alessandro manzoni Flashcards

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Q

vita:

A

Alessandro nasce a Milano il 7 marzo 1785 ed è figlio di Giulia Beccaria (a sua volta figlia del giurista Cesare Beccaria, autore de Dei delitti e delle pene) e di Giovanni Verri, fratello degli esponenti dell’Illuminismo Alessandro e Pietro Verri.

Fra i suoi genitori, però, intercorre una relazione extraconiugale, che porta quindi il marito di Giulia Beccaria a riconoscere il bambino come proprio per evitare scandali: parliamo di Pietro Manzoni, esponente di una nobile casata di Lecco, che per questo trasmetterà al figlio gli appellativi di don Alessandro, don Lisander e Signore di Moncucco.

Fra Manzoni e sua moglie, inoltre, non scorre buon sangue, al punto che presto i due si separano e la madre si trasferisce a Parigi, mentre Alessandro dal 1791 studia presso il collegio dei padri Somaschi a Merate, per poi essere ammesso ne 1796 presso quello dei padri Barnabiti. Sono anni di formazione rigida e severa, che lo portano a proclamarsi ateo ma che intanto lo fanno entrare in contatto con le grandi personalità della cultura milanese, da Vincenzo Monti (1754-1828) a Giuseppe Parini (1729-1799).

Nel 1805, poi, Alessandro Manzoni si trasferisce in Francia, dove la madre vive con il nuovo compagno, Carlo Imbonati, anche se quest’ultimo muore prima che arrivi il giovane (a lui, infatti, Manzoni dedicherà il carme In morte di Carlo Imbonati) e porta Giulia Beccaria a stringere un legame solido e duraturo con il figlio all’indomani del lutto.

Nella capitale francese Alessandro Manzoni viene inoltre presentato all’élite intellettuale, e tre anni dopo sposa con rito calvinista Enrichetta Blondel (con cui avrà dieci figli, otto dei quali morti fra il 1811 e il 1873). Già nel 1810, comunque, la coppia si converte alla corrente cattolica del giansenismo, secondo la quale la grazia divina ha dei forti contorni personalistici e deterministici, e nel 1820 si ritrasferisce stabilmente a Milano.

Qui Alessandro Manzoni, che nel frattempo comincia a soffrire di depressione, attacchi di panico e agorafobia, cerca di superare i primi lutti familiari dedicandosi alle sue principali opere in prosa e a un’attenta riflessione sulla storiografia e sulla lingua italiana, anche se di lì a poco i suoi sforzi vengono messi alla prova dalla morte della moglie nel 1833. Dovranno passare quattro anni prima che l’autore si risposi, unendosi stavolta a Teresa Borri e trasferendosi successivamente con lei in Toscana dal 1852 al 1856.

Gli anni Cinquanta preludono a un periodo di grandi cambiamenti personali e collettivi, che portano Alessandro Manzoni a ricevere i primi riconoscimenti per il romanzo I promessi sposi e ad essere nominato Senatore del nascente Regno d’Italia nel 1860. Sfortunatamente, tuttavia, anche la sua seconda moglie si spegne un anno dopo, e non saprà mai dell’incarico affidato al marito presso la Commissione per l’unificazione della lingua, a cui sei anni dopo Manzoni presenterà la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla.

Il 6 gennaio 1873, sbattendo la testa all’uscita della chiesa di San Fedele, nella città ambrosiana, Alessandro Manzoni si procura un trauma cranico che fa peggiorare rapidamente le sue condizioni di salute, finché una meningite non lo porta a spegnersi il 22 maggio successivo. Al suo funerale, celebrato in pompa magna, partecipano le più alte cariche dello Stato e decine di intellettuali, mentre nel primo anniversario della sua morte il compositore Giuseppe Verdi dirige una Messa da Requiem composta in suo onore nella chiesa milanese di San Marco.

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Q

le poesie:

A

La produzione letteraria di Alessandro Manzoni viene inaugurata, in età giovanile, con la stesura di diverse opere poetiche. Tra il 1812 e il 1822 compone, infatti, i cinque cosiddetti Inni Sacri, dedicati ciascuno a una festività cattolica (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione, La Pentecoste), mentre Ognissanti e Natale 1833 (ispirato alla perdita di Enrichetta Blondel) rimangono incompiuti.

