, è un oggetto che dobbiamo conoscere nelle sue fasi di creazione: da una parte abbiamo la filologia dell’autore, dove l’autore c’è; dall’altra quella della copia, dove non c’è l’autore. Noi dobbiamo capire, secondo la disponibilità dei documenti che abbiamo, il testo il più possibilmente vicino a quello dell’autore. Possiamo avere anche una compresenza di materiali d’autore con materiali di copisti poiché sono stati mascherati dal copista. Se parliamo di filologia non d’autore, quindi di quella filologia di testimoni non da ricondurre all’autore, dobbiamo capire com’è stato fatto quell’oggetto non identificato che è il testo. Come capiamo cosa è del testo originale e cosa non? Parliamo di **archetipo**, che è un concetto molto facile da mettersi in bocca: dal greco, arché origine, tipos modello, il capostipite della tradizione, l’inizio, **il primo modello di tradizione da cui discendono tutti i modelli che possediamo, un documento di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto**. Il concetto di archetipo nasce all’interno della filologia classica poiché c’è stato un momento in cui la filologia classica dovette riconoscere la frattura tra il mondo romano e il mondo medievale, la frattura causata dalla perdita, dalla battuta d’arresto della cultura, che diventa una cosa dei pochi, che erano interessati a tutt’altro da ciò che interessava a chi li precedeva; insomma, c’era la Chiesa a tenere il monopolio della cultura. Ovvio, non necessariamente è successo così estremamente, anche perché c’è sempre, come c’era allora, il problema dell’interpretazione, che può rendere un qualcosa di profano sacro; inoltre, è una generalizzazione perché la stessa Chiesa usava il lessico delle erotika. Parliamo però di tradizioni: quando queste culture barbariche che sancirono la fine del periodo romano cercarono di rendersi colti di queste tradizioni, v’erano comunque pochi testi prodotti; il tutto fino a Carlo Magno, che si pose il problema del governo, che necessitava dei funzionari, che dovevano essere colti, e che quindi dovevano provenire da una scuola: si recuperano così testi tramite la copia di tutti i testi che potevano trovare, anche degli autori non voluti dalla Chiesa. Questa ripartenza fa in modo che i pochi testimoni latini vengano copiati in una nuova scrittura, che, poiché rende sempre l’immagine del potere attuale, non era più frammentata; infatti, ci sono stati momenti prima in cui nello stesso monastero la scrittura variasse da abate ad abate, mentre col regno di Carlo Magno nasce la carolingia. Da queste situazioni nascono gli archetipi, ovvero il **modello di tutte le copie venute dopo**. Quando cerchiamo nei manuali la definizione di archetipo, ci sembra facile, in quanto ci dice che è un modello iniziale della tradizione che non possediamo. Da lì dobbiamo postulare l’esistenza vedendo la tradizione di quell’autore e, a seconda degli errori comuni, stiliamo uno stemma codicum. Ne basta uno, ma da trovare in tutti, nessuno escluso. Posso postulare l’esistenza dell’archetipo solo se trovo un errore comune in tutta la tradizione conservata. Ma solo nel campo della filologia classica. Nella filologia italiana è difficile definire un archetipo in questo modo: infatti, usiamo un concetto più ammorbidito, ovvero che un archetipo **lo troviamo nella tradizione quando ricostruisce l’ipotetica conformazione dell’originale perduto**. Facciamo presto a parlare di errore, ma questi devono essere tosti, tali da non essere integrati da nessuno: stiamo parlando di lacune, che, se troviamo in ogni testo, rende i passaggi tra frasi incomprensibili. Ci sono tanti motivi per non cercare un archetipo in filologia italiana, uno dei quali è quello che è possibile che non riusciamo a capire il testo anche se ce l’abbiamo davanti. L’archetipo è dunque una versione del testo, ricostruita dall’editore, in cui convergono tutti i testimoni superstiti. L’archetipo non è una “prima copia” del testo originale, ma un testo virtuale che contiene errori comuni a tutti i manoscritti (e, per definizione, almeno uno, perché non è un originale). In uno stemma, il vertice di ciascun gruppo è chiamato subarchetipo, e l’intera tradizione deve essere riconducibile a un’entità posta in cima all’albero genealogico, chiamata archetipo.
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la diversità fra testimoni: 'emendatio ope codicum' e 'emendatio ope ingenii':
Il problema della filologia della copia è che, una volta fatto il censimento di tutti i testimoni, ci rendiamo conto che non tutte le copie sono uguali: più la tradizione conservata è grande, più differenza notiamo tra un testimone e l’altro. I motivi per cui esistono queste differenze sono diversi, come detto ad inizio del corso, e noi dobbiamo cercare di ricostruire tutto. Abbiamo strumenti che ci aiutino? No, solo la nostra immaginazione. Quando abbiamo un unico testimone, cerchiamo di vedere quali sono i suoi errori e se possiamo emendarli, sennò lo lasciamo intatto; non è possibile farlo con plurimi testimoni. Il tutto dev’essere affidato alla mancanza di pregiudizio verso le ricostruzioni fatte dagli altri, verso l’antichità dei testimoni (la statistica rende il caso quasi sempre vero, ma non sappiamo se sia sempre così), verso le testimonianze dirette sulle indirette. Una volta fatto il censimento, notiamo le differenze tra ogni testo, differenze che non sappiamo a cosa sono dovute. **Se il testo ci dà diverse idee di soluzioni, si deve scegliere quale di queste sia la migliore** o se le soluzioni non sono abbastanza giuste da poterle accettare. In passato, quando il segno del testo era oscuro, nei posti oscuri si corregge: da qui nascono i termini del lessico del filologo, principalmente in latino, come **emendatio ope codicum**, che è un errore che correggiamo con l’aiuto di altri codici, e come **emendatio ope ingenii**, ovvero una correzione al testo della tradizione senza ricorrere alla tradizione, ma solo alla mia capacità di interpretare il testo.
