Tecniche di laboratorio Flashcards
Quali sono i principali campi di analisi in medicina di laboratorio e loro applicazioni?
Nella medicina di laboratorio si distinguono due principali campi di analisi: uno riguarda l’enzimologia, l’altro le proteine.
Sono applicati non solamente in clinica, ma anche e soprattutto nella ricerca, la quale pone le basi per un miglioramento di tutta la medicina in generale.
Come vengono valutati in laboratorio gli enzimi e quali sono le principali differenze rispetto alla quantificazione delle altre proteine?
La quantificazione e valutazione degli enzimi rappresenta una grande fetta delle misurazioni svolte in un laboratorio.
L’enzima è una proteina attiva, che svolge un’azione nel tempo; il tempo, quindi, rappresenta una variabile fondamentale per misurare l’attività enzimatica. Per quantificare una proteina si utilizzano metodi che riguardano il calcolo della massa proteica, mentre per quantificare un enzima sono sfruttati diversi sistemi che valutano il suo lavoro in base al tempo, concentrazione di substrato, pH, temperatura, equilibrio di reazione, ecc.
Per monitorare l’attività enzimatica si utilizza la spettrofotometria, una delle tecniche biochimiche di base, che ha rivoluzionato il mondo della medicina.
Cos’è la spettrofotometria?
La spettrofotometria è una tecnica che consente di dosare un analita in una sospensione, lavorando all’interno dello spettro della luce visibile, o nel caso della spettrometria UV-vis anche dell’ultravioletto. Sfrutta la capacità di alcune molecole di assorbire la luce, proprietà garantita dalle caratteristiche strutturali di una determinata molecola, dai legami chimici, dalla sua particolare conformazione, e dai livelli energetici quindi associati alla natura di quella molecola.
A cosa si deve l’utilizzo della spettrofotometria?
L’utilizzo della spettrofotometria si deve ad una ricerca sperimentale statunitense del 1930 circa, che, dopo aver scoperto che la vitamina A era in grado di assorbire luce ultravioletta, si era prefissata lo scopo di quantificare, attraverso quello che è stato uno dei primi spettrofotometri, la vitamina A nei pasti distribuiti ai soldati. Essa è culminata nel lancio commerciale degli spettrofotometri UV-Vis all’inizio degli anni ’40, tra cui lo spettrofotometro Beckman DU si è distinto, fornendo risultati più accurati e riducendo enormemente il tempo di analisi.
Oggigiorno è uno strumento riscontrabile in qualunque laboratorio analisi; ad esempio, l’emoglobina viene quantificata da un modello simile di spettrofotometro, sebbene più moderno.
Qual’è la composizione di uno spettrofotometro e su che principi si basa l’analisi? Che tipo di informazioni si ottengono?
Nello spettrofotometro una sorgente di luce colpisce la cuvetta contenente il campione con l’analita che si vuole analizzare; quest’ultimo è in grado di assorbire la luce grazie alle sue proprietà. Dall’altra parte dello strumento un sistema di rilevazione è capace di determinare la quantità di fotoni non passati, e quindi sostanzialmente la quantità di luce assorbita dal campione.
Un monocromatore nel sistema, un prisma che si comporta come un filtro, permette il passaggio di una sola lunghezza d’onda desiderata, scindendo la luce nelle sue lunghezze d’onda costituenti e selezionando la λ d’interesse mediante una fenditura successiva; in questo modo consente di non valutare tutto lo spettro della luce visibile e studiare una determinata molecola ad una prestabilita lunghezza d’onda. Ogni molecola ha precisi livelli energetici associati alla propria natura e legami chimici, perciò assorbirà la luce di λ specifica fornendo spettri di assorbimento unici.
La legge fondamentale di Lambert-Beer stabilisce che se si mantiene costante il percorso di un fascio di luce ad una determinata lunghezza d’onda, l’assorbanza dell’analita risulta direttamente proporzionale alla sua concentrazione; quindi, più analita è presente nel campione, maggiore sarà la sua assorbanza di luce.