Allo stesso periodo, all’incirca, risalgono anche le sue famose Odi civili, tre componimenti che prendono spunto dai fatti sociali e storici a cui Alessandro Manzoni assiste personalmente.
* Il primo è Il proclama di Rimini del 1816, una riflessione sul discorso di Gioacchino Murat per la difesa dell’Italia;
* il secondo è Marzo 1821, incentrato sulle insurrezioni del 1821 contro gli Asburgo;
* il terzo è Il Cinque Maggio, scritto di getto dopo la morte di Napoleone Bonaparte avvenuta nello stesso anno.

Quest’ultimo si concentra con stile commosso e incalzante sul condottiero che con le sue conquiste ha tenuto sotto scacco un intero continente per decenni, nonché sull’uomo dalle grandi ambizioni che ha conosciuto prima la grandezza e poi la disfatta.
“Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza“, scrive in proposito Manzoni, immaginando che nei suoi ultimi giorni di vita Napoleone avesse comunque trovato conforto nella preghiera e nella fede.

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Q

le tragedie:

A

Contemporaneamente, Alessandro Manzoni si cimenta anche nella stesura di due tragedie, innovando la scrittura per il teatro non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche e soprattutto della forma e dei presupposti teorici.
Più nello specifico, al 1816 risale Il Conte di Carmagnola, che riprende la vicenda di un capitano di ventura alle prese con le guerre fra gli Stati regionali del Quattrocento.

Del 1822 è invece l’Adelchi, che narra la storia dell’omonimo figlio di Desiderio, ultimo re dei Longobardi, e che si svolge fra il 772 e il 774, per poi concludersi con la caduta del regno per mano di Carlo Magno.
L’opera, complessa e ricca di spunti di riflessione, spingerà Alessandro Manzoni a volersi in futuro dedicare in maniera quasi esclusiva al genere del romanzo.

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4
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i promessi sposi: edizioni:

A
  • fra il 1821-23 c’è la prima stesura di un’opera monumentale, sulla quale sta lavorando e riflettendo da anni. Per la 1° stesura il titolo è ‘Fermo e Lucia’.
    L’opera era divisa in 4 tomi.
  • La seconda stesura, profondamente modificata (fra l’altro il nome di Fermo è mutato in quello di Renzo), fu pubblicata per la prima volta in tre volumi dal 1825 al 1827 (ed. detta ventisettana), col titolo, che doveva restare, I promessi sposi;
    rispetto alla versione del ‘21:
    1. eliminazione di alcune digressioni, dotate di una loro autonomia ideologica o narrativa e pertanto considerate inopportune rispetto al processo di concentrazione drammatica della vicenda (per esempio la parte relativa ai processi agli untori, le osservazioni sulla questione della lingua),
    2. riduzione di episodi e sfrondamento delle vicende riguardanti alcuni personaggi (ex. Gertrude: da 6 a 2 capitoli),
    spostamento nell’ordine dei capitoli e degli episodi. Manzoni scompone e rimonta al fine di ottenere un maggiore equilibrio armonico della struttura narrativa,
    3. radicale revisione linguistica. Il Fermo e Lucia era un impasto eterogeneo di lingua letteraria e lingua d’uso. Per Manzoni la lingua letteraria era distaccata dai problemi della vita del popolo e la lingua d’uso al contempo risultava inadeguata a risolvere il problema di un romanzo nazionale e non municipale. Si trova così nella condizione di inventare una lingua per la prosa, che non sia il classicismo aulico delle tragedie, ma una lingua più vicina alla gente. Così sperimenta un linguaggio in cui è forte la presenza di costrutti e termini milanesi e francesi (Alessandro Manzoni parlava correntemente francese, grazie al periodo parigino con la madre Giulia Beccaria. Le lettere all’amico Claude Fauriel sono in francese), cercandosi di avvicinare al toscano vivo. Studia il vocabolario milanese-toscano di Francesco Cherubini, il vocabolario della Crusca e gli autori toscani, ma non si reca personalmente a Firenze.
    4. nell’edizione Ventisettana, vengono abolii i 4 tomi, che diventano un unico racconto suddiviso in 38 capitoli.
  • la seconda edizione definitiva, ampiamente riveduta e corretta specie in fatto di lingua, apparve dal 1840 al 1842 (ed è perciò detta la quarantana), quando gli elementi storici saranno stati sfoltiti e i registri linguistici perfezionati il più possibile, nel tentativo di rendere il romanzo accessibile a chiunque, scorrevole e soprattutto attuale, specchio cioè della parlata fiorentina diffusa tra i suoi contemporanei.