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l'edizione ricostruttiva di Lachmann:
Fino a che arriviamo a un momento in cui, a cominciare dal Settecento fino alla metà dell’Ottocento, i tedeschi soprattutto iniziano a ragionare in modo diverso: cominciano a mettere in ordine, a darsi un metodo, che però non esiste codificato, teorizzato in nessun manuale. Sta di fatto, però, che loro fanno tanti testi su testi antichi e su testi religiosi (soprattutto del Nuovo Testamento, che era in greco) e da quelli si nota il loro metodo. Il filologo che conosciamo di più è **Karl Lachmann**, che usò un metodo che usiamo tutti, ma che non scrisse mai; infatti, lo abbiamo dovuto ricavare dai suoi scritti, soprattutto teorici. Il suo metodo è usato per fare un’**edizione ricostruttiva**, ovvero un’edizione che punta a come si sia costruita la tradizione del testo. Lui lo fece per il Nuovo Testamento e per i testi di Lucrezio. Ci ha lasciato una serie di formule, termini con cui oggi facciamo i conti, tra cui tutte le frasi e i termini latini (descriptus, recensio, collatio), ma non ci ha lasciato quello che noi ripeschiamo di più dal suo metodo, ovvero come ci dobbiamo muovere dopo la raccolta dei testimoni: lui ci dice di fare la **collatio** (da cumfero),** il confronto tra tutti i testimoni partendo da un testimone completo che non presenti cancellature**, fenomeni strani e cose che possano portare ad un processo complicato di ricostruzione; dopo ci dice di fare la **recensio**, la **valutazione** di queste differenze che si notano nella collatio di tutti questi testimoni. Tutto questo confronto è da fare ancora senza pregiudizi, una registrazione puramente meccanica; solo in recensio posso permettermi di aggiungere la mia opinione, in quanto sto scegliendo quali sono quelli più giusti e quelli più sbagliati. Alla fine della recensio dovrei arrivare alla ricostruzione di un paradigma che mi serva a capire la storia dei testimoni, come si sono ricostruiti: devo arrivare a capire la loro genealogia. Ogni testimone passa ai figli gli errori e le cose positive, ma tra questi nascono altri errori più si va in fondo. Lachmann non aveva la più pallida idea di come ricostruire la genealogia dei testimoni, ma è stato Paul Maas a darcelo, che scrive un complicato breve libro, ovvero Textkritik. Parte da come lavorano i paleontologi: questi partono da dei reperti che devono datare dopo averli scavati, poi, a seconda degli strati creatisi nelle epoche e dello strato trovato, cercano fossili di insetti, piante e varie altre cose che sanno essersi formate/essere vissute in un periodo più ristretto, chiamandole dunque fossili guida; così come loro parlano di **fossili guida**, noi possiamo usare gli errori, **Leitfehler**. Si parte da una tradizione, dopo la collatio: poniamo che si tratti di una tradizione di solo tre testimoni, A, B e C, e poniamo di capire che hanno un rapporto genealogico, si fa uno stemma codicum, rappresentazione grafica dei loro rapporti genealogici. Per rappresentare questa realtà, uso lettere dell’alfabeto latino per i testimoni conservati e quelle dell’alfabeto greco minuscole per indicare quelli che non esistono più, non sono conservati, da ricostruire. Nello stemma uso anche dei tratti, dei segmenti, che uniscono un testimone ad un altro: queste indicano parentela simbolicamente. Da alpha derivano A, B e C; quindi, tutti e tre i testimoni derivano da alpha. Non significa, però, che A sia il primo testimone copiato da alpha: tra A ed alpha possono esserci un infinito numero di testimoni non conservati. A, B e C, seppur da un babbo solo, sono diversi; eppure, di sicuro, poiché sono copie di alpha, avranno tutti i suoi errori in comune, ovviamente con errori in più unici. Se le cose non sono così, possiamo avere diverse ricostruzioni: * C, derivato da B, derivato da A, derivato da alpha, ha tutti gli errori dei precedenti sommati ai suoi; * C, derivato da A, derivato da alpha e fratello di B, ha tutti gli errori di A, suoi e di alpha, mentre B ha quelli di alpha e i suoi; * C, derivato da B, derivato da alpha e fratello di A, ha tutti gli errori di B, suoi e di alpha, mentre A ha quelli di alpha e i suoi. 'C' è utile solo se ci testimonia completo il precedente testimone, che per noi è incompleto. I codici che testimoniano altri codici in nostro possesso sono chiamati descripti. Per poter fare uno stemma come il primo, in cui A, B e C sono diversi, dobbiamo avere un errore comune e tre errori, ognuno unico ad un testimone. Nel primo degli altri tre casi sono sempre quattro gli errori, ma sono cumulativi. Nel secondo e terzo degli altri casi necessitiamo sempre quattro errori, ovvero il comune, i distintivi di A e B e quello di C, che lo aggiunge a quello copiato. Lachmann ci parla dell’eliminatio codici decripti. Solitamente, le stampe, se abbiamo il codice originale arrivato alle stampe, vengono cancellate, in quanto copie di un originale. È un processo a cui dobbiamo però prestare attenzione. Lo schema di pagina 88: abbiamo la lettera greca minuscola che dimostra un testimone orginale non posseduto e due lettere greche minuscole che indicano le famiglie, o **subarchetipi**, derivati da omega minuscolo. **Se da alpha nascono A e B, e se riesco a correggere gli errori distintivi di A e B, riesco, idealmente e approssimativamente, a ricostruire alpha**. Ovviamente, **più testimoni fratelli figli di alpha ho, più riesco ad essere preciso nel cancellare gli errori non derivati da alpha**. **Faccio la stessa cosa per beta. Confrontando alpha e beta, con un po’ di fortuna riesco a ricostruire l’archetipo**. Si pone un problema: il numero perfetto non è due, ma almeno tre, poiché vedo solo l’opposizione tra due opposti. Certo, può capitare che tre manoscritti figli dello stesso archetipo siano diversi tra di loro, ma può anche capitare che A e B abbiano gli stessi errori rispetto a C, permettendoci, tramite la maggioranza, di ricostruirlo meglio.
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errori separativi e errori congiuntivi:
Gli **errori guida** possono essere separati in **separativi**, ovvero che dimostrano la non dipendenza diretta tra un testimone e l’altro, e **congiuntivi**, ovvero quelli che dimostrano che un manoscritto sia dipendente da un altro.
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Ludovico Ariosto:
Indicazioni di base su Ludovico Ariosto: vive tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, scrive tante opere ed oggi parliamo dell’Orlando Furioso, che ha un’**edizione** del **1513** (stampata a Ferrara sotto la sua stessa supervisione), **1531** e del **1532**. Durante la sua vita abbiamo questa pubblicazione affiancata a quella di commedie, che però non vennero pubblicate col suo permesso a Firenze. Al di là del Furioso, le Satire e **le parti che avrebbero dovuto confluire inizialmente nel Furioso, ma poi lasciate separate nel 1532 sono state pubblicate in parte, mentre certe parti sono confluite nel pretesto**. Quando muore, diventa un autore di culto, con tutti che cercano di impossessarsi dei suoi autografi, con conseguenza che pochi sono i suoi autografi e le sue carte che abbiamo oggi, tra cui solo un abbozzo di un episodio che concepì esser introdotto nel Furioso, l’episodio dello Scudo della Regina Elisa, che esce nel 1927 in I Frammenti Autografi dell’Orlando Furioso, primo tentativo della filologia d’autore di rappresentare le carte autografe di un autore. Come puoi rappresentare un testo pieno di cancellature e riscritture? **Santorre Debenedetti**, nel 1927, diede un **testo critico** tuttora imprescindibile, la prova è data che un filologo che si occupi di testimoni solo a stampa, Flannery O’Connor, decretò questo testo il miglior testo critico a riguardo. Torniamo sui **Frammenti autografi**. Il tentativo fatto da **Debenedetti** è estremamente rispettoso del testo (il materiale lo puoi trovare su Virtuale), un tentativo che vuole dare l’idea non solo del **procedimento fatto da Ariosto** (quindi del passaggio da letione a letione, da varianti immediate a varianti tardive). Le varianti possono essere effusi, cambiamenti stilistici o anche dei cambiamenti all’indietro del testo o fatti nella stesura del testo, quindi immediati, o fatti dopo la stesura del testo, quindi tardiva; è una differenza che noti da un inchiostro, da un calamo, da un ductus diverso rispetto al testo di fondo, o la variante tardiva viene collocata a margine o nell’interlinea sopra, se tardiva).