In questa legge bisogna tenere conto di due variabili:
il cammino ottico, cioè la distanza che deve percorrere il fascio di luce all’interno del campione
il coefficiente di estinzione molare, un numero che definisce il comportamento dell’analita a determinate condizioni e varia in relazione alle condizioni di temperatura e solvente, con la natura chimica del composto o con la lunghezza d’onda λ
Lo spettrofotometro consente di ottenere quindi misure qualitative e quantitative.
Come viene resa quantitativa l’analisi spettrofotometrica?
Per rendere quantitativa l’analisi spettrometrica è fondamentale avere uno standard. Spesso infatti non si può essere certi delle condizioni di proporzionalità diretta (linearità) tra assorbanza e concentrazione, ed è quindi preferibile utilizzare un metodo più sicuro, anche grafico.
Viene costruita, quindi, una curva di taratura, definita anche curva standard, sottoponendo ad assorbimento di radiazione specifica un certo numero di soluzioni a concentrazione nota e scalare dello stesso analita che si vuole quantificare. Si procede quindi con la costruzione di un grafico di riferimento, con i valori delle concentrazioni posti in ascisse e quelli degli assorbimenti in ordinate. Se la sostanza in esame segue la legge di Lambert-Beer, la curva che si ottiene è una retta. Ottenuta la retta, essa viene utilizzata per soluzioni di qualsiasi concentrazione, purché comprese nell’intervallo in cui la curva è stata tracciata. In questo modo si può comprendere la variazione di assorbanza relativa alle variazioni di concentrazione e, interpolando l’assorbanza della soluzione di interesse con la curva standard sarà possibile definire la concentrazione dell’analita in soluzione.
Consideriamo un esempio pratico: per la valutazione della concentrazione di creatinchinasi in un campione, ipotizzando che generi a 450 nm il picco di assorbanza, si confronta il valore di assorbanza ottenuto con una curva standard, ottenuta da una serie misurazioni a concentrazione nota di una preparazione pura di creatinchinasi; interpolando il valore del picco di assorbanza trovato con la curva standard sarà possibile definire la concentrazione di creatinchinasi nel siero.
Come la spettrofotometria viene sfruttata per la valutazione dell’attività enzimatica?
Per la quantificazione dell’attività enzimatica di un enzima non è possibile sfruttarne lo spettro di assorbimento, che risulta uguale per tutte le proteine e consente di avere informazioni solamente sulla concentrazione e quindi sulla massa. Per questi motivi, vengono sfruttate reazioni con molecole che hanno uno spettro unico, con un buon picco di assorbanza, come clorofilla o NAD; nel 1974, per esempio, Bergmeyer scoprì che la quantificazione delle reazioni enzimatiche che coinvolgono NADP poteva sfruttare la proprietà della forma ridotta, NADPH, di assorbire la luce a una lunghezza d’onda di 340 nm.
In che modo il dosaggio diretto dell’attività enzimatica mediante spettrofotometria sfrutta la presenza di specifici cofattori?
Consideriamo il dosaggio diretto della attività enzimatica della lattato deidrogenasi LDH. La lattato deidrogenasi catalizza la reazione reversibile di ossidazione del lattato a piruvato, con formazione di una molecola di NAD ridotto. L’attività enzimatica della lattato deidrogenasi può essere valutata monitorando il cambiamento dell’assorbanza a 340 nm del cofattore; il cambiamento di assorbanza in relazione al tempo è direttamente proporzionale all’attività dell’LDH quando il NAD+ è convertito in NADH.
In che modo il dosaggio diretto dell’attività enzimatica mediante spettrofotometria sfrutta specifici substrati enzimatici?
Inoltre, nel dosaggio diretto l’attività enzimatica può essere definita utilizzando specifici substrati enzimatici, basandosi sulla cinetica di reazione, in relazione alla velocità di comparsa di un prodotto, rilevabile mediante spettrofotometro.
La γ-glutamil transferasi (GGT, anche detta γ-glutamil transpeptidasi) è un enzima coinvolto nel trasferimento del gruppo gamma-glutamilico da un peptide all’altro. È un enzima utile nella valutazione della funzionalità epatica, usato nella rilevazione di fenomeni di colestasi.
Per la quantificazione dell’attività enzimatica della γ-GT può essere utilizzato il substrato γ-glutamil-4-nitroanilide, scisso in 4-nitroanilina, facilmente misurabile spettrofotometricamente; il tasso di formazione del 4-nitroanilina è proporzionale alla concentrazione catalitica di γ-GT presente nel campione di siero del paziente. Il metodo è stato introdotto intorno agli anni ’70 da Szasz; fino ad allora, le procedure di analisi non solo erano più macchinose da eseguire, ma non consentivano il monitoraggio della reazione. Il dosaggio invece è in questo modo semplice, ben caratterizzato, ed è quindi ancora in uso circa 30 anni dopo la sua introduzione.
Come si procede alla valutazione spettrofotometrica dell’attività enzimatica mediante dosaggio accoppiato?
Se nella reazione enzimatica non compaiono molecole con diverse proprietà di assorbimento della luce, l’attività enzimatica può essere definita mediante un dosaggio accoppiato, cioè accoppiando la reazione con altre che possono, invece, essere seguite spettroscopicamente.
Per esempio, la cretinchinasi catalizza la fosforilazione della creatina a fosfocreatina, con rilascio di ADP, nonché la reazione inversa con formazione di ATP da ADP. La reazione non utilizza NAD, per cui può essere allestito un saggio che consenta di ottenere una sequenza di reazioni enzimatiche, che culmineranno a loro volta in una reazione enzimatica che utilizzerà NAD+ o NADP+, per andare successivamente a valutare il NADH o il NADPH.
In tal caso, l’ATP generato viene utilizzato per permettere che si verifichi un’altra reazione, catalizzata dall’esochinasi: aggiungendo glucosio, l’esochinasi utilizzerà lo stesso ATP ricavato dall’azione della cretinchinasi, per produrre glucosio-6-fosfato. Questo prodotto verrà ulteriormente convertito in 6-fosfogluconato, grazie all’introduzione nel campione dell’enzima glucosio-6-fosfato-deidrogenasi, che utilizza come coenzima l’NADP+. La misurazione spettrofotometrica dell’NADPH consente di ottenere informazioni sull’attività della creatinchinasi.
Come viene espressa nei referti l’attività enzimatica?
L’attività enzimatica è un riflesso di quanto rapidamente procede una reazione in presenza di un enzima. Maggiore è il quantitativo di enzima, più rapida sarà la reazione; minore è il quantitativo di enzima, più lenta sarà la reazione. L’attività enzimatica viene espressa nei referti in unità enzimatica (U), nota anche come Unità Internazionale.
Una U viene definita come la quantità di un enzima che catalizza la conversione di 1 μmole di substrato in un minuto alla temperatura di 25 °C e ai valori di pH e di concentrazione di substrato tali da sviluppare la massima velocità di conversione del substrato stesso. Questo rappresenta quindi il metodo con cui è stata standardizzata la misurazione dell’attività enzimatica a livello internazionale; in alternativa è possibile utilizzare anche semplicemente μmol/min per indicare l’attività di un enzima nel provocare la trasformazione di una μmole di substrato nell’unità di tempo.
Poiché il minuto non è un’unità del SI, il suo uso è stato scoraggiato in favore del katal, la quantità di un enzima che converte 1 mole di substrato in un secondo, quindi esprimibile anche come mol/sec.
Perché è importante ridurre la variabilità tra i metodi di misurazione nei test di laboratorio? Come viene fatto ciò in generale e nel caso della quantificazione dell’attività enzimatica?
I risultati dei test di medicina di laboratorio influenzano un’alta percentuale di tutte le decisioni cliniche ed è quindi fondamentale ridurre la variabilità tra i metodi di misurazione. La produzione e l’adozione di materiali e metodi di riferimento sono fattori determinanti per risultati di misurazione ripetibili, e comparabili, nonché affidabili per i pazienti.
Nel caso dell’analisi dell’attività enzimatica, mediante lo studio del comportamento di forme ultra-pure e controllate, gli standard (materiali di riferimento), è stato possibile definire l’attività degli enzimi a concentrazioni crescenti, ottenendo valori riconducibili alle procedure di riferimento e quindi accurati.
L’importanza relativa al controllo della analisi di laboratorio si comprende dal fatto che gli standard non vengono generati dal laboratorio o dall’ospedale, bensì dalle agenzie governative, le quali, appunto, forniscono a tutto il mondo materiali di riferimento primari con i rispettivi valori di riferimento, poi utilizzati nelle analisi dei campioni biologici a scopo clinico.
In che modo si correggono le interferenze d’analisi spettrofotometrica di campioni complessi grazie al blanking?
Dato lo standard di referenza, nella valutazione dell’attività enzimatica nei campioni dei pazienti devono anche essere considerate le possibili variabili che possono interferire con la misurazione quando si ha a che fare con un campione complesso come sangue, plasma, siero.
Per fare un esempio pratico, consideriamo l’utilizzo odierno dello spettrofotometro per misurare la concentrazione di albumina nel sangue.
L’albumina viene fatta reagire con il blu di bromocresolo, un colorante che una volta legata la proteina inizia a generare un cromogeno quantificabile ad una lunghezza d’onda di 628 nm. Il colorante è il tracciante, utilizzato per la sua capacità di interagire in maniera specifica con l’albumina, formando un cromogeno che, mediante la lettura allo spettrofotometro, consente di avere un dato quantitativo del contenuto di albumina nel sangue.
Quando questo tipo di test è entrato in ambito clinico si è riscontrato che probabilmente alcune sostanze possono dare interferenza alla stessa lunghezza d’onda del blu di bromocresolo legato all’albumina; se anche altre sostanze nel campione di sangue assorbono la luce a 628 nm, la loro lettura dell’assorbanza potrebbe essere erroneamente attribuita all’albumina e la concentrazione di albumina risultante sarà sovrastimata.
Per rimuove l’interferenza, in questo caso, si adotta una strategia nota come blanking, termine che descrive una correzione per i costituenti di fondo che contribuiscono direttamente al segnale misurato.
Per correggere queste altre sostanze, il campione in esame può essere letto a 628 nm, prima dell’aggiunta del colorante, in modo da definire un valore iniziale di assorbanza; solo l’ulteriore aumento di assorbanza quando vengono aggiunti i reagenti farà riferimento alla concentrazione di albumina. In questo modo viene, infatti, stabilito un plateau che permette l’esclusione di tutte le molecole che a 628 nm interferiscono con la misurazione. Il blanking quindi consiste quindi nel settare uno strumento in base al campione considerato e leggerlo ad una lunghezza d’onda specifica, al fine di escludere già in un primo momento le eventuali interferenze. Successivamente si procede con l’aggiunta del reagente e si monitora l’ulteriore aumento di assorbanza; quest’ultima, dopo aver eliminato parte delle interferenze, diventa più specifica per il legame del tracciante con la proteina d’interesse.
Talvolta alcune sostanze presenti nel campione reagiscono con i reagenti per produrre prodotti che assorbono la luce alla stessa lunghezza d’onda del prodotto dell’analita. In tal caso, il blanking prima dell’aggiunta del reagente non correggerà le sostanze interferenti poiché il colore non si forma finché non viene aggiunto il reagente. Tuttavia, in molti casi le condizioni di reazione (come il pH della soluzione o la concentrazione di reagenti) possono essere scelti in modo che la sostanza interferente reagisca in un momento diverso rispetto all’analita target; così, definendo una finestra temporale specifica per la valutazione delle reazioni, si potrà analizzare solo l’analita target.
Un esempio dell’utilità di finestre temporali specifiche per la misurazione delle reazioni si riscontra nel metodo di Jaffe per la creatinina per la valutazione della funzionalità renale. In questa reazione la creatinina reagisce con una soluzione di picrato alcalino (il tracciante), per formare un composto giallo-arancio; tuttavia, altri prodotti nel sangue reagiscono con il picrato alcalino, tra cui soprattutto acetoacetato e proteine.
Studiando il comportamento di queste interazioni è stato possibile definire che:
- il tracciante della creatinina reagisce con l’acetoacetato nel giro di pochissimi secondi, circa 20, dopodiché l’interazione si satura
-il tracciante reagisce con le proteine del sangue attraverso un’interazione un po’ più lenta, che avviene dopo circa un minuto dall’aggiunta del tracciante
-la creatinina reagisce con il tracciante dopo i primi 20 secondi
Queste valutazioni hanno permesso di stabilire una finestra temporale che inizia dopo 20 secondi e termina entro il primo minuto, che rifletterà il prodotto formato dalla creatinina, con poca interferenza da parte dell’acetoacetato o delle proteine.
Dall’esempio si comprende quindi l’importanza del tempo: questi test clinici sfruttano la possibilità di monitorare nel tempo il valore di crescita dell’assorbanza, al fine di dare un’idea specifica dell’attività di un enzima, o in questo caso, della concentrazione di una molecola come la creatinina. La quantificazione che ne deriva però può essere fatta avendo a disposizione parallelamente il comportamento dello standard nello stesso arco di tempo.
Si tratta di misurazioni dinamiche che non vengono svolte tuttavia per tutti gli enzimi ma solo per quelle sostanze di cui si conoscono le interferenze. Il caso della creatinina, ad esempio, è stato molto studiato perché si tratta di una sostanza ampiamente utilizzata; proprio per questo si cerca ancora oggi di perfezionarne la quantificazione riducendo il più possibile l’errore. Però per tante altre sostanze questo lavoro di indagine e valutazione dell’effettiva validità e specificità dell’analisi non è ancora stato eseguito.
Come vengono quantificate le proteine in un campione come massa proteica?
La quantificazione delle proteine in un campione, come massa proteica, segue procedure diverse. Per esempio, se si volesse procedere al dosaggio delle troponine, ad esempio per la valutazione del danno cardiaco, non si potranno utilizzare tecniche di spettrofotometria, ma si dovrà fare riferimento ad analisi più accurate, ad esempio mediante l’utilizzo di anticorpi in tecniche di immunochimica.
Cos’è l’immunochimica e quali sono i principali campi di applicazione?
Con il termine immunochimica si identificano metodi analitici, caratterizzati da elevata sensibilità e specificità, che per l’identificazione di una sostanza sfruttano lo specifico legame tra strutture tridimensionali. Queste tecniche prendono il nome di ligand assay e nella maggior parte dei casi sono basate sull’impiego di anticorpi per l’identificazione dell’analita, considerato quindi antigene. La quantificazione dell’analita avviene mediante un tracciante che, in determinate condizioni, permette di rilevare un segnale proporzionale al numero di complessi antigeni-anticorpi che si formano nella reazione.
Questo sistema permette di eseguire diverse analisi, non solo di laboratorio, ma viene ad esempio utilizzato anche in anatomia patologica per le colorazioni istologiche, per visualizzare, mediante reazioni antigene-anticorpo, elementi particolari nel tessuto, come l’espressione di una proteina o la presenza di un marcatore.
In biochimica clinica i campioni generalmente utilizzati sono fluidi: il sangue nelle varie matrici (intero, plasma o siero), urine, liquido cefalo-rachidiano, ecc. In tal caso l’immunochimica viene eseguita in una soluzione contenente l’analita.