Meccanismi biochimici di fibrosi Flashcards
Cosa si intende per fibrosi e come si configura la ricerca di marcatori per questo processo patologico?
Fibrosi, come se ne deduce dallo stesso nome, è una parola che deriva da due importanti significati, la parola fibra, che indica la presenza di materiale fibrillare, e il suffisso -osi, dal greco osis, che ne indica invece la condizione patologica. Quindi, si farà riferimento alle condizioni in cui si ha un alterata deposizione di matrice extracellulare che si sostituisce al normale parenchima dell’organo colpito, portando alla condizione di fibrosi, caratterizzata da alterazioni strutturali, meccaniche e quindi funzionali del tessuto interessato, e in ultimo all’insufficienza d’organo. La caratteristica principale di questo processo è la sua eterogeneità poiché colpisce diversi organi, costituendo lo stadio terminale di varie patologie fatali e associandosi, soprattutto nelle fasi avanzate in cui si va incontro ad una forma estremamente estesa di fibrosi, ad un blocco dell’attività dell’organo coinvolto.
I marcatori di fibrosi rappresentano un argomento molto attuale e importante su cui vi è un’intensa attività di ricerca, per cui molti sforzi sono profusi nel tentativo di sviluppare biomarcatori che possano riflettere tale processo; molti sono ancora in fase di valutazione, altri sono entrati in pratica clinica, sebbene bisogna comunque sottolineare la difficoltà nell’identificazione di marcatori di questo particolare processo patologico.
Il biomarcatore deve essere dotato di:
specificità, in genere di organo, in questo caso di processo patologico
capacità di mettere in luce le differenze tra un soggetto sano ed un soggetto malato
Nel caso di un processo fibrotico, in cui la caratteristica più importante è un alterato processamento della matrice extracellulare, il bersaglio principale, ma non esclusivo, di queste analisi è rappresentato proprio dalle proteine della matrice extracellulare. Se considerassimo un cuore fibrotico o un fegato fibrotico, ci si dovrebbe aspettare che in un processo del genere una piccola parte del tessuto connettivale di quell’organo, dato che è sottoposto ad alterazione, si ritrovi nel sangue. Qui si rivolgono molti degli studi attuali.
Quali sono le caratteristiche generali del processo fibrotico e i suoi effetti nell’organismo?
Le caratteristiche principali di questo processo patologico sono:
- attivazione di una particolare cellula che è responsabile del rimodellamento tissutale, il miofibroblasto
- una deposizione anormale di matrice
- una variazione, come risultato, delle proprietà meccaniche del tessuto che, diventando cicatriziale, va incontro ad alterazioni funzionali
Per capire come si identificano marcatori di questo processo dobbiamo inizialmente considerare i concetti alla base dei meccanismi di fibrosi, per poi passare all’aspetto clinico. Per comprendere cosa succede in qualunque tessuto in cui avviene la fibrosi, bisogna immaginare un blocco nelle normali capacità di riparazione del tessuto e quindi un accumulo non controllato di matrice extracellulare. Il risultato finale è proprio un alterazione nella funzionalità dell’organo.
La fibrosi ha caratteristiche comuni, ma purtroppo colpisce moltissimi organi del nostro corpo, per cui vi sono forme di fibrosi cardiaca, fibrosi polmonare, fibrosi epatica, fibrosi renale, ma anche altre forme che colpiscono altri organi e tessuti, quali occhi, pelle, peritoneo, fibrosi intestinale, fibrosi a livello del midollo osseo. Sono distinte per il fatto che, a seconda dell’organo colpito, la fibrosi in quell’organo andrà ad alterare le funzioni specifiche di quell’organo.
Per esempio, la fibrosi cardiaca, in uno stadio avanzato, in cui si ha fibrosi diffusa, comporta alterazioni del parenchima del cuore, quindi del miocardio, con una incapacità nella normale funzionalità del cuore, alterato riempimento dei ventricoli, alterazioni a livello delle valvole e quindi, in ultimo, anche inevitabilmente l’insufficienza cardiaca.
La stessa cosa avviene nel caso di fibrosi polmonare: se la struttura e l’architettura polmonare viene alterata nel contesto proprio delle proprietà meccaniche di espansione del polmone e scambi gassosi, limitati fortemente dalla barriera costituita dalla matrice, la fibrosi non farà altro che alterare la capacità propria del polmone di sostenere la respirazione.
Nel caso di fibrosi epatica la sostituzione del parenchima epatico con tessuto fibrotico comporta che le funzioni del fegato di sintesi, metaboliche, secrezione e riserva funzionale vengono progressivamente perse man mano che le cellule epatiche sono sostituite da tessuto cicatriziale.
Stesso destino per il rene, in cui la progressione della fibrosi renale comporta le perdita della capacità di filtrazione delle unità glomerulari del rene per via appunto dell’eccessiva matrice extracellulare.
Nonostante l’effetto definitivo sull’organo e la sua funzionalità sia diverso, esistono, all’insorgenza del processo fibrotico, degli elementi comuni che caratterizzano tutti questi differenti tipi di fibrosi.
La fibrosi è presente anche nei tumori, soprattutto in quelli solidi, dove è particolarmente importante nella resistenza ai chemioterapici, proprio perché, attraverso l’azione dei fibroblasti, viene generato una sorta di scudo di matrice che compromette le proprietà di diffusione e circolazione, impedendo alle terapie di raggiungere il tessuto. È inoltre un processo che caratterizza i rigetti d’organo a seguito dei trapianti.
Sul sito clinicaltrials.gov si possono vedere i clinical trials attualmente in fase di esecuzione a livello mondiale. Per comprendere l’attenzione e la necessità diagnostica, prognostica e terapeutica per quello che riguarda la fibrosi si evidenzia che negli ultimi anni migliaia di studi clinici si sono indirizzati a trovare terapie e marcatori nuovi per questa patologia, in quanto, ad eccezione del trapianto d’organo, sono poche le opzioni terapeutiche che possono colpire in maniera specifica la fibrosi nei diversi organi.
Come si configura lo sviluppo del processo fibrotico?
In realtà, la fibrosi non è altro che un mancato controllo di un processo fisiologico nell’organismo, la riparazione tissutale. Ogni giorno subiamo piccolissimi danni per cui si mettono in atto meccanismi biologici e immunitari, fondamentali per assicurare la riparazione del danno. Il problema nella fibrosi, ciò vale per tutti gli organi, è che probabilmente qualcosa non funziona nella normale regolazione di questi processi, con risultato di andare verso un eccessiva riparazione tissutale che porta alla deposizione di tessuto cicatriziale. Se il processo continua negli anni, come avviene per fibrosi molto lente nel tempo, ad esempio nel caso di fibrosi epatica, il risultato è un’insufficienza d’organo che può essere fatale.
Come sono implicati i miofibroblasti in un processo fibrotico?
La ricerca di nuovi biomarcatori clinici parte dalla considerazione dei meccanismi stessi di fibrosi, di cui molto resta ancora da chiarire. Nel caso di fibrosi esiste una cellula fortemente coinvolta nel processo, il miofibroblasto.
I fibroblasti sono cellule presenti in generale nei tessuti, definite stromali, proprio perché deputate alla produzione di matrice extracellulare; presentano anche proprietà infiammatorie che si differenziano nei diversi organi, come anche la deposizione di matrice. Il miofibroblasto è una forma attivata di un fibroblasto con proprietà contrattili e capacità di sintesi di matrice ulteriormente rafforzate.
Nel contesto della fibrosi, come valutato negli ultimi anni, le fonti in grado di dare origine a queste cellule, purtroppo, sono molteplici, in quanto sono stati scoperti numerosi meccanismi che sostengono, durante la riparazione tissutale, ma anche durante la fibrosi, la transdifferenziazione, cioè il differenziamento verso una linea cellulare diversa rispetto a quella di origine, dei fibroblasti verso questa forma attivata. Tra i possibili stimoli, che variano nei diversi organi, vi sono ad esempio agenti virali, farmaci, esposizioni a inquinanti, fattori fisiopatologici come per esempio l’aumento pressorio.