L’opera comprende:

  1. introduzione, nella quale compare il testo del presunto manoscritto Seicentesco
  2. 38 capitoli
  3. la Storia della Colonna Infame

Per riuscire nel suo scopo, Alessandro Manzoni fa quindi seguire all’edizione cosiddetta “ventisettana” una fase di “risciacquatura in Arno“, durante la quale intinge idealmente l’opera nel fiume toscano per lasciare che si impregni dello stile e delle espressioni locali, fino ad arrivare alla pubblicazione della celebre (e definitiva) “quarantana” che ancora oggi troviamo in libreria.

Il sottotitolo è “storia milanese del sec. 17°”, che l’autore finge di avere “scoperta e rifatta” sul manoscritto di un anonimo contemporaneo.

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5
Q

i promessi sposi: trama:

A

Gli avvenimenti si svolgono tra il 1628 e il 1630 nella campagna lombarda, devastata dalla guerra dei Trent’anni e stremata dalla carestia e dalla pestilenza.

L’amore di due popolani, filatori di seta, Renzo e Lucia, in procinto di sposarsi, è contrastato daI capriccio di un signorotto, don Rodrigo, che, invaghitosi della giovane, cerca di impedire il matrimonio, facendo leva sulla viltà del curato, don Abbondio, a fianco del quale è la figura della serva padrona, Perpetua.

Renzo si reca a chiedere consiglio al dottor Azzecca-garbugli, ma questi si rifiuta di prendere qualsiasi posizione quando sente il nome di don Rodrigo. Il frate confessore di Lucia, Cristoforo, si reca a sua volta, ma altrettanto inutilmente, dallo stesso don Rodrigo, nel tentativo di dissuaderlo dallo sciagurato proposito.

Visti i tentativi falliti, suggerisce ai due giovani di fuggire dal paese e di trovare rifugio Lucia, con la madre Agnese, in un convento di Monza e Renzo presso i cappuccini a Milano.

Qui il giovane viene accusato di essere coinvolto nelle rivolte scatenate dalla carestia ed è quindi costretto a fuggire.

Lucia viene rapita dall’Innominato, al quale don Rodrigo aveva chiesto aiuto. Terrorizzata, la giovane prega con fervore e fa voto di rinuncia al matrimonio. Dopo averlo supplicato, viene liberata dall’Innominato, ma cade vittima del contagio della peste che ha invaso Milano.

Supererà la malattia nel Lazzaretto dove si trovano anche fra Cristoforo e don Rodrigo, che è in punto di morte quando arriva Renzo, rientrato a Milano in cerca di Lucia. Il frate convince Renzo a perdonare l’uomo che gli aveva provocato tante disavventure. Con la morte di don Rodrigo cessa ogni pericolo. Renzo e Lucia possono finalmente unirsi in matrimonio.

Manzoni sceglie di usare uno schema romanzesco tradizionale - quello di due giovani innamorati che solo dopo varie peripezie riescono a sposarsi - depurandolo da elementi fantastici o avventurosi e finalizzandolo alla descrizione dei più saldi valori morali.

Quella di Renzo e Lucia non è un’avventurosa esperienza d’amore, ma una difficile conquista di pace e di felicità, perseguite con impegno e senso del dovere in una realtà dominata dall’ipocrisia e dal conformismo.

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storia della colonna infame:

A

Saggio storico uscito in appendice a I promessi sposi nel 1840, la Storia della colonna infame (Garzanti, introduzione di Pietro Gibellini e prefazione di Franco Mollia) viene illustrato da Francesco Gonin proprio come il grande romanzo a cui si riferisce, e si focalizza a sua volta su diversi episodi che sono avvenuti in territorio milanese nella prima metà del XVII secolo.

Qui, in particolare, l’obiettivo di Alessandro Manzoni è di criticare le scelte della giustizia penale dell’epoca, che era amministrata dagli spagnoli a capo in quel momento della Lombardia. Descrive dunque la mancanