Valutazione del metabolismo del ferro Flashcards
Cos è l’anemia?
L’analisi del sangue è il punto di partenza per decidere se richiedere o meno una valutazione del metabolismo del ferro nel paziente, il cui deficit è una delle principali cause di anemia. L’anemia è clinicamente definita come la riduzione patologica dell’emoglobina (Hb) al di sotto dei livelli di normalità, che esita in una ridotta capacità del sangue di trasportare ossigeno ai tessuti. In particolare, i criteri definiti dalla WHO per la diagnosi di anemia sono:
- Nell’uomo una concentrazione di emoglobina inferiore ai 13 g/dL o un ematocrito inferiore al 40%
- Nella donna una concentrazione di emoglobina inferiore ai 12 g/dL o un ematocrito inferiore al 36%
Dei parametri ottenibili dall’esame emocromocitometrico del sangue, nel contesto della diagnosi dell’anemia, quindi, l’emoglobina e l’ematocrito sono fondamentali e una loro diminuzione può considerarsi già un indice di possibile anemia.
Altri parametri eritrocitari che possono essere valutati per capire che tipo di anemia è presente nel paziente sono:
- Volume corpuscolare medio
- Reticolociti, che rappresentano un importante parametro nella considerazione dell’anemia, in quanto un loro aumento è un chiaro esempio di rigenerazione e, quindi, di riattivazione di eritropoiesi a livello midollare
- Ampiezza di distribuzione dei globuli rossi, in quanto in certe forme di anemia si assiste a una estrema variabilità di morfologia e dimensioni dei globuli rossi
Dal punto di vista clinico MCHC e MHC nella valutazione della condizione di anemia sono meno utili.
L’esame emocromocitometrico del sangue è il punto di partenza per la valutazione di queste patologie perché potendosi manifestare attraverso numerosi sintomi, anche poco specifici, è utile per evidenziare anomalie e alterazioni a carico dell’eritropoiesi. Oltre all’ematocrito e all’Hb, anche i parametri qualitativi dei globuli rossi sono importanti per tentare di capire, seppur in maniera generale, la possibile causa di queste patologie. Una delle principali cause di anemia nei pazienti è la carenza di ferro (50%dei casi); altre cause sono legate a carenze di vitamine, quali folato, riboflavina, vitamina A e B12, infezioni acute o croniche*, come nel caso di malaria, tubercolosi, cancro e HIV, e altri fattori patogenetici, che includono quelle malattie ereditarie o acquisite che alterano le vie di sintesi di emoglobina, la produzione o sopravvivenza dei globuli rossi.
* Una malattia cronica può provocare anemia in tre modi:
- soppressione della produzione di globuli rossi nel midollo osseo
- riduzione della durata della vita dei globuli rossi
- uso patologico del ferro da parte dell’organismo
Come vengono classificate le anemie?
Una suddivisione generale delle anemie si basa sulle dimensioni del globulo rosso, e quindi sull’MCV che si riscontra nell’esame emocromocitometrico. Si distinguono:
- Anemie microcitiche, con MCV inferiore a 80 fL, ad esempio nelle α o β-talassemie o nelle anemie causate da patologie croniche
- Anemie normocitiche, che costituiscono una grande fetta delle anemie e in cui i globuli rossi non presentano alterazioni morfologiche, come avviene nell’insufficienza renale (che causa anemia per la ridotta sintesi di eritropoietina) o a causa di un’aumentata distruzione dei globuli rossi
- Anemie macrocitiche, con aumento delle dimensioni dei globuli rossi (MCV>100 fL), come accade negli alcolisti o nell’insufficienza epatica (alcolismo e insufficienza epatica causano anemia per la conseguente carenza di vitamina B12 e folato che determina un’alterata sintesi del DNA. Entrambe queste sostanze sono necessarie per la produzione dei globuli rossi e la loro carenza provoca un difetto maturativo di questi elementi; in particolare, il citoplasma è eccessivo rispetto al nucleo)
L’MCV quindi già orienta verso una identificazione della possibile causa di anemia.
Un sistema interessante è valutare in contemporanea alla riduzione di emoglobina e dell’ematocrito, la correlazione tra l’MCV e i reticolociti, che può offrire informazioni sul meccanismo che caratterizza quella particolare forma di anemia.