Precedentemente si riteneva che derivassero esclusivamente dai fibroblasti residenti, la componente stromale nella maggior parte degli organi, che interviene in caso di necessità per riparazioni tissutali, ma, negli ultimi anni, altri processi scoperti hanno dimostrato di poter assicurare ulteriori trasformazioni cellulari verso la comparsa di miofibroblasti.
Un esempio è la transizione epiteliale-mesenchimale, per cui ogni epitelio presente nell’organo, sotto particolari stimoli, può andare incontro alla conversione verso cellule stromali e in particolare dall’aspetto e caratteristiche di miofibroblasti.
Lo stesso vale per le cellule endoteliali, anche questo processo patologico recentemente identificato, per cui l’endotelio dei vasi sanguigni del tessuto, sotto l’influenza di particolari fattori solubili, può subire la transizione endotelio-mesenchimale, che comporta il differenziamento verso i miofibroblasti.
Anche le cellule staminali emopoietiche CD34+, che normalmente producono tutte le cellule del sangue possono costituire una fonte di miofibroblasti; alcuni monociti che derivano da queste cellule si trasformano in fibrociti (fibroblasti inattivi), anziché macrofagi, che acquisiscono un fenotipo miofibroblastico, sintetizzando una grande quantità di matrice extracellulare.
Come sono implicate le citochine nel processo fibrotico?
Ulteriori elementi che intervengono nel processo fibrotico sono le citochine derivate dal sistema immunitario.
Le citochine pro-fibrotiche favoriscono la trasformazione delle cellule di un organo, come per esempio cellule epiteliali, fibroblasti e cellule vascolari in un miofibroblasto; il fattore di crescita trasformante di tipo β è la citochina chiave di questo processo, sebbene intervenga anche in diversi processi, non solo fibrotici, contro cui ad oggi si stanno sviluppando anticorpi monoclonali. Altre citochine che favoriscono la formazione di miofibroblasti attivati sono per esempio l’IL-4 e l’IL-13. Due farmaci recentemente approvati dall’FDA per il trattamento della fibrosi polmonare, il Pirfenidone e il Nintedanib, sono farmaci in grado di inibire una serie di chinasi intracellulari, comuni a molti pathway di citochine pro-fibrotiche, spegnendone le vie di segnalazione; lo scopo dei farmaci è colpire all’origine la differenziazione e comparsa dei miofibroblasti indipendentemente dalla loro fonte. Sono però farmaci non specifici e aggressivi, che inibiscono chinasi fisiologicamente funzionanti anche in altri organi per diversi processi; pur mancando specificità di bersaglio o d’organo, hanno dimostrato di apportare benefici in pazienti terminali che ne ha determinato l’utilizzo in clinica.
Le citochine anti-fibrotiche, invece, inibiscono fortemente il processo di comparsa dei miofibroblasti; ne sono esempi gli interferoni, il TGF-β3, una particolare forma di TGF-β, e fattori di crescita dei fibroblasti (FGF).
L’equilibrio di queste citochine nel tessuto in riparazione determina la comparsa dei miofibroblasti o ne contiene il differenziamento, prevenendo la trasformazione del processo in processo fibrotico in cui tale equilibrio viene a mancare.
Come è implicato il TGF-β nel processo fibrotico?
La caratteristica fondamentale del TGF-β, citochina fondamentale per il processo fibrotico, è che è una citochina prodotta dalle cellule, rilasciata in ambiente extracellulare nella matrice, in cui si ritrova in forma latente, non attiva, e durante un processo di riparazione o rimodellamento del tessuto, tutte le proteasi rilasciate dalle cellule in questa fase, tagliano alcuni peptidi di questa citochina, determinandone l’attivazione nell’ambiente extracellulare. Quindi, il TGF-β può legarsi sulle cellule circostanti a due recettori specifici (TβRI e TβRII), che attivano vie di trascrizione, a livello genetico, inducono i marcatori tipici dei miofibroblasti e la sintesi di fattori di trascrizione del differenziamento stromale. Un esempio è α-SMA, l’actina muscolare liscia, un marcatore tipico dei miofibroblasti che ne indica le proprietà contrattili. Altri esempi sono proteine della matrice extracellulare, come fibronectina e collageni, che caratterizzano proprio l’attività dei miofibroblasti, i quali sintetizzano grandi quantità di queste proteine. Così la citochina regola il processo fibrotico; infatti aggiungendo il TGF-β ad una cellula in coltura, si incrementano le caratteristiche fibrotiche di quella cellula.
Com è implicata l’immunità in un processo fibrotico?
Ulteriore complessità nel processo di fibrosi è data dall’intervento dell’immunità; a guidare il differenziamento dei miofibroblasti sono le citochine che molto spesso derivano dall’attività di cellule di immunità.
In particolare, un’altra importante componente cellulare coinvolta nel processo di fibrosi sono i macrofagi, cellule residenti a livello tissutale o derivate dal differenziamento di monociti circolanti, attirati nel tessuto, ad esempio da una condizione infiammatoria. Il risultato è che in un tessuto, sotto l’effetto di diverse citochine, i macrofagi, cellule altamente plastiche, in grado di percepire le variazioni del microambiente in cui si trovano, assumono fenotipi differenti (polarizzazione dei macrofagi).
Vi sono macrofagi M1 pro-infiammatori, che sono quelli molto spesso presenti nel microambiente del tumore, che hanno il compito di contrastare il tumore attraverso la produzione di citochine pro-infiammatorie, oppure, come succede invece nel tessuto fibrotico, si ritrovano macrofagi M2 antinfiammatori che hanno la caratteristica di sostenere il processo fibrotico. Vengono prodotti perché i macrofagi M2 in un normale processo di riparazione fisiologico guidano i miofibroblasti e la sintesi di nuovo tessuto. Se vengono persi i sistemi di controllo, come avviene nella fibrosi, i livello e il numero di macrofagi M2 che si ritrovano è nettamente aumentato e fuori controllo. La caratteristica principale dei macrofagi M2 è che sono una delle fonti più importanti di TGF-β, che sostiene il processo di proliferazione e differenziamento dei miofibroblasti nel tessuto.
Infine anche i linfociti giocano un ruolo chiave nel processo fibrotico. Ne esistono diverse sottopopolazioni con caratteristiche e proprietà funzionali praticamente opposte. Per esempio, i T helper di tipo 1 sono linfociti che producono grandi quantità di interferoni, in particolare l’INF-γ, e quindi contrastano la fibrosi, sostenendo principalmente il processo di degradazione della matrice e, con l’INF-γ, bloccando il differenziamento dei miofibroblasti. Gli helper di tipo 2 sono cellule che producono quantità significative di citochine, come l’IL-13 ad esempio, che promuove la comparsa dei miofibroblasti.
Nel processo fibrotico alterazioni in uno di questi livelli, differenziamento dei miofibroblasti, attività dei macrofagi, attività dei linfociti, può essere una delle cause che porta al mancato controllo del processo e alla conversione di un normale processo di riparazione in processo fibrotico.
Quali sono le caratteristiche biochimiche di un tessuto fibrotico e perché sono importanti da valutare nello sviluppo di marcatori?
Per progettare e identificare dei possibili marcatori che possano riflettere la presenza di un processo fibrotico in un tessuto bisogna partire dall’origine, capire nel tessuto fibrotico cosa viene prodotto e quali sono le differenze tra un tessuto fibrotico e uno sano. È un progetto ambizioso, infatti, per cercare di ottenere più informazioni possibili, negli ultimi anni è partito un progetto al MIT di Boston, per cercare di analizzare, a livello mondiale e in diversi campioni fibrotici, le caratteristiche biochimiche del tessuto fibrotico rispetto al tessuto sano. Ciò ha consentito di generare un database proteomico, estremamente complesso, in cui sono contenute tutte le molecole che caratterizzano la fibrosi rispetto ad un tessuto sano.
