Introduzione alla medicina rigenerativa e ai biomateriali Flashcards

1
Q

Cos è la medicina rigenerativa?

A

La medicina rigenerativa è la branca della medicina moderna che si pone come obiettivo il ripristino strutturale e funzionale di organi e tessuti attraverso l’utilizzo di cellule ingegnerizzate e biomateriali, che insieme possano creare dei sostituiti che possano rispondere alle esigenze dei pazienti.
La medicina rigenerativa presenta come obbiettivo, quindi, quello di permetterci di ricreare organi e tessuti di laboratorio che possano un giorno essere utilizzati per andare a sostituire la funzionalità compromessa degli organi dei pazienti e aiutarci quindi a curarli in maniera definitiva. Obiettivo più vicino è utilizzare questi sistemi in laboratorio per aiutarci a studiare il comportamento fisiologico e patologico degli organi del nostro organismo e comprendere come rispondano agli stimoli esterni, ivi compresi i trattamenti farmacologici. Sarebbe una grande possibilità avere tessuti costituiti di cellule dei pazienti trattabili in laboratorio, prima di trattare il paziente in clinica, così da comprendere come lo specchio dell’organo in vivo risponde al trattamento per predire la risposta del paziente.
I biomateriali pertanto costituiscono un elemento della biochimica clinica estremamente rilevante nella cura dei pazienti sia dal punto di vista delle loro applicazioni cliniche, ma anche per l’ambito di ricerca. Numerosi sono i biomateriali disponibili per le applicazioni della medicina rigenerativa, dotati di specifiche caratteristiche, necessarie per poter effettivamente sostenere e controllare la funzionalità delle cellule su di essi coltivate.

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Q

Come si è caratterizzata nel tempo l’applicazione della medicina rigenerativa?

A

L’interesse dell’uomo per la medicina e il corpo umano, per la comprensione della posizione e della struttura di organi e tessuti e delle possibilità di modellarli, affonda le sue radici lontano nella storia, come dimostrano ad esempio i disegni di Vesalio e Leonardo da Vinci, risalenti al 1500 circa, o il celebre dipinto “Lezione di anatomia del Dottor Tulp” di Rembrandt del 1632.
Nel XVII secolo iniziarono a diffondersi i teatri anatomici, sede di dissezioni per lo studio del corpo umano; anche a Pavia era presente un teatro anatomico nell’aula Scarpa, nel palazzo centrale dell’università, intitolata al professor Antonio Scarpa che nel XIII secolo operò a Pavia e i cui preparati anatomici costituiscono delle pietre miliari della storia della medicina non solo italiana ma di tutto il mondo.
Ad oggi, l’obiettivo d ricreare organi umani sta diventato effettivamente una realtà; grossi passi avanti sono stati fatti nel campo dell’ingegneria biomedica, laddove grazie all’utilizzo di moderne tecnologie e biomateriali è stato possibile creare sostituiti anatomici artificiali in grado di migliorare effettivamente la qualità della vita dei pazienti. Grazie a questo nuovo ambito, nella pratica clinica è ad oggi possibile il ricorso a alla sostituzione di dischi intervertebrali, protesi degli arti e stent coronarici.
Questi sono tutti elementi che sono però artificiali e che non prevedono l’utilizzo di sistemi cellulari che possano effettivamente integrarsi nell’organismo vivente e sostituire realmente il tessuto nativo.

Creare organi artificiali significa invece andare a costruire un sistema cellulare tridimensionale che sia in grado di replicare dal punto di vista strutturale e anatomico, ma anche funzionale, l’organo o tessuto che vogliamo sostituire e conseguentemente di integrarsi in maniera efficace all’interno dell’organismo che vogliamo curare.
Passi avanti interessanti sono stati fatti ad esempio nel campo della rigenerazione della vescica.
In questo contesto è stato prodotto uno scaffold tridimensionale utilizzando come biomateriale acido poliglicolico con collagene; dopo aver prelevato, da una biopsia del paziente, cellule della parete vescicale e cellule muscolari lisce che possono rigenerarsi, queste vengono coltivate fino a quando non ve ne è una quantità sufficiente (sono utilizzate cellule autologhe in modo che non sussistano problemi di rigetto nell’eventuale impianto del tessuto rigenerato). Le cellule vengono poi seminate su un’impalcatura a forma di vescica, uno scaffold mantenuto in laboratorio all’interno di un incubatore, di modo che le cellule possano proliferare; infine dopo circa sette settimane il tessuto rigenerato è unito alla vescica originale dove si integra con l’organo.