Si parla per esempio di anemie ipoproliferative quando ci si riferisce a forme caratterizzate da ridotta produzione di globuli rossi, dovute a mancata o alterata proliferazione di precursori. In queste anemie, se si guardano i parametri eritrocitari, i globuli rossi seppur ridotti vengono comunque prodotti normalmente, quindi l’MCV sarà normale, ma si può assistere ad una ridotta presenza di reticolociti, per via dell’alterata eritropoiesi per ciò che riguarda la produzione di precursori e, quindi, di eritrociti maturi.
Diverse sono invece le condizioni di forme di anemie inefficaci, in cui i meccanismi patologici portano alla produzione di globuli rossi con alterazioni morfologiche; si assiste a variazioni, aumenti o riduzioni, di MCV e nell’esame emocromocitometrico si può osservare una incremento di reticolociti, in quanto alla produzione alterata di globuli rossi il midollo risponde potenziando la proliferazione e quindi cercando di compensare la produzione dei globuli rossi.
Nelle condizioni di perdita periferica, per esempio nelle anemie emolitiche, che comportano la distruzione dei globuli rossi, l’MCV è nella norma, in quanto la distruzione avviene perifericamente e il midollo quindi produce globuli normalmente, ma anche in questo caso si evidenzierà un aumento di reticolociti come meccanismo di compensazione di perdita periferica. Tale andamento è caratteristico anche nelle forme di anemia emorragiche dovute a perdita di globuli rossi a livello periferico.
Tra i meccanismi di anemia, particolare interesse suscita quello dovuto al deficit di ferro.
Quali sono le principali condizioni che inducono una valutazione del metabolismo del ferro?
Numerosi test possono essere eseguiti sul sangue per valutare il metabolismo del ferro nei pazienti e sono generalmente richiesti in due casi opposti:
- se vi è il sospetto di deficit o carenza di ferro, che si manifesta principalmente sotto forma di anemie
- se al contrario vi è sospetto sovraccarico di Fe
Le principali cause di deficit o sovraccarico di Fe sono dovute sia a condizioni genetiche che acquisite.
Nelle forme genetiche di deficit di ferro vi sono particolari tipi di anemie, mentre tra le acquisite si hanno quelle dovute a perdita periferica di sangue, forme di malassorbimento del ferro o problemi nutrizionali.
Le forme di sovraccarico di Fe sono legate principalmente a condizioni di emocromatosi, di cui vi sono diversi tipi e in cui i geni mutati sono gli stessi che si ritrovano nel metabolismo del ferro; altre forme sono dovute invece a eventi acquisiti, come il ricorso a trasfusioni, che possono comportare l’accumulo dei Fe nel paziente.
Qual è la via che il metabolismo del ferro segue nel nostro organismo?
Per comprendere il significato e l’obiettivo dei test clinici a disposizione per valutare il ferro nei pazienti, bisogna comprenderne anche il metabolismo. Il metabolismo del ferro è stato per molti anni difficile da comprendere. Gli ultimi decenni hanno rivoluzionato la comprensione di come il nostro corpo è in grado di controllare i livelli di Fe nei tessuti e soprattutto nel sangue. Il ferro è necessario in quanto fondamentale componente di emoglobina, mioglobina e delle cromoproteine a livello cellulare, quali citocromi e proteine coinvolte nella catena di trasporto degli elettroni nel mitocondrio. Riguardo la quantità, esiste una differenza legata al sesso: negli uomini la quota totale di ferro è 4-5 g, nella donna 3-4 g, a causa anche della ridotta emoglobina.
Il primo importante tessuto coinvolto nella via del metabolismo del ferro è l’intestino, il duodeno nello specifico, in cui avviene il regolato assorbimento del Fe della dieta. Ogni giorno sono introdotti circa 1-2 mg di Fe attraverso la dieta. Dopo l’assorbimento a livello intestinale, il Fe viene trasferito al sangue immediatamente, da cui giunge agli organi maggiormente coinvolti nel suo utilizzo, cioè quelli che richiedono elevate quantità di ferro per la sintesi di cromoproteine. Sono quindi i muscoli, che lo captano per la produzione di mioglobina e il midollo dove è utilizzato in grandissime quantità per la sintesi degli eritrociti. Viene accumulato e immagazzinato nel fegato, organo specializzato in cui se ne ritrovano grandi quantità, ed anche nelle cellule responsabili del sistema reticolo-endoteliale, quindi nella milza e nei macrofagi, che accumulano e evitano la perdita del Fe derivante dal riciclo e dalla rimozione di cellule senescenti, in particolare eritrociti, dal circolo sanguigno.
Il metabolismo del ferro non presenza meccanismi controllabili di eliminazione del ferro, perciò le piccole quantità di ferro che ogni giorno vengono perse sono legate a eventi di desquamazione, come la perdita di cellule delle mucose, o eventi di perdita di sangue, come il ciclo mestruale nella donna, che consentono una riduzione di una minima quantità di ferro quotidiano. Le quantità introdotte e perse giornalmente sono simili (1-2mg), pertanto vi è un equilibrio tra ferro giornalmente introdotto e ferro perso attraverso tali meccanismi non controllati.
Perché è necessario un sistema di controllo delle quantità del ferro nel nostro organismo?
È necessario un sistema di controllo delle quantità di Fe presenti nel nostro organismo, perché, se non correttamente gestito, il ferro può generare grandi danni a livello cellulare. Il ferro reagisce nella reazione di Fenton con il perossido di idrogeno, generando radicali liberi dell’ossigeno molto tossici per la cellula.
Fe2+ + H2O2–> OH- + OH.+Fe3+
I ROS si generano fisiologicamente nel nostro metabolismo, di cui costituiscono un prodotto di scarto e i cui livelli sono tenuti sotto controllo da sofisticati sistemi antiossidanti. Una normale quantità di ferro non causa problemi, perché genera una quantità esigua di ROS. Se tuttavia si accumula ferro in forma libera, questo viene esposto ed è in grado di interagire col perossido di idrogeno; i ROS generati dalla reazione, che i sistemi di tamponamento di radicali non riescono più a neutralizzare, possono colpire tutte le principali strutture cellulari e comportare danni anche nel DNA, con conseguenti danni a livello genomico, perossidazione dei lipidi di membrana, con alterazioni di permeabilità e funzionalità delle membrane cellulari stesse, e alterazioni in generale a carico di proteine e altre strutture e organuli cellulari, come ad esempio nei mitocondri.
Dati i danni che il ferro se accumulato può causare a livello cellulare, è evidente che difficilmente il ferro può trovarsi in forma libera nel nostro organismo. Vi sono quindi proteine coinvolte specificatamente nel mantenimento dei livelli di ferro, a livello cellulare e tissutale, ma anche nel sangue, per evitare l’accumulo e la presenza di Fe libero, che scateni queste reazioni dannose.
Le proteine, di tutti i protagonisti coinvolti nel metabolismo del Fe, sono il principale bersaglio dei test clinici usati in laboratorio per valutare funzionalità e salute del metabolismo del Fe nei pazienti.
Cos è la ferroptosi?
I danni del ferro, inoltre, possono comportare anche lo sviluppo di un particolare processo di morte cellulare chiamato ferroptosi, scoperto negli ultimi anni. Fino a qualche anno fa le morti cellulari conosciute erano la necrosi e l’apoptosi, ma in seguito sono stati definiti altri meccanismi di morte cellulare, quali la necroptosi, piroptosi e infine la ferroptosi, la cui scoperta risale al 2012.
La ferroptosi ha caratteristiche uniche rispetto alle altre forme di morte cellulare: principalmente l’eccessivo quantitativo di ferro determina un accumulo di perossidazioni lipidiche, con danneggiamento alle membrane, che porta poi alla morte della cellula con un evento ultimo ancora non conosciuto. Il processo di morte è difficilmente evidenziabile, perché la cellula in questo caso non subisce modifiche evidenziabili, come avviene ad esempio nell’apoptosi con il rimodellamento della cromatina. Le caratteristiche morfologiche più evidenti della ferroptosi sono i mitocondri rimpiccioliti, l’aumento della densità della membrana, la degenerazione e rottura delle creste e la rottura della membrana mitocondriale esterna.
I meccanismi che regolano questo processo sono stati evidenziati grazie ad un gruppo di ricerca americano che testava specifiche molecole su una linea di cellule leucemiche. Venne evidenziata così una molecola, denominata erastina, che uccideva le cellule leucemiche ma non le cellule wild type. L’erastina ha la funzione di inibire un trasportatore di membrana che permette lo scambio tra cisteina e glutammato, in particolare con la cisteina che entra nella cellula mentre il glutammato viene riversato all’esterno. L’ingresso della cisteina è fondamentale nella cellula, perché essa è uno dei principali substrati per la sintesi del glutatione, importante antiossidante. La conseguente impossibilità di sintesi del glutatione da parte delle cellule comportava gravi danni ossidativi, a causa della mancata capacità di neutralizzare i radicali liberi generati dal ferro nelle cellule; ne conseguivano danneggiamento delle membrane e dei mitocondri, e morte della cellula per ferroptosi.
Un marcatore di questo processo è l’enzima glutatione perossidasi 4, importante nella sintesi del GSH, fondamentale per valutare l’attivazione nei tessuti del meccanismo di ferroptosi, evidenziabile dal decremento dei livelli enzimatici di GPX4.
Qual è la rilevanza clinica che il meccanismo di ferroptosi sta assumendo come target terapeutico?
La ferroptosi sta assumendo grande rilevanza in ambito clinico, in particolare in oncologia e cardiologia.
La ricerca in ambito oncologico attualmente sta valutando la possibilità di aggiungere all’utilizzo di chemioterapici dei farmaci che attivino il meccanismo di ferroptosi nelle cellule tumorali che, dato il loro accelerato metabolismo, potrebbero risultare più sensibili a questi farmaci rispetto alle cellule sane. Molti gruppi di ricerca si stanno occupando dell’individuazione e sintesi chimica di nuovi inibitori che attivino la ferroptosi andando ad agire proprio sul trasportatore di amminoacidi cisteina-glutammato. L’idea è quella di utilizzare questi farmaci in associazione ai chemioterapici soprattutto nei pazienti in cui si ha una forte resistenza a questi ultimi.
L’altro campo di applicazione clinica è l’ambito cardiologico, in particolare per il possibile ruolo della ferroptosi come meccanismo patogenetico alla base dello sviluppo di numerose CVD. In particolare, in condizioni infiammatorie come l’aterosclerosi, o nell’infarto del miocardio, è probabile che un accumulo di ferro, dovuto ai meccanismi di necrosi e all’accumulo di proteine, determini meccanismi di morte cellulare tramite ferroptosi. Pertanto, l’inibizione della ferroptosi può essere una nuova strategia per il trattamento delle patologie coronariche.
Come avviene l’assorbimento del ferro?
Il ferro introdotto con la dieta fa il suo ingresso a livello intestinale; viene assorbito a livello degli enterociti del duodeno, dove viene importato attraverso un trasportatore specifico, il DMT-1, il trasportatore di metalli bivalenti, presente particolarmente negli enterociti. Questo trasportatore è quasi certamente la principale proteina responsabile dell’ingresso di Fe negli enterociti, dove entra sotto forma di ione ferro o sotto forma di eme; la carne rappresenta la principale fonte nella dieta di eme, quindi, a livello degli enterociti, è verosimile che vi siano importatori di eme derivati dalla dieta, su cui sono attive diverse ricerche. Si ritiene possano essere più di uno, di cui il più importante è l’HCP-1, importatore di eme a livello delle cellule e degli enterociti.
La quota di ferro legata all’eme è di fondamentale importanza, poiché rappresenta i 2/3 del ferro che assumiamo giornalmente. Nella cellula intestinale, il gruppo eme diviene substrato dell’eme ossigenasi, che lo converte in bilirubina e ferro. Il ferro viene quindi recuperato e utilizzato a livello cellulare.
Gli enterociti, come tutte le cellule del nostro organismo, possono utilizzarne una piccola parte per le loro funzioni cellulari, oppure possono immagazzinarlo a livello intracellulare, ma per lo più lo riversano immediatamente nel torrente circolatorio mediante un esportatore, la proteina ferroportina, che ha la capacità di riversare il contenuto intracellulare di ferro nell’ambiente extracellulare.
Come avviene il trasporto in circolo del ferro?
In circolo il ferro, per evitare che si accumuli in forma libera, viene legato immediatamente dalla proteina transferrina, specializzata nel trasporto del ferro. L’apotransferrina è la proteina che circola libera dal ferro, l’olotransferrina quando è satura di Fe. Il ferro introdotto con la dieta è Fe2+, ma quando riversato in circolo dagli enterociti subisce un processo di conversione immediata in Fe3+, che è l’unica forma che può legare la transferrina. Scopo della transferrina è impedire che il ferro sia presente in forma libera nel sangue, ma anche veicolarlo e trasportarlo verso gli organi che necessitano di Fe (tutte le cellule in realtà, e non solo gli organi specializzati nell’utilizzo e accumulo di ferro, anche se in piccolissima quantità, necessitano di ferro, quindi seppur la captazione della transferrina è preponderante nei siti in cui si utilizzano grandi quantità di ferro, è anche un meccanismo fisiologico, che tutte le cellule utilizzano per acquisire piccole quantità di ferro dal sangue). Il ferro è trasportato a livello midollare per la sintesi di eritrociti e nei muscoli per la sintesi della mioglobina. I siti di accumulo e deposizione sono il fegato e il midollo osseo dove i macrofagi associati alle isole eritrocitarie lo immagazzinano, essendo parte dei sistema reticolo-endoteliale.
Come avviene l’uptake di ferro?
Per permettere un uptake, una corretta captazione del ferro legato alla transferrina, a livello cellulare e tissutale, le cellule hanno recettori, specifici per il riconoscimento e il legame di transferrina circolante. Sono vari i recettori per la transferrina, tra cui il più importante è il TFR di tipo 1, anche definito CD71, presente su tutte le cellule del corpo, ma in grande quantità nelle cellule specializzate nell’utilizzo del ferro, quali cellule muscolari, progenitori eritroidi, macrofagi del sistema reticolo-endoteliale, e così via. Guardando all’eritropoiesi, si nota che il recettore è poco espresso nelle cellule staminali e nei primi progenitori eritroidi, per poi, nelle fasi di maturazione degli eritroblasti, avere un incremento nella sintesi e nell’esposizione del recettore, processo fondamentale per l’acquisizione di Fe e la sintesi dell’Hb, e quindi per consentire l’eritropoiesi.
È interessante che una volta maturo l’eritrocita, si riduce la quantità di recettore, per via della mancata necessità di ingresso di Fe e di sintesi di Hb. Nello studio dell’eritropoiesi CD71 è fondamentale per riconoscere tutti i differenti stadi di maturazione.
A seguito del riconoscimento e legame sulla superficie cellulare tra olotransferrina e recettore, che lega principalmente l’olotransferrina, la transferrina satura di ferro, l’intero complesso costituito da ferro, recettore e transferrina, è inglobato nel citoplasma grazie alla formazione, mediata dalla clatrina, di endosomi, vescicole in cui sono contenuti enzimi specifici. Lo scopo del processo è favorire il distacco del Fe dalla transferrina, cioè il passaggio del Fe dagli endosomi nel citoplasma, con conseguente riciclo di recettore, nuovamente esposto in membrana, e di transferrina, riversata in circolo sanguigno per tornare a legare fisiologicamente il ferro. Quando il complesso entra nelle cellule, tramite gli endosomi, una ferro-reduttasi, la STEAP3, presente nelle vescicole, riduce il ferro nuovamente da Fe3+ a Fe2+, comportandone il distacco dalla transferrina, quindi lo stesso trasportatore per il ferro degli enterociti, il DMT-1 è responsabile della fuoriuscita del ferro dagli endosomi verso il citoplasma.
Cosa accade al ferro a seguito del suo ingresso nella cellula?
Il ferro nel citoplasma cellulare entra nel cosiddetto “pull labile” di ferro intracellulare, termine con cui si intende la piccola quota di ferro cellulare immediatamente destinato però all’utilizzo o all’immagazzinamento. In questi processi sono coinvolte altre proteine specializzate nel metabolismo del ferro.
La ferritina è la proteina che garantisce la possibilità per le cellule di immagazzinare ferro al loro interno; questa diviene una sorta di scudo per il ferro, impedendone così le caratteristiche tossiche, quindi la possibilità che reagisca col perossido di idrogeno per creare danni a livello cellulare, costituendo il più importante sistema di stoccaggio del ferro in condizione cellulare.
La ferritina riceve il ferro attraverso una proteina chaperon PCBP1, ma nell’interazione tra ferro e ferritina intervengono anche altre proteine, come stato recentemente scoperto, come NCOA4, co-recettore nucleare che mantiene l’omeostasi del ferro intracellulare facilitando l’immagazzinamento o il rilascio di ferritina in base alla domanda. La proteina Nuclear Receptor Coactivator 4 (NCOA4) è il cargo che dirige la ferritina agli autofagosomi per la degradazione, necessaria quando il ferro deve essere utilizzato dalla cellula, specie in condizioni di deficit. Nel processo, definito ferritinofagia, la proteina contenente il ferro viene inglobata nei fagosomi, che si fondono con i lisosomi, consentendo la liberazione del ferro e la sua immissione nel citoplasma per poter essere utilizzato.
Nelle cellule il ferro viene usato per cromoproteine, specie a livello mitocondriale per la sintesi di cluster Fe-S e proteine coinvolte nella catena di trasporto degli elettroni. Nei progenitori eritroidi il ferro labile è indirizzato alla sintesi di Hb. Se le cellule non devono utilizzarlo o sono in condizioni di eccesso di ferro, le cellule possono riversarlo nuovamente all’esterno tramite la ferroportina, lo stesso esportatore usato dagli enterociti.
Come avviene nel nostro organismo il controllo della disponibilità di ferro?
La ferroportina è uno dei più importanti meccanismi attraverso cui il nostro organismo controlla la disponibilità e i livelli di Fe nel sangue e nei tessuti. Si trova su diversi tipi cellulari, ma nelle cellule specializzate nel metabolismo del ferro (enterociti duodenali, macrofagi, epatociti) i suoi livelli sono notevoli, in quanto deve garantire il riversamento di ferro nell’ambiente extracellulare. Quando il ferro lascia le cellule, come avviene a livello degli enterociti, ma anche in quelle che lo hanno assunto dall’esterno o che lo reimmettono in circolo dai depositi di ferritina, deve essere nuovamente ossidato a Fe3+ da una ferro-perossidasi di membrana detta efestina, in modo che il ferro possa legarsi nuovamente alla transferrina plasmatica. Questi meccanismi biochimici e cellulari sono alla base del controllo di utilizzo e ricircolo del ferro, che avviene ogni giorno.
Una delle caratteristiche del metabolismo del ferro è il fatto che non esista un meccanismo di eliminazione, elemento che per molto tempo ha impedito di comprendere a pieno come fosse possibile per l’organismo controllare realmente la tossicità del ferro. L’unica forma di eliminazione conosciuta era rappresentata dalla desquamazione epiteliale o perdite di sangue. Soltanto negli ultimi anni diverse scoperte hanno consentito una rivoluzione di questo campo e una migliore comprensione dei meccanismi di controllo nella disponibilità del ferro; le stesse proteine finora considerate sono state recentemente scoperte.
Importante è stata la scoperta dell’epcidina, ormone peptidico, che rappresenta l’unico meccanismo di controllo, finora conosciuto, che regola in modo negativo l’attività e l’esposizione della ferroportina, quindi dell’esportatore di ferro; l’epcidina rappresenta con questo meccanismo uno dei più improntanti ormoni di controllo dell’omeostasi del Fe a livello dell’organismo.
L’epcidina è prodotta dal fegato e una volta riversata in circolo regola la presenza sulla superficie cellulare di questo esportatore a livello intestinale, del sistema reticolo-endoteliale, nella milza e soprattutto nel midollo. Quando prodotta e rilasciata l’epcidina agisce attraverso due meccanismi differenti:
- downregola i livelli di esposizione e l’espressione degli esportatori, determinando l’impossibilità per diversi organi di mettere nuovamente in circolo il ferro immagazzinato; questo meccanismo è preponderante:
– a livello di macrofagi del sistema reticolo-endoteliale, che immagazzinano ferro per il controllo di diverse attività cellulari
– a livello midollare e nei macrofagi del sistema reticolo-endoteliale associati alle isole eritrocitarie nel midollo; le recenti scoperte indicano che il ferro liberto da tali macrofagi in questo distretto viene fornito ai progenitori eritroidi
- nel duodeno, quindi negli enterociti, sembra agire più che sulla ferroportina, l’esportatore, sulla downregolazione dell’importatore, DMT-1, in modo che il suo rilascio rallenti e blocchi l’assunzione di ferro dalla dieta
L’epcidina è stata identificata solamente nel 2001 e ha comportato numerosi studi, nel tentativo di comprenderne la funzione nel metabolismo del ferro e valutarne possibili risvolti clinici, legati alla valutazioni del metabolismo, ma anche a condizioni patologiche che coinvolgono il ferro.
A seguito della sua scoperta, l’intensa attività di ricerca sull’ormone ha portato all’identificazione di un complesso sistema di controllo per ciò che riguarda la sintesi e il rilascio di epcidina a livello epatico. Il sistema è controllato principalmente a tre livelli:
- Status dei livelli di ferro, cioè la quantità di ferro presente nell’organismo: l’olotransferrina che lega i recettori per la transferrina sulla superficie degli epatociti può attivare un particolare complesso di recettori per favorire la sintesi di epcidina (pathway BMP-SMAD). Il fatto che l’epcidina sia upregolata da alti livelli di ferro e venga invece bloccata nella sintesi epatica nelle condizioni di ridotta disponibilità di ferro, implica che un dosaggio dell’epcidina consentirebbe di comprendere rapidamente se nel paziente vi è sovraccarico o deficit di ferro
- Controllo da parte di ipossia e stato di attività dell’eritropoiesi: il controllo da parte dell’eritropoiesi midollare avviene attraverso uno specifico ormone, l’eritroferrone (ERFE), prodotto durante l’eritropoiesi. Esso rappresenta un sistema di connessione tra eritropoiesi midollare e il controllo della disponibilità di Fe nell’intero organismo, bloccando e riducendo la sintesi epatica di epcidina. Non è chiaro come avvenga il riconoscimento di questa proteina negli epatociti.
- Infiammazione: l’attivazione negli stati di infiammazione può essere invece dovuta a sintesi e rilascio di alcune citochine, ad esempio l’IL-6, che poi attraverso recettori specifici negli epatociti (asse di segnalazione IL-6/JAK/STAT) sono in grado di attivare, anche attraverso vie diverse, la trascrizione genetica e la sintesi di epcidina. Un altro meccanismo coinvolge il fattore solubile BMP6 (Bone Morphogenetic Protein 6), che attraverso una diversa via sembra modulare la sintesi e il rilascio di epcidina in maniera costitutiva, quindi è importante fisiologicamente. Nell’emocromatosi le 4 mutazioni più importanti ereditate colpiscono proprio questo pathway.
In generale comunque, mutazioni alla base delle condizioni genetiche di emocromatosi coinvolgono geni che codificano per recettori e co-recettori importanti per attivare la sintesi e il rilascio di epcidina a livello epatico.
Come si caratterizza il saggio di dosaggio dell’epcidina per la valutazione del metabolismo del ferro?
Dal punto di vista clinico uno degli obiettivi negli ultimi anni, derivati dalle conoscenze sul metabolismo del ferro, è stato cercare di mettere a punto sistemi in grado di quantificare l’epcidina in circolo, in modo da avere informazioni sullo stato del metabolismo del ferro nel paziente. I principali studi sull’epcidina si sono rivolti alla caratterizzazione di quantità in circolo e nelle urine, nonché la valutazione delle eventuali isoforme.
Nel siero si trova la forma integra di 25 amminoacidi; nelle urine invece si trovano ulteriori forme frammentate e tronche di circa 20-22 amminoacidi, in cui sono rimossi alcuni amminoacidi, che derivano probabilmente dall’attività di alcune proteasi in circolo, che portano a una digestione dell’ormone. Dal punto di vista biochimico si è individuato anche il trasportatore in circolo dell’epcidina, che, una volta rilasciata dal fegato, in circolo non è libera ma ha nella α2-macroglobulina il principale trasportatore plasmatico. Delle forme presenti nelle varie matrici, solo la forma full length (25 aa) ha attività biologica, come dimostrato in modelli murini, in cui riduce la concentrazione di ferro in circolo solo se iniettata in forma integra.
L’elaborazione di un saggio che potesse quantificare l’epcidina non ha portato a risultati troppo positivi a causa di difficoltà tecniche importanti. Uno dei problemi è dovuto al fatto che l’epcidina è un ormone molto piccolo, che circola in forma compatta, che impedisce l’esposizione di molti epitopi nella sua sequenza amminoacidica; ciò ha impedito la produzione di anticorpi efficaci contro questo peptide. Inoltre la sua sequenza e struttura è molto conservata tra le differenti specie, con conseguenze quindi nel tentativo di generare degli anticorpi, utilizzando sequenze antigeniche di queste proteine per indurre una risposta immunitaria negli animali, con lo scopo di produrre grandi quantità di anticorpi. Come risultato, negli ultimi anni sono stati prodotti pochi anticorpi su questa proteina con difficoltà nella standardizzazione, che non consentono di trasferire il dosaggio dell’epcidina dalla fase di sviluppo alla clinica. Inoltre in circolo l’epcidina non è presente in forma libera, ma sempre legata alla α2-macroglobulina, considerazione importante per i dosaggi, come anche la presenza di isoforme tronche, che possono interferire con il saggio immunogenico, impedendo la quantificazione della sola forma con l’intera sequenza amminoacidica e con attività biologica. Diversi metodi sono state sviluppati nel tentativo di mettere a punto un saggio di dosaggio per l’epcidina, molti dei quali basati su tecniche di cromatografia e spettrometria di massa, difficili però da trasferire in ambito clinico, sia per i costi che per le tempistiche. Altri cercano di sviluppare saggi ELISA e radio immuno assay, che sfruttano traccianti radioattivi per quantificare nel sangue l’ormone.
Qual è il pannello di test attualmente utilizzati per la valutazione del metabolismo del ferro?
Per valutare il ferro in realtà si fa riferimento ai metodi di laboratorio sviluppati in precedenza che comunque danno informazioni sul metabolismo del ferro e sulle quantità di ferro nell’organismo. Si tratta di una serie di test, generalmente effettuati insieme, per avere un quadro completo su diverse caratteristiche del ferro, quali:
- la disponibilità di ferro, la quantità di ferro immagazzinata nell’organismo (iron stores)
- tipo di trasporto nel nostro organismo (transport iron)
Indicazioni funzionali, cioè informazioni sulla quantità di - ferro effettivamente disponibile per i nostri tessuti (functional iron)
Questi test sono:
- Sideremia, la quantificazione del ferro totale nel siero del paziente
- TIBC
- Saturazione della transferrina
- Ferritina
Sono contraddistinti per il fatto di essere due gruppi di test differenti: ferritina e transferrina sono basati su proteine e vengono dosate nel siero utilizzando saggi immunoenzimatici; TIBC e sideremia sono quantificazioni chimiche, che quindi si avvalgono di strumenti diversi, cioè analizzatori chimici, che non utilizzano anticorpi, ma reazioni colorimetriche che si basano su letture allo spettrofotometro per l’esito del saggio.
Come avviene l’analisi della sideremia?
Il primo test è la sideremia che dà indicazioni circa il ferro totale presente nel siero. Dal punto di vista intuitivo potrebbe basarsi l’analisi del metabolismo del ferro sulla quantificazione solamente di questo parametro. Il problema però è che non dà, da solo, informazioni valide o complete sui livelli di ferro nell’organismo in quanto:
- è presente variabilità nei livelli del ferro nel siero, anche solo a livello giornaliero (ad esempio per via dell’influenza della dieta)
- il metodo è invasivo, richiede diverse fasi nel dosaggio e quindi soffre di una certa variabilità dal punto di vista del metodo
La sideremia è usata anche per valutare altri parametri, ad esempio malattie del rene, gravidanza e altre. Viene espressa in μg/dL e in un soggetto sano i valori di riferimento si attestano a 60-150 μg/dL.
È una metodica laboriosa in quanto in un campione di siero il ferro presente è quello legato alla transferrina; il siero ottenuto dal campione, dopo essere stato purificato va quindi trattato con agenti che spiazzino il legame tra ferro e proteina di trasporto, affinché il ferro, reso disponibile, possa essere quantificato nei sistemi di quantificazione. Ciò viene fatto mediante un acido che consente il distacco del Fe dalla transferrina e poi la sua riduzione da Fe3+ a Fe2+. A questo punto può avvenire la reazione di quantificazione del ferro mediante un agente cromogeno, in particolare il reagente FerroZine (nome commerciale). Tale composto può legare il Fe e quindi subire una modificazione nella colorazione che può essere quantificata mediante una lettura allo spettrofotometro a una lunghezza d’onda di 565 nm. Questo è il sistema con cui, attraverso l’uso di controlli positivi e standard interni, è possibile arrivare alla quantificazione di sideremia nel campione di siero.