Nel Matrisome Project è contenuta la caratterizzazione di centinaia e centinaia di molecole che sono state identificate, ma da un punto di vista di caratteristiche di queste molecole è possibile riassumerle o includerle in quattro gruppi. In un tessuto fibrotico si ritrovano:
collagene e proteine correlate al suo metabolismo, che hanno l’attività enzimatica necessaria per aumentare la struttura del collagene, oppure per degradarlo, quindi per tagliarlo e rimuoverlo dal tessuto
particolari fibronectine “fibrosi-specifiche”
proteine matricellulari
altre molecole che non siano proteine, di cui una delle categorie più importanti, come biomarcatori, sono i proteoglicani o i glicosamminoglicani
In clinica, specie nell’attività di analisi dei campioni dei pazienti, si lavora per valutare la performance di molti marcatori che appartengono a queste categorie, nonché per tentare di identificare nuovi target terapeutici.
Qual’è il ruolo del collagene nel processo fibrotico?
Guardare il collagene è importante perché nel tessuto fibrotico, nella sua stessa definizione di fibra, il collagene è un elemento critico, che rappresenta la principale proteina della matrice, deposta e rilasciata durante lo sviluppo della patologia. Parliamo di collageni fibrillari, i più importanti in questo processo, che sono collageni a tripla elica, nello specifico il collagene I e III. Sono collageni che sono marcatori anche del rimodellamento osseo, in quanto normali componenti del tessuto connettivo, ma in condizioni di fibrosi sono le proteine principalmente presenti nel tessuto. Altri collageni sono caratteristici di organi ben precisi, per esempio nella fibrosi renale c’è una buona componente di collagene IV, costituente tipico delle membrane basali, e collagene reticolare.
Qual è il ruolo degli enzimi che formano cross-links nel collagene nel processo fibrotico?
Anche alcune enzimi sono importanti nell’aumentare la stabilità dei vari collageni. Questi si riassumono in due categorie più importanti:
- transglutaminasi
- lisil ossidasi
Le transglutaminasi sono diversi isoenzimi, che hanno la capacità di formare cross-links nella molecola del collagene aumentandone la stabilità. Una delle più importanti nel processo fibrotico è la transglutaminasi di tipo due (TG2), anche chiamata transglutaminasi cellulare (il fattore XIII della coagulazione è un esempio di transglutaminasi non tissutale, che in circolo stabilizza la fibrina) , perché prodotta dalle cellule nei tessuti, coinvolta in alcune forme di fibrosi, per esempio in quella polmonare. Nel caso di fibrosi polmonare ci si è concentrati proprio su questo enzima come target terapeutico e come marcatore per valutarne la progressione.
Le lisil ossidasi comprendono diversi enzimi della stessa famiglia e hanno un ruolo in ambiente extracellulare nel garantire i cross-links tra le fibre di collagene, per garantirne la struttura tridimensionale. Sono interessanti perché, nel caso di fibrosi polmonare ad esempio, l’isoforma di tipo 2 (LOXL-2) è stata identificata come up-regolata nel processo fibrotico e, per questo motivo, è stato provato un anticorpo monoclonale contro questo enzima, per sviluppare una nuova terapia contro la fibrosi polmonare. Questo farmaco è stato fermato in fase 2 dei trial clinici per la mancanza di efficacia. Il problema, in questo caso, non per forza è dovuto al fatto che il target non fosse corretto, ma bisogna considerare che, nel caso di una patologia fibrotica, una delle difficoltà più ostiche da superare sta proprio nel fatto che certi anticorpi o molecole non siano in grado di raggiungere effettivamente il tessuto fibrotico, che aumenta notevolmente la sua rigidità, diventando anche meno accessibile ai farmaci.
Qual è il ruolo degli enzimi proteolitici nel processo fibrotico?
Oltre agli enzimi che stabilizzano la matrice extracellulare, in particolare i collageni, esistono anche enzimi coinvolti nella degradazione, quindi responsabili del taglio proteolitico di molte proteine della matrice extracellulare.
Una delle famiglie più importanti, presente in diverse forme di fibrosi, sono le metalloproteinasi (MMPS), una serie estremamente ampia di enzimi differenti, 25 proteine zinco-dipendenti, che agiscono su diversi substrati (fibronectina, elastina, laminina, aggrecano, ecc.), quindi non sono specifici per il collagene, ma possono tagliare anche altre proteine della matrice extracellulare. Hanno una caratteristica fondamentale: quando prodotte sono rilasciate nell’ambiente extracellulare insieme a inibitori (TIMPs), specifici per l’inibizione dell’attività di metalloproteasi. Ogni cellula rilascia la proteasi e al contempo un inibitore con il compito di controllarne l’attività. Ciò che determina l’attività di questi enzimi è l’equilibrio tra l’enzima proteolitico e l’inibitore; se quest’ultimo è presente in concentrazioni inferiori, parte della proteasi può attivarsi e agire tagliando la matrice extracellulare. Costituiscono con la loro presenza quindi un’ulteriore meccanismo di controllo dell’attività di questi enzimi proteolitici che potrebbero altrimenti, data l’ampia gamma di substrati, essere deleteri per la struttura e l’architettura di un tessuto.
Nella fibrosi si suppone vi sia una perdita di funzionalità delle metalloproteinasi a favore degli inibitori per consentire al tessuto di continuare ad accumulare matrice.
Qual è il ruolo delle fibronectine fibrosi-specifiche nel processo fibrotico?
Nella seconda categoria di possibili marcatori vi sono le fibronectine fibrosi-specifiche.
La fibronectina è una proteina della matrice e plasmatica. Nel plasma si presume abbia ruolo nel processo emostatico, quindi nel controllo dell’attività e della funzionalità di piastrine; nei tessuti invece ha un ruolo strutturale, è una proteina della matrice, che serve a garantire l’organizzazione tridimensionale del tessuto.
Una colorazione di fibronectina in immunoistochimica dà una particolare distribuzione di fibrille, fibre più piccole rispetto al collagene, che presenta fasci di fibre molte più grosse; appare come una sorta di network di piccole fibrille fra le cellule.
Nel caso della fibrosi, si è scoperto che alcune forme di fibronectina prodotte nel tessuto sono forme differenti. Ciò è dovuto al fatto che il gene della fibronectina è sottoposto a un processo di splicing alternativo (ill gene della fibronectina, localizzato sul cromosoma 2, è stato uno dei primi geni individuato a subire splicing alternativo ed è uno dei modelli più studiati di splicing alternativo) che avviene in tre differenti siti, generando 20 isoforme diverse di fibronectine nell’uomo. L’introduzione di esoni aggiuntivi nell’mRNA consente la produzione di proteine con domini proteici aggiuntivi, tra cui per esempio l’extradominio A (EDA), l’extradominio B (EDB) e un dominio IIICS; le isoforme di fibronectina che comprendono i domini EDA o EDB sono anche conosciute come forme oncofetali perché sono espresse durante lo sviluppo embrionale e per questo sono utilizzate come marcatori di parto precoce. Sono limitate nei normali tessuti adulti e riespresse negli adulti sotto diversi stimoli, tra cui il TGF-β ad elevate concentrazioni, durante condizioni di fibrosi. I domini proteici aggiuntivi comportano variazioni delle proprietà biochimiche della proteina, che diventa una forma pro-fibrotica di fibronectina, cioè che è in grado di sostenere ulteriormente l’attivazione dei fibroblasti e quindi il loro differenziamento in miofibroblasti.
Negli anni scorsi ci si è molto concentrati sull’analizzare queste particolari forme di fibronectina, mediante anticorpi specifici per i domini aggiuntivi, perché nei pazienti fibrotici si trovavano piccole quantità di queste isoforme specifiche anche nel sangue e, quindi, si è cercato di sfruttare queste forme come marcatori di fibrosi.
Qual è il ruolo delle proteine matricellulari nel processo fibrotico?
Le proteine matricellulari, come dice il nome, sono rilasciate nei dintorni della cellula, cioè sono proteine prodotte e rilasciate nella matrice, dove non hanno un ruolo strutturale, quindi non sono proteine della matrice come collagene e fibronectina. Il loro scopo, una volta rilasciate in ambiente extracellulare, è di agire come proteine di segnalazione all’occorrenza, e quindi attivare vie specifiche di segnalazione nelle cellule circostanti che inducono differenziazione, migrazione e altri processi. Sono proteine di cui molto si è scoperto recentemente, essendo componenti che si “mimetizzano” nella matrice, maggiormente esposti durante la fibrosi in cui questa è sottoposta a processi dinamici di rimodellamento. Vi fanno parte proteine che si ritrovano nell’osso, ad esempio periostina, fibulina, che si trovano nella cartilagine e nell’osso, e altre proteine di cui una interessante è il CTGF, chiamato anche fattore di crescita del tessuto connettivo, che negli ultimi anni è stato identificato come un possibile target terapeutico in diversi tipi di fibrosi, specie in quella peritoneale, della pelle e dell’occhio.
Qual è il ruolo dei proteoglicani nel processo fibrotico?
Ultima categoria sono i proteoglicani importanti componenti della matrice extracellulare, non costituiti unicamente da proteine; hanno un cuore proteico su cui sono attaccate una serie di catene glucidiche. Conferiscono elasticità e nutrizione ai tessuti, grazie alla loro tendenza a trattenere e rilasciare acqua nell’ambiente circostante, specialmente in tessuti come l’osso che sono poco vascolarizzati; costituiscono inoltre una riserva per l’immagazzinamento extracellulare di citochine e nel lume vascolare ricoprono l’endotelio funzionando come sistema di cattura di sostanze presenti nel circolo.
Ne esistono di diversi e quelli più importanti nella fibrosi sono l’acido ialuronico, che è un GAG, e piccoli proteoglicani ricchi in leucine SLRPs (small leucine-rich proteoglycans), categoria di proteoglicani che include tutta una serie di particolari molecole come il biglicano, il lumicano, la decorina e altri, che in analisi di proteomica stanno emergendo come importanti regolatori di funzionalità di tessuti in condizioni fisiologiche e soprattutto patologiche, come la fibrosi, di cui potrebbero costituire possibili marcatori e target terapeutici.
Come vengono valutate in laboratorio le proprietà pro-fibrotiche di una sostanza esogena?
In ricerca, per la valutazione delle proprietà pro-fibrotiche di stimoli esogeni il substrato da utilizzare è la cellula stromale. Mediante una biopsia, dalla pelle si ottengono fibroblasti umani: il tessuto viene dissociato e successivamente le cellule ottenute messe in coltura, dove proliferano in maniera intensa. Per valutare se una sostanza, che sia una macromolecola, una citochina, un composto, è pro o anti-fibrotica, viene aggiunta alle cellule stromali per valutare come le cellule rispondono all’agonismo. Si analizza dunque se la sostanza è capace di aumentare la sintesi di collagene, fibronectina o di marcatori tipici dei miofibroblasti come α-SMA, vimentina, tubulina o ancora se conferisce attività contrattile, mediante tecniche di immunofluorescenza (come controllo positivo vengono utilizzati fibroblasti sottoposti all’azione del TGF-β), Western Blot, Real-time PCR. Sono test eseguiti a 24,48, e 72 ore che consentono di definire i vari effetti della sostanza in esame.
Ulteriore tecnica utilizzabile è la Collagen Gel Contraction assay. I miofibroblasti diffusi nei tessuti fibrotici hanno una maggiore capacità di contrarre la matrice di collagene rispetto ai fibroblasti di controllo ottenuti dai tessuti normali. Si allestiscono dei gel di matrice cui vengono aggiunte le cellule e la sostanza da testare, per valutare il tempo impiegato dalle cellule per aumentare la loro contrattilità e, quindi, per retrarre o restringere il dischetto di gel di collagene (il collagene mantenuto a determinate condizioni di temperatura e pH è una proteina che in vitro può fibrillare spontaneamente). È un test che può essere monitorato anche per diversi giorni e calcolando la variazione dell’area del dischetto consente di determinare se la sostanza è o meno profibrotica.
Inoltre, possono essere allestiti saggi per testare gli effetti sulla proliferazione o la migrazione cellulare.