Sono piccoli passi ma che dimostrano che in effetti vi è una possibilità concreta che la medicina rigenerativa abbia successo. Attualmente le strutture replicabili in modo migliore sono gli arti, ma si stanno facendo passi avanti anche nell’ambito di organi molli, per esempio nel caso del fegato, per evitare di occorrere a donatori.
La riproduzione di un arto è basata principalmente sulla meccanica, invece la riproduzione di organi come il fegato o il pancreas richiede non solo la considerazione della parte meccanica, ma anche di quella cellulare, per cui è fondamentale ricercare biomateriali che consentano di ricreare l’impalcatura e la struttura tridimensionale dell’organo e che quindi consentano anche di controllare la proliferazione delle cellule e la loro funzionalità. Non è infatti scontato che, ad esempio, il biomateriale che supporti la funzionalità del cardiomiocita sia adatto a supportare anche la funzionalità dell’epatocita. Grossi sforzi in questo momento sono orientati quindi alla ricerca di biomateriali ideali per essere utilizzati in ambito clinico.

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Q

Come si è evoluto nel tempo il concetto di biomateriale e biocompatibilità?

A

Inizialmente si riteneva che un biomateriale fosse biocompatibile, in grado cioè di non uccidere le cellule con le quali veniva in contatto, se inerte nell’organismo in cui veniva impiantato, in modo da non scatenare alcun tipo di risposta nel ricevente.
Questa definizione è stata progressivamente abbandonata in quanto si è compreso che ogni materiale integrato nel corpo umano genera risposte, siano esse di tipo cellulare, infiammatorio, anticorpale; non esistono materiali completamente inerti nel nostro organismo. Ad oggi si è quindi ulteriormente evoluto il concetto di biomateriale e biocompatibilità integrando anche le varie interazioni che i biomateriali, in ogni caso, hanno con l’organismo.
Si possono generare due tipi di risposta:
negativa (infiammatoria), per cui il materiale non può essere definito biomateriale
positiva, che comporterà un miglioramento dell’organismo trattato
Il concetto di biocompatibilità deve comprendere l’interazione positiva del materiale vivente con il biomateriale.

Nel tempo, dunque, il concetto di biomateriale è progressivamente cambiato:
- anni ’80, punto di vista passivo e inerte: era definito biomateriale qualsiasi farmaco o sostanza, sia sintetica che di origine naturale, che, una volta inserito nell’organismo per un qualsiasi periodo di tempo, era in grado di migliorare o sostituire la funzionalità di tessuti, organo, o dell’organismo vivente; non viene considerata l’interazione con l’organismo vivente
- anni ’90, punto di vista attivo: il biomateriale era definito come un materiale non vivente, che quindi non includa elementi cellulari, che, se inserito all’interno di un medical device, sia in grado di interagire con l’organismo con cui veniva a contatto; si comprese quindi che nessun materiale può essere inerte
- anni 2000, punto di vista integrato: il biomateriale è in grado di interfacciarsi con il sistema vivente per sostituirne la funzionalità o migliorare una funzionalità compromessa, quindi deve integrarsi con l’organismo, di modo che si abbia una risposta da parte del corpo, intesa come miglioramento o sostituzione di funzionalità compromesse; non veniva considerata ancora, però, la componente cellulare
- anni 2010, punto di vista inclusivo: nell’attuale definizione, il biomateriale è una sostanza ingegnerizzata per assumere una forma che, da sola o come parte di un complesso sistema che integri anche elementi cellulari, viene utilizzata in corso di terapia o procedure diagnostiche per indirizzare la funzionalità di sistemi viventi, siano uomini o animali (medicina veterinaria)

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4
Q

Com è mutata la classificazione dei biomateriali rispetto al tempo?

A

Ne consegue che anche la classificazione dei biomateriali è mutata nel tempo, per cui si distinguono biomateriali:
- di prima generazione: completamente inerti, che non innescano alcuna reazione o risposta nell’organismo, né positiva, con integrazione nell’organismo, né negativa, con il rigetto
- di seconda generazione: materiali in grado di interagire e interfacciarsi con il sistema e determinare una risposta più stabile nel lungo periodo o per il periodo desiderato; in seguito, tale risposta doveva esitare nella degradazione della struttura o decomposizione mediata da effettori naturali
- di terza generazione: materiali che effettivamente si integrano nel sistema vivente, determinando una risposta positiva, cioè un miglioramento della funzionalità dell’organismo con cui si interfacciano; sono specificatamente disegnati per attivare una risposta a livello molecolare delle cellule con cui il materiale si interfaccia e conseguentemente anche dell’ambiente che con esse si interfaccia

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5
Q

Quali sono le caratteristiche del biomateriale ideale?

A

Il biomateriale ideale:
- non deve indurre infiammazione
- non deve essere tossico
- non deve essere allergenico
- deve essere biocompatibile, cioè le cellule a contatto col materiale non devono morire, ma, al contrario, la loro vitalità deve essere mantenuta e preservata
- deve essere bioattivo e biofunzionale, cioè deve indurre delle risposte molecolari nelle cellule ed elementi dell’organismo con cui entra in contatto, supportandone e indirizzandone la specifica funzione che devono avere, in modo da garantire l’attività del tessuto rigenerato
- deve essere bioinerte (definizione differente da inerte): un materiale bioinerte non induce nessun tipo di reazione chimica che potrebbe essere tossica o dannosa una volta a contatto con il sistema vivente
- deve essere sterilizzabile: per poter essere utilizzabile in ambito clinico deve essere assicurata la sterilizzazione per inserirlo in maniera sicura nel sistema vivente. Spesso molti biomateriali non sono sterilizzabili o comunque richiedono procedure complicate. La sterilizzazione generalmente viene eseguita ad alte temperature, come ad esempio avviene nelle autoclavi per sterilizzare i ferri chirurgici; non tutti i biomateriali resistono alle alte temperature, potendosi sciogliere o potendo perdere le caratteristiche così importanti per le cellule di interesse, risultando non più idonei alla funzione. È imperativo scegliere il biomateriale giusto e la tecnica di sterilizzazione giusta.
- deve essere clinicamente, meccanicamente stabile: ad esempio, se produco un disco intervertebrale deve avere una meccanica tale per cui non si rompa con facilità
- deve essere facile da maneggiare

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6
Q

Quali sono i componenti dei biomateriali?

A

I componenti dei biomateriali possono essere:
- Metallici: nonostante la grande varietà di leghe e metalli oggi disponibili, solo pochi si prestano all’applicazione clinica, essendo dotati delle caratteristiche di biocompatibilità, che gli consentono di essere considerati biomateriali. Tra questi senza dubbio l’acciaio inossidabile e leghe di titanio e di cobalto, usate con successo in ambito ortopedico e odontoiatrico per viti delle protesi o viti per innesti dentali. Sono facilmente sterilizzabili e resistono ad alte temperature. Ovviamente, non sono utilizzati biomateriali di tal genere per ricreare una vescica, o altri organi molli, essendo essi troppo rigidi, duri e non adatti quindi a riprodurre l’impalcatura di cellule che hanno bisogno di un’impalcatura più soffice.
- Non metallici: organici e non organici. Tra i biomateriali non metallici organici si annoverano i polimeri sintetici o naturali. Un esempio è la seta, il biomateriale che viene utilizzato in laboratorio (anche del Dott. Di Baduo) con lo scopo di riprodurre il midollo osseo funzionale. I biomateriali non metallici inorganici comprendono invece ceramiche e altri come ad esempio mica, silice o vetri.
–Ceramiche: presentano caratteristiche meccaniche ben definite, che le rendono un materiale molto rigido, ma meno resistente alla rottura, rispetto ai metalli per esempio; non sono facilmente malleabili ma sono resistenti ad alte temperature e alla corrosione. Le ceramiche si ottengono generalmente modellando materiali non metallici come l’argilla. Il successo clinico nel loro utilizzo prevede che si integrino nell’organismo, e dunque che vadano a sostituire tessuti le cui caratteristiche meccaniche siano riconducibili a quelle della ceramica, per cui trovano un minimo impiego rispetto a biomateriali polimerici. Sono esempi di successo le bio-ceramiche di fosfato di calcio e di idrossiapatite, utilizzate per creare sostituti ossei o impianti orbitali. È molto utile in clinica, anche se non permette un uso per la sostituzione dei tessuti molli.
–Polimeri: sono i biomateriali più promettenti per il loro utilizzo nell’ambito della medicina rigenerativa; si tratta di lunghe molecole che consistono in unità ripetute di monomeri. Esistono differenti tipi di materiali polimerici che possono essere di origine naturale o sintetica.
Tra quelli naturali si annoverano la gomma, la cellulosa, l’amido, ma anche proteine, come quelle della matrice extracellulare, quali fibronectina, collageni e laminina; spesso si tratta di polimeri di origine animale, come ad esempio la seta.
Ci sono anche polimeri sintetici come idrocarburi e fluorocarburi, molte plastiche e siliconi e anche polimeri biologici modificati artificialmente in laboratorio.

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