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l'episodio di Olimpia:
L’esempio è nel canto 9, dove **Olimpia** chiede aiuto a Orlando per essere liberata da Cimosco, un tiranno che ha prevaricato il suo paese e che ha obbligato a sposarsi col figlio, quando lei era innamorata del duca di Reno. Quest’ottava, che è la 23, utilizza il *corsivo* per la **variante cancellata/immediata**, che vedeva **duca di Pruscia**, cambiato immediatamente con **Ossazia** e poi, a fianco del testo, dei cambiamenti **duca di Selandia**, che indica una **variante tardiva**. Sempre nello stesso verso, nel quale **iva** diventa, immediatamente, in **Biscaglia iva**, che mostra che dei due iva Ariosto abbia cambiato uno poiché non aveva senso. Quando uno scrittore scrive un testo per la prima volta, non presenta uno stato del testo così pulito, ma è invece molto pasticciato; noi in questo caso abbiamo gli episodi di Olimpia, Marganorre e lo scontro di Orlando e Ruggiero, che **confluiscono nell’ultima edizione del Furioso, che ha 46 canti, a differenza delle precedenti due, che ne avevano 40**. I 5 canti però non verranno mai aggiunti al poema, perchè troppo cupi e pesanti. L’**episodio di Olimpia** viene integrata tra i canti IX, X e XI; l’**episodio di Marganorre** occupa il canto XXXVII completamente; l’**episodio di Ruggiero**, molto più tardo e fatto tra la metà del 1530 e il 1531, occupa i canti ILIII e ILV. Queste carte che possediamo noi non sono dei veri abbozzi, ma già **più puliti**: infatti, una volta che le carte diventano molto pasticciate, lui ricopia in bella e corregge continuando da lì, così da ritrovarsi tutto il materiale più in ordine. Sempre di questo episodio di Olimpia, sappiamo che Ariosto ne ha fatto un’altra copia allestita da portare in tipografia. Questa carta è conservata nella **Biblioteca Ambrosiana**, dove si hanno tutte le ottave in sequenza e in pulito, tranne per qualche correzione e una correzione nel margine destro. Da ciò capiamo che **lui usava il margine sinistro per stendere il testo, per poi lasciare il margine destro per le correzioni, lo stesso principio dei nostri fogli protocollo**. Vedi anche gli autografi di Proust, che sono tutti online e presentano diversi tipi di correzioni, come delle strisce di correzioni che attaccava alle pagine. Chiamiamo queste correzioni in tempi diversi fasi lavorative, che, nel Fermo e Lucia, vedeva due correzioni diverse, per esempio. Questa variante è interessante dal punto di vista narrativo: parla di questo di Reno con indicazione del suo paese d’origine, Selandia, per poi passare in Olanda, il paese di Olimpia, fermandosi per andare in Spagna, esattamente in Biscaglia (in una carta datata 1553, ma che sappiamo la sua prima versione essere del 1526), ovvero la parte della Spagna subito sotto i Pirenei che tocca il Mar di Biscaglia o Grande Mare Oceano, il tutto ritrovato nella variante re di Biscaglia. I frammenti autografi si presentano in vari strati: * Abbozzi; * Ottave ritrascritte, ma soggette ancora a numerose ricorrezioni; * Ottave trascritte, ma con lievi correzioni a margine; * Ottave copiate in bella con minime varianti linguistiche. La macchia di inchiostro e il segno 6E ci mostrano che erano passate in tipografia, poiché sono fatti per indicare l’impostazione della carta. Queste cose, però, non possiamo datarle bene, in quanto non possiamo datare le carte e perché sono poche le lettere e i documenti che datino il suo processo di scrittura, come una lettera per Francesco Gonzaga, in cui gli dice che il manoscritto non era stato ancora finito con una soddisfacente, per lui, revisione linguistica e narrativa, e anche perché era piena di correzioni e chiose che lo rendevano illeggibile per chiunque non fosse lui; infatti, le ottave lui molte volte le compone in una carta in cui non dovrebbero stare, per poi ricopiarle in una carta dove dovrebbero stare. Noi sappiamo che questi tre episodi sono stati composti nel 1525, che sappiamo grazie all’uso dell’avverbio tosto, che Bembo, nelle sue Prose, aveva indicato come **prescrittivo** invece che il più settentrionale **presto**: negli autografi, infatti, che abbiamo, troviamo sempre tosto, datandoli necessariamente dopo il 1525, correzioni che non vediamo nelle versioni del 1516 e che vediamo invece corrette nelle edizioni del 1532. L'ultimo episodio, di **Leone e Ruggiero sostituisce i Cinque Canti**, sviluppati dal ’18 fino a metà del ’30, diventarono stilisticamente e a livello di atmosfera diversi dal Furioso: erano troppo cupi, in quanto erano pieni di aggressioni di donne, tentativi di stupro e abusi di potere raccontati in modo molto evidente e pesante, mentre sono sfumati nell’episodio di Olimpia. 'Olimpia e Marganorre' è un episodio sviluppato proprio durante lo sviluppo dei Cinque Canti; in questi, nel III all’ottava 42, precedente al 1525, vediamo Gano di Maganza che riesce ad entrare in Provenza, governata da Bradamante, mentre Ruggiero viene mandato per mare e inghiottito da una balena e Marfisa viene spedita via terra a cavallo verso il Portogallo, che deve assaltare, e fa apparizione per la prima volta Alfonso d’Aragona, re di Biscaglia, anche se è re di Biscaglia. Nel 1516 era nel canto XXI, mentre nel 1530 diventa parte del canto XXIV. **Ariosto sta portando avanti mentalmente questo episodio dai Cinque Canti al Canto di Olimpia, per poi cancellare il riferimento al re di Biscaglia una volta che sente di dover tagliare via i Cinque Canti**, cambiando il tutto ad un riferimento alla sola Biscaglia; dunque, la correzione nella prima carta vista è tardiva non solo perché si trova nella colonna di destra, ma anche perché non presenta più il re di Biscaglia, ma verso Biscaglia. Un altro caso, che però non riguarda i Cinque Canti, è il punto molto ampio dell’**inizio dell’episodio di Olimpia nel canto IX**, nelle ottave 5, 9 e 10. La prima carta che ci è giunta che presenti l’inizio dell’episodio di Olimpia è nella Biblioteca Ariostea. È una carta sostanzialmente in bella copia, ma con degli interventi in qualche maniera databili, con un’ottava, la **11, collocata a margine con un segno evidente che indica dove debba andare l’ottava**, ovvero tra la 10 e la 12. Le ottave del canto IX precedenti alla 8 (e a parte della 7, composta ex novo da Ariosto) provengono già dall’edizione del 1516. (stiamo leggendo l’ottava otto che abbiamo nelle edizioni di oggi) Il personaggio che arriva tra Bretagna e Normandia è Rolando, che cerca Angelica, che gli hanno detto essere verso il nord della Francia. Capiamo che usa la cartina citata prima per comporre questa ottava perché nella cartina questo fiume molto stretto oggi e stretto anche allora è descritto come pieno. (leggiamo ottave 9 e 10, dove gli viene detto che non può passare dall’altra parte se non come cavaliere per una battaglia giusta e onesta; nell’11 gli viene chiesto di unirsi al re di Ibernia/Irlanda per combattere gli abitanti dell’Isola Ebuda, sopra l’Irlanda, che hanno l’abitudine di prendere le fanciulle vergini per buttarle in pasto all’orca, anche se sarà Ruggiero, tra quelle, a liberare Angelica) Perché ci soffermiamo su queste tre ottave? Perché l’ottava 11, che nei Frammenti è collocata a margine e che vede proprio il re di Bernia da combattere, era nell’idea originale far incontrare Orlando con questa donzella, Olimpia, per chiedere aiuto ad un isola non ancora chiamata da Ariosto Ebuda; infatti, la sua prima idea narrativa era quella di collocare oltre l’Irlanda una piccola isola, uno scoglio, in cui c’è già l’elemento narrativo importante del gettare le fanciulle in bocca all’orca, che puoi vedere leggendo le ottave 10 e 12 di fila. Man mano che continua a sviluppare il racconto di Olimpia, succede che Olimpia viene aiutata da Orlando, sconfigge M., sposa di Reno, ma questo l’abbandona tradendola su quest’isola, per poi avere Orlando che la trova lì, che, liberandola un’altra volta, la avrebbe vista, secondo la vista di Orlando, innamorarsi del re di Ibernia, che sarebbe stato introdotto nell’episodio dopo, richiedendo, dunque, di introdurlo nelle ottave precedenti per creare suspence: fa così aggiungendo proprio l’ottava 11, dove annuncia un re di Ibernia. Poiché Ariosto fa accenno all’isola di Eburna nella 11, è costretto a cambiare l’ottava 12: cambia aggiungendo che oltre l’Irlanda, tra le molte isole che ci sono, v’è l’isola, ovvero l’isola di Ebuda, che così riprende dai versi finali dell’ottava 11. Nella carta della Biblioteca Ariostiana vediamo l’ottava 11 pulita, che significa che era stata abbozzata in una carta che non abbiamo, per poi averla qui ricopiata in pulito e sistemata accanto alle ottave 10 e 12. C’è anche un intervento successivo (pensato essere tra il ’30 e il ’31) che vede ne l’altra riva il piede anziché in la, che nella carta era una i con un cappellino sotto; in la, usata nel settentrione tra Quattrocento e Cinquecento viene eliminata da Bembo con ne la. Questa è una correzione sistematica indicata da Debenedetti e Segre nel ’30 e ’31, ovvero gli anni precedenti all’entrata in tipografia del Furioso. È uno di quei casi in cui ductus e calamo sono molto più sottili della scrittura del testo in bella copia, che non è in nero, ma in marrone, come vediamo da una correzione immediata qualche verso sotto. Solo all’altezza degli anni ’30 imposta alcune forme con sicurezza; infatti, prima le aveva corrette, ma tornava continuamente a ricopiare le versioni settentrionali, molto probabilmente per un’insicurezza. Qual è la stranezza di questa aggiunta di un’ottava? È che nella bella copia da portare in tipografia l’ottava undicesima viene messa sopra il segno che indica dove doveva finire il foglio, che significa molto probabilmente o che fosse indeciso, o che se la fosse dimenticata. Nell’edizione Debenedetti-Segre del 1960 tutto questo è ben chiarito. I Cinque Canti sono dati da un manoscritto sistemato postumo. La cosa interessante di un episodio entrato nel Furioso, ovvero la Rocca di Tristano, vede Orlando fermarsi in questa rocca, che nei quadri vede la storia di tutte le guerre d’Italia. Di quest’episodio non abbiamo un autografo, ma un apografo. Questo anche è conservato nella Biblioteca Ambrosiana e la sua scrittura, nonostante sembri simile a quella di Ariosto, dovrebbe essere quella di Cornelio Pigna o di un suo copista, che ha avuto da Agostino da Mosto una copia di questo manoscritto. Cornelio Pigna vive nella fine del Cinquecento, che scrive in una di queste carte che era giovane quando era vivo Ariosto e che a lui sono stati dati dalla famiglia di Agostino degli autografi. Questo è uno dei pochissimi casi in cui la copia rispetta la disposizione e tutto il testo così come fatto da Ariosto, stessa cosa per le cancellature, le ottave ai margini, i segni di introduzione di ottave tra altre ottave e tutti i segni che Ariosto aveva fatto. Anche in questo caso abbiamo un’edizione di Debenedetti che, nonostante avesse rispettato eccezionalmente gli autografi, non ha capito bene la sequenza dei cambiamenti delle varianti degli apografi, sia questo che la sua copia, che riproduce in parte la sua disposizione (si vede che è un copista che non ha un culto di Ariosto). In questo caso non è un’ottava di legame narrativo, ma di legame tramite la similitudine (canto XXXIII, ottave dalla 79 all’81). Nell’apografo viene persino riportata la lezione iniziale poi cancellata da Ariosto, nell’ottava 80. Gli autografi sono in gran parte all’Ariostea, poi altre carte legate alla tipografia all’Ambrosiana e a Napoli, con le uniche con l’episodio dello Scudo della Regina sempre a Napoli. L’apografo all’Ambrosiana è arrivato lì graie ad una donazione di Gianvincenzo Pinelli (non sappiamo se grazie a Patrizi) insieme a multiple carte di Tasso; per le carte autografe con l’episodio di Olimpia, uno degli ultimi articoli (di Umberto Motta?) non è riuscito a ritracciare il percorso, sappiamo però che la copia di Ariosto del 1521 con correzioni e varianti per creare il Furioso del 1532 era in mano di Giam- Pigna. Da cosa lo capiamo che sono autografi di Ariosto? Perché sono stati confrontati con le lettere di Ariosto, che sono prevalentemente autografe e degli stessi anni, cioè quelli tardi, e sono praticamente di ductus e grafia uguale; inoltre, anche nelle lettere come segretario garante della moglie Alessandra Strozzi, con cui si sposò di nascosto. Abbiamo anche le Poesie Latine in parte autografe, tutte allestite da Pigna.
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l'edizione delle lettere di Battista Guarini:
l'epistolario di Battista Guarini, essendo un materiale archivistico, vede sempre una **nuova aggiunta di materiale** ogni volta che si aggiunge un fondo ad un archivio. Il suo progetto si scompone in due parti: l’**edizione di Battista Guarini cartacea**; una **collezione digitale delle missive di Guarini** Epistolario di Giovan Battista Guarini, materiale archivistico, facile disperderlo, si amplia ogni volta che si aggiunge materiale ad archivio. ● Primo progetto🡪 l’edizione critica **digitale** , contiene le lettere dal **1598 al 1602** ; Lucia trova **166 lettere** dello stesso periodo ● Secondo progetto🡪. Mentre l’**edizione cartacea** di Guarini redatta dallo stesso contiene solo le **lettere del 1615** (archivio di Modena). Oggi si cerca di metterle tutte insieme per leggerle cronologicamente. La difficoltà è stata capire DOVE si trovassero le lettere perché nell’archivio obsoleto erano collocate in posti in cui non si trovavano ed erano sparse; ALTRO PROBLEMA è che si trovavano solo nell’archivio di persona come quello della famiglia Castiglione che viene donata dopo (2016)
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fasi del progetto:
Le fasi sono sempre le stesse: **recensio**, **collatio**, **eliminatio codicum descriptorum** e l’**editio**, che si deve sdoppiare per i due progetti (parte cartacea e parte digitale). **Pur sapendo dove dovrebbero esser collocate le lettere, poiché sono comunque obsoleti i sistemi di archivio, è ancora difficile capire dove trovarle**. Logica vorrebbe che la lettera si trovi nel fondo del destinatario, ma ci sono anche i casi di restituzioni degli eredi delle lettere agli eredi di Guarini o anche lettere rubate dai corrieri postali, come lo stesso Guarini dice, infine anche lettere che non sono nelle condizioni materiali giuste per essere accessibili.
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archivii dell'epistolario:
C’è anche la questione degli **archivi di persona**, che possono essere **ancora privati**. Per esempio, per riprendere l’esempio della scorsa lezione, il fondo Castiglione è stato ceduto dalla famiglia nel 2016. Quando questa documentazione viene da una famiglia, che ha tenuto e depositato le carte, molte lettere e carte vengono poste dentro archivi, che possono essere solitamente o di Stato o di Chiesa. Un uomo del Cinque-Seicento scriveva molte lettere, sia come **persona privata** che scrive ai suoi stretti, sia come **uomo diplomatico** di stato, con anche **corrispondenti ecclesiastici o laici**, che significa che, nel primo caso, rimangono nel primo luogo in cui sono arrivate. I documenti di tipologia diversa, che negli archivi sono solitamente distinti (come gli atti del notaio dalle lettere), per quanto riguarda le lettere soltanto crea molti problemi. Fin quando non ci sarà un lavoro ben fatto, non si può far altro che aspettare. La lettera a **Mantova b.39 dell’Archivio Capilupi** è la **lettera più antica di Guarini**. L’archivista l’aveva trovata nel **fondo Capilupi**, che era una famiglia di **Mantova**; poiché **Guarini lavorava sotto gli Este a Ferrara**, si scopre che aveva anche corrispondenze a Mantova con Guarini, che è stato scoperto solo grazie al fatto che **si hanno trovato queste lettere nel fondo dei Capilupi**. Ci sono anche collocazioni inaspettate: **la maggior parte delle lettere di Guarini sono a Modena**, all’**Archivio di Stato per Materie, Letterati** (nel Settecento, anziché rispettare il principio di provenienza tra documento ed ente che l’ha prodotto, è stata fatta una suddivisione del materiale per materiale, scomponendo un fondo) o anche nell’**Archivio Storico Capitolino**, Fondo Serlupo-Crescenzi, che ne vede solo 3 familiari. Le lettere fiorentine non erano state rinvenute nell’**Archivio Mediceo di Principato**, ma una volta aggiornato e riorganizzato, i faldoni, che tenevano le lettere mandate in un mese/un mese e mezzo al principato **organizzate per ordine di ricevuta**, prima erano state **ordinate secondo l’indice ottocentesco, che è inutile se non si indicano le vecchie collocazioni e le nuove**. **Le lettere fiorentine che la dottoressa ha trovato sono circa una sessantina, che sono molte rispetto alle cinque o sei che erano note.**
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quante lettere di Guarini?
L’opera di Guarini, che era di tipo politico-encomiastico, si spiega poco con le poche lettere prima avute, mentre ora è più facile capire. Quante sono queste lettere? circa 900, di cui più della metà autografi, il resto apografi e lettere ricevute. Sono **572 autografi**, anche quelle scritte dai copisti della famiglia; **201 apografi** (**copie** di libri di lettere, che hanno la finalità della lettura semplice, o copie di cancelleria, fatte per tenere copie delle lettere), che distruggono anche la **datazione**, in quanto **furono tolte le intestazioni**; **206 lettere raccolte nell’epistolario**, che erano fatte da **eruditi** come doni di nozze, per esempio. Per le lettere accade che non abbiamo più l’originale, ma delle copie: si fa dunque la collatio a sistema, anche se le lettere hanno il **problema della duplice tradizione come silloge e come singolo testo**, che vuol dire che **si deve tenere in conto anche la mano del copista, per capire quanto sia stato attento al testo** e alla sua funzione.
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i manoscritti librai dell'epistolario:
● L’**It. 752 BEU** (Biblioteca Estense Universitaria) a Modena, un libro di lettere di corrispondenze di diversi a diversi, di cui sono state tolte tutte le parti formulari; ● Il **BEU it. 722**, che contiene lettere di e a Guarini a mano con una serie di missive e senza parti formulari; ● L’**Ash. (Ashburnham) 1343**, lettere di e a Guarini, ordine stesso del 752, ma con **tre missive e senza tutte le parti formulari tranne alle tre aggiunte**.
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il problema dei testi ricorrenti:
Il problema dei testi ricorrenti è che non sappiamo quali siano quelli con le lettere meglio copiate. La dottoressa ipotizza che l'ordine dei manoscritti sia il seguente: ● **Manoscritto 752**: il più conservativo. ● **Secondo manoscritto**: è più probabile che due manoscritti abbiano le stesse lettere piuttosto che uno solo con tre lettere aggiunte. ● **Terzo manoscritto**: probabilmente ha aggiunto tre lettere originali a quelle prese dagli scritti precedenti. Infine, il **manoscritto Cl. I 496** fu vergato dall'entourage di **Apostolo Zeno**, che intendeva metterle in ordine successivamente.
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l'edizione digitale:
L’edizione digitale, presso il dh more, ha dei problemi: ● Mancanza di **fondi** ● Mezzi **obsoleti** La dott. Non può mettere in ordine progetti esistenti, perché non si tratta di un archivio. L’edizione della professoressa è digitalizzata visto che è anche possibile stamparla, **ha anche una trascrizione digitale che funge da sostitutiva ad apparato**.
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come erano piegate le pagine delle lettere:
Le lettere erano fatte da un **bifolium piegato**, con nome e sigillo con cera lacca. Guarini ha una grafia cristallina e in base al destinatario cambiava il tipo di carta. **Firma di Guarini personalizzata come sigillo di validità**.
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la stampa nell'epistolario di Guarini:
Nel quadro complessivo delle sue lettere, come la mettiamo con la stampa? C’è una differenza tra libro di lettere, epistolario e missiva (vedi lezione precedente), ed è ben presente in Guarini. Accade che valutare le stampe, dunque, è impellente: in generale, **dall’unica lettera collazionabile tra stampa e lettere manoscritte, sembra molto fedele la stampa, anche se aggiunge un paio di informazioni su di sé** (e per questo ne aggiungerà alla sua edizione) ed eleva il suo stile. Nell’edictio princeps si hanno due lettere fictae, che sono però proemiali.
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i testi di risposta d Guarini:
Per quanto riguarda i testi di risposta? Ci sono, ma per la costruzione intera della corrispondenza, in tre anni per lei era impossibile farlo, in quanto va bene per le familiari, ma ci sono anche corrispondenti sconosciuti, come Spazzini, che si suppone fosse il tipografo; inoltre, già le minute a Firenze non sono state inventariate.
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l'officina di Petrarca: le opere del cuore:
Le opere del cuore di Petrarca (l’*Africa*, *De viris illustribus* ) a cui P. voleva affidare la sua **gloria** non vennero **mai completate**, forse perchè si era reso conto che non erano questi i progetti a cui affidarla. Tuttavia molte altre sono state pubblicate, come il RVF, e opere latine, come il trattato ‘De vita solitaria’ e il dialogo ‘De remediis utriusque fortunae’. Entrambe vennero inviate ai propri dedicatari, avviandone così la diffusione. Sono testi che ebbero una **grande fortuna manoscritta**, e infatti vennero copiato in Francia e Germania, tradotti, volgarizzati. E’ questi che si deve la fama di Petrarca.
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il 'De Vita Solitaria':
Era tipico suo il chiudersi nel luogo tipico ameno con i suoi libri e qualche vita, ne parla nel De vita solitaria, **trattato sulla sua solitudine come luogo di chi è veramente dotto e sapiente**, per cui va fiero se il volgo ignorante lo trova incomprensibile. 2° libro = vuole fortificare quello detto precedentemente con degli esempi, sul modello del *De viris illustribus*, addirittura parlando di **Cristo** nei quaranta giorni nel deserto, di santi (come Celestino V, scagliandosi contro Dante e riabilitandolo come uomo solitario, in quanto la sua scelta rinunciataria fu giovevole per il mondo, secondo lui) e di uomini antichi. Il De vita solitaria venne covato a lungo, per vent’anni con aggiunta successiva, ma che venne anche pubblicato: sappiamo che gli stava a cuore da come ne parlava nelle lettere e da delle postille nei suoi manoscritti. Venne iniziata nel **1346**, e mandata al destinatario, **Filippo di Cabassoles**, per pagare la decima del proprio ingegno, nel **1366**. All’interno di una lettera scrisse di essere alter Protogenes, un perfezionista che, come **Protogene**, di cui lesse in un libro di Plinio il Vecchio, **non riuscì mai a dare l’ultima pennellata alle sue opere**. Petrarca, infatti, non riusciva a dare la pennellata finale poiché lo doveva al pubblico e a se stesso, anche perché ogni volta imparava nuove cose, anche grazie ai manoscritti dati dagli amici.
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Petrarca e Quintiliano:
Nel giubileo del **1350** si ferma a Firenze, incontrando per la prima volta **Boccaccio**, con cui nascerà un’amicizia espistolare e non. Da un suo amico gli verrà regalato un manoscritto di **Quintiliano** (scrittore della ‘*Institutio oratoria*’); in questa opera Q. dice che **la solitudine non è una cosa positiva**, il poeta è poeta anche nel mezzo della città. Nel manoscritto appartenuto a Petrarca egli scrive ‘**contra Silvanus**’, poiché l’idea di Q. era contraria alla concezione di P. (appunta anche ‘gli risponderai nel DVS, come effettivamente farà, e poi postilla ‘*feci quello che ho potuto*’ > circolarità fra la composizione di un'opera, i libri che nutrono la struttura dell'opera medesima e P. che parla con gli antichi come fossero suoi contemporanei). | [](http://)
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filologia del De Vita Solitaria:
Cabassoles mette **in circolo** tra i vescovi e il papa l’opera di Petrarca, che così ha grande successo. Il filologo avendo davanti una tradizione manoscritta così ampia non fa una collatio generale, ma si basa sul manoscritto copiato da Ambrogio Ambrogi, amico suo, lo stava copiando (ce lo dicono le lettere di Petrarca). Pio Raina nel 1905 aveva intuito che il **Vat. Lat 3357** fosse il manoscritto non autografo più importante, perché aveva tratti interessanti. Raina sapeva che era stato in possesso a **Bembo** che lo aveva definito un Brogliaccio di Lavoro di Petrarca, cosa che non era, anche se contiene un supplemento apportato da Petrarca nel 1366 a proposito di Romualdo di Camaldoli, che vedeva il vescovo lamentarsi dell’assenza di questo personaggio. Nel manoscritto ci sono poi delle postille di **Donato Albanzani**, custode della biblioteca di Petrarca, dove scrive “pete an haud” per ricordarsi di chiedere a Petrarca se fosse **aut** (o) oppure **haud** (non), e un’altra postilla “aut **edentibus**” in cui chiede se nella frase “fumant ipsis e **dentibus** stupenda fercula” (fumano uscendo dai denti delle pietanze straordinarie) si chiede se sia “Dai commensali” invece che “dai denti”. Si può capire che questo testo fosse copiato con la supervisione di Petrarca anche da una **postilla** che cita l’**ispirazione di un verso da Giovenale, che era conosciuto al tempo solo da Petrarca**. Raina quindi aveva ragione, perché c’era un **rapporto privilegiato di supervisione tra il copista e l’autore**, era quindi è una sorta di idiografo di seconda istanza, di secondo passaggio. Nel 1955 Guido Martellotti pubblica un’edizione provvisoria del “De vita soitaria” in cui riporta tutti gli errori. Il prof Pettoletti grazie alla tecnologia consulta inve etanti altri manoscritti tra cui quello di Madrid, controllato da Petrarca e inviato a Cabassoles, con tanto di manipulae e i fiorellini, per dare una guida autoriale del proprio testo al lettore. Analizzando il manoscritto: 1. **croncetumque** sostituisce ‘**cruentum**’ (sporco di sangue e rosso di sangue) con ‘**concretum**’ (sporco di sangue e incrostato), poichè aveva già detto che il pavimento era sporco, sarebbe stata una ripetizione. Dal punto di vista del suono cambia poco, ma cambia molto da punto di vista semantico. Il compito del filologo è questo, capire come ragionava P. 2. Analisi del passo sul Solitario più vicino, ritenuto da lui contemporaneo, **Celestino V**, papà che abdica in favore di Bonifacio VIII. Capitolo lungo e con molta ricerca per rivaleggiare con quello fatto da Dante, utilizzando documenti rari ma non sempre ben scritti, perchè aveva letto una biografia trifariam, ovvero divisa in tre, che lo portò a ricercare manoscritti rari per ricostruire il suo ritratto. 3. **squalidum opus spretor**. Manoscritto di dedica: squalidus, scritta su rasura e dalla mano di Petrarca, con **anche un fiorellino a indicare che era un punto che gli piaceva**; 4. codice di Albanzani: pannosus depennato con a margine squalidus; 5. codice di Della Casa: pannosus 🡪 **la lezione originaria era pannosus, che è possibile vedere anche con i raggi UV nel manoscritto al dedicatario**. 6. Hanno lo stesso significato, forse con squalidus più dispregiativo, sostituito nel codice di dedica prima, poi nel suo autografo, poi corretto nella copia di Albanzani per motivi non certi ma forse Pannosus, per la sensibilità moderna, si trova già negli antichi come Persio, quindi, è giustificato rispetto ad un squalidus, che sembra più negativo ed è molto più comune, anche se avrebbe creato una catena di parole con la P, con un sonus troppo ripetuto nella lettura a voce alta🡪 la lettura a voce alta è importante e deve essere considerata dal Filologo, per permettere di comprendere il testo in tutti i suoi punti - Esempio di Carneficiam🡪 Petrarca vorrebbe scrivere come Cicerone in chiave oratoria ma non può perché nel tempo di Petrarca alcune parole hanno assunto un significato diverso🡪 da “stanza di tortura” a “macellaio”
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introduzione alla tradizione della Commedia:
La tradizione della commedia ha molti testimoni, quasi **800**, ma non l’originale autografo. Progredendo nel tempo i testi hanno una sempre maggior decimazione, fino all’80%. L’albero reale, che è l’albero dei rapporti genealogici tra i manoscritti, vede circa 6.400 testimoni, ed è diverso dallo **stemma**,è che è la formalizzazione dei legami dei manoscritti esistenti secondo il metodo Lachmanniano degli errori comuni, mentre l’**albero reale** è un’astrazione dell’ipotesi “**se avessimo tutti i testimoni del testo, che cosa avremmo?**”. Questa grande quantità di testimoni è dovuta al grande successo della commedia.
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# i le varie edizioni critiche:
* Fino a *metà dell’Ottocento*, il *textus receptus*, il testo di moda, era l’edizione aldina di **Bembo** * tutto cambiò grazio all’edizione del 1862 di **Karl Witte**, che viene studiato per come venisse affrontata la filologia dantesca. Fece questa edizione tramite una **collatione di loci per un centinaio di testi**, selezionando poi quattro testi: A, B, C, D. il primo è un testo pieno di varianti copiato da Filippo Villani; il secondo è il Vat. Lat, il testo copiato da Boccaccio per Petrarca (sono tutti testi fiorentini vicini a Boccaccio). * Un’altra edizione fu fatta da **Edward Moore** nel 1889, che usò diciassette manoscritti, codices proximi, che aveva trovato nella biblioteca di Oxford, in cui lavorò. Una sfida così complessa nel numero di testimoni è quella di cercare un metodo giusto per testimoniare i giusti testimoni. Witte usa una **collatione per loci**, ovvero si sceglie un solo verso del testo e si collazionano i testi che propongono le varianti. * **Michele Barbi**, nel 1891, propone una collazione di 396 loci, che offrì ai filologi danteschi un criterio tramite cui collazionare i codices proximi. Lui maturò questa convinzione da Witte e dai testi fiorentini; eppure, era anche sicuro che fosse solo l’inizio di una decisione di canone, in quanto ci sono dei manoscritti più importanti di altri: infatti, esistono dei manoscritti più isolati a livello genealogico, dei testi più isolati dalla vulgata fiorentina nata da Boccaccio. * Seguì l’edizione nel 1921 di **Vandelli**, sempre promossa dalla Società di Dante Italiana, dove **ricostruisce il testo verso per verso abbandonando lo stemma**. * Segue l’edizione per Zanichelli di **Mario Caselli** del **1923**, con un’ulteriore uscita l’anno successivo per l’aggiunta di un commento e di uno stemma. Questo è sbagliato, in quanto analizza soltanto i testi fiorentini; eppure, fu il **primo stemma**. * Arrivò l’edizione di **Giuseppe Petrocchi**, La Commedia secondo l’**antica vulgata** del **1966-67**. Si allontanò dal metodo dei loci di Barbi e propose un testo di **collazione di ventisette testimoni, il 5% della tradizione**, scelti tramite il criterio cronologico di Carlo Negroni, ovvero quello di scartare tutti i testimoni colti post 1950, anche se Petrocchi propone di allargare il numero di 5 anni, ma perché? Perché **la tradizione successiva a Boccaccio viene considerata deteriore**. Presentò uno **stemma molto più complesso** con la collazione integrale di ventisette testimoni, ritenuti importanti dalla filologia dantesca, **senza però chiarire, nella nota al testo che cosa sia O, che dovrebbe essere un archetipo**. Continua ad essere diviso ancora oggi in alfa e beta, con anche degli elementi importanti come la valorizzazione dei manoscritti settentrionali, copiati in una lingua che manifesta tratti linguistici del copista non solo non fiorentini, ma capita anche che fossero successivi, del Quattrocento. Il problema è che qui si definisce uno stemma per cui **alfa è differente da beta**, che **va contro le informazioni biografiche dell’opera**, che **sappiamo esser partita da Ravenna per poi essere arrivata a Firenze, un esempio è l’Urbinate latino**. Con Petrocchi si perde il concetto dell’ipotesi di lavoro, in quanto si pensa ancora che il testo di Petrocchi sia IL testo della Commedia, anche se **lo stesso spesso non usa il suo stesso stemma per presentare le varianti**. In questa edizione utilizza, inoltre, un **apparato negativo**, in cui presenta le **varianti in ordine alfabetico e non secondo lo stemma**, di cui **usa, inoltre, i codici che lui stesso segnala come descripti**. * Nel 2001 arrivò l’edizione di **Sanguineti**, che ripropose il metodo barbiano in uno **stemma in grado di provare l’esistenza di un archetipo, in quanto promuove un’analisi di errori archeogenetici tra alfa e beta**, con un peso molto importante dei manoscritti settentrionali, rappresentati dal solo Urbinate, che rappresentano il 50% della sua tradizione. Fu criticato, però, perché **propose una base di errori su codici descripti** e anche perché **disse che la tradizione tosco-fiorentina aveva meno importanza di quella settentrionale**. Non si può proporre la Commedia in una veste linguistica tanto settentrionale come quella bolognese, ma **le aggiustò con i testimoni fiorentini (anche se abbiamo visto in lezioni passate che ci sono ancora tratti bolognesi sparsi)**. Le linee tratteggiate negli stemmi di Petrocchi e di Inglese indicano che un manoscritto non ha solo un genitore, ma anche un altro, che presentava delle varianti più preferite dal copista. I copisti a Firenze cambiavano, infatti, anche testimoni nella loro copiatura in un sistema chiamato pecia, ovvero loro ricevevano un determinato fascicolo da copiare e quello successivo dopo la copiatura, ma questo poteva essere di un altro testimone. I testimoni settentrionali non sono favoritati in quanto isolati dalla Vulgata. Immaginando che ogni atto di copia produca degli errori, meno copie ci sono tra le copie e l’archetipo/originale, meno sono gli errori, che è la regola recensiores non deteriores. Sanguineti tenne conto di pochi loci barbiani, dando così un testo molto leggero di testimoni. * Segue l’ipotesi di **Inglese** del 2016. Lo stemma di Inglese vede una **linea tratteggiata per indicare una tradizione extrastemmatica, ovvero di testimoni fuori dalla tradizione** proposta dallo stesso Inglese. Anche lui, come Petrocchi, si muove in quelli nati dalla Vulgata **scartando la famiglia dei Cento, che è una delle più contaminate**; privilegiò, dunque, il rapporto tra l’**Urbinate** e il **Trivulziano**, i manoscritti più antichi. * Dopo ci sono delle **edizioni** uscite **non critiche** che studiavano il successo della diffusione delle cantiche, altre che studiano con algoritmi la tradizione, altri che propongono un solo manoscritto come base, ovvero il Trivulziano. * Un altro tentativo è l’edizione capeggiata da **Paolo Trovato**, in cui si tenta di **collazionare tutto il materiale esistente eccetto i testimoni frammentari**; questa viene collazionata non integralmente, ma **per loci**, ed è un lavoro che è iniziato nel 2006-07 in modo progressivo: all’inizio si teneva conto di 200 loci in un foglio excel, oggi sono **230** con quelli barbiani. L’incremento è dato da varie tesi di laurea e dal contributo di Elisabetta Tonello. Questo lavoro si basa su due concetti fondamentali: la biografia dantesca e la diffusione della Commedia dal nord dell’Italia, che si riflette anche nella veste linguistica (i codici fiorentini vedono tratti del fiorentino argenteo, non aureo, mentre quelli settentrionali sembrano proporre delle forme comunque vicinissime a quello aureo); il fatto che esista, per i codici settentrionali, un numero minore di copie intermediarie. Lo stemma Trovato del 2007 mostra graficamente quanto la tradizione settentrionale, che già Sanguineti disse non avere soltanto un solo manoscritto al capo, abbia meno manoscritti di quella tosco-fiorentina. **Si è tentato anche di ricostruire la tradizione dei piani bassi della tradizione tosco-fiorentina**, come is vede nel lavoro sempre di Elisabetta Tonello che non dà discendenze dirette, ma uno studio tramite insiemistica: infatti, è uno stemma molto provocatorio che prova ad inquadrare la gran parte della tradizione tosco-fiorentina della Commedia. Una delle caratteristiche di questa equipe è che ha contattato anche i paleografi e i codicologi per studiare meglio ogni testo, dal cui lavoro è stato possibile ricostruire delle famiglie comuni. Lo stemma Tonello-Trovato del 2003 non si libera della maledizione della tradizione bipartita, anche se si hanno un ramo gamma e beta. Le famiglie più conservative, quelle a cui diamo più peso a livello stemmatico, sono quella di beta e P, mentre quelle di bol e mad sono quelle più problematiche. **Hanno rovesciato la ricostruzione genealogica di Petrocchi. Sono, dunque, preferiti i manoscritti settentrionali**. Nota anche da alfa nascono delle frecce tratteggiate che vanno verso su, anziché giù: mostrano un tentativo di comprensione e formalizzazione dell’importanza della bomba della tradizione tosco-fiorentina, anche se è molto difficile trovare degli errori archeogenetici, in quanto sembrerebbe alla Tonelli che ci sono degli errori che si trasferiscono anche a quelli settentrionali per il fatto che erano recentiores e anche perché, probabilmente, era in un luogo molto frequentato o molto produttivo di manoscritti.
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le novità testuali della proposta di Trovato:
Quali sono le novità a livello testuale di questa proposta? Sono circa due a canto. L’edizione Tonello-Trovato si fonda a tre fasce d’apparato: * **Linee formali**, in quanto i manoscritti di superficie sono F e U, quelli settentrionali, che, **dove non sono accettabili per il fiorentino antico, vengono ricostruiti basandosi sugli studi di Castellani e altri storici della linguistica italiana**, con poche ricostruzioni (non ci sono parentesi), secondo un consiglio di Francisco Rico, filologo spagnolo che pensò che un testo come quello della Commedia dovesse essere pulito e subito fruibile; * **Apparato positivo**, in cui a sinistra si prende la variante messa a testo e a destra tutte le altre dieci lezioni in ordine di conservatività delle famiglie settentrionali (da beta a P) fino a quelle tosco-fiorentine; * **Discussione delle scelte non meccaniche**, ovvero quelle fatte davanti a scelte non facili da fare, per cui si consultano i testimoni tradizionali. Una peculiarità è che non sono segnalate le rubriche, ma dalle diciture capitulum, che secondo lo stemma sembrano essere parte dell’archetipo, come potrebbe testimoniare lo stesso figlio Iacopo Alighieri. Le lettere in grassetto sono le edizioni scritte su, come W per indicare l’edizione di Witte.
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varianti all'edizione di Petrocchi:
Alcune varianti all’edizione di Petrocchi sono: Alcune varianti all’edizione di Petrocchi sono: 1. Nell’**Inferno, I** '*sub Iulo*' secondo un dizionario di toscano antico e '*ancor fosse tardi*', espressione più complessa ed ellittica, scelta perché una **lectio difficilior**; 2. **Inferno, 3 11**, *vid’io iscritte al sommo d’una porta* vede un io che solitamente nella Commedia non è mai soggetto a *dieresi*, che vuol dire che qui è un’eccezione; le varianti settentrionali, invece, chiariscono questo dubbio; I testimoni settentrionali cancellano molte dieresi di eccezioni. 3. **Inferno 31, 77**, Nembrot viene corretto in **Nembrotto** perché, sennò, si dovrebbe ipotizzare una *dialefe* in *questi è* (dialefe = iato fra due vocali consecutive, la prima in fine e la seconda all'inizio di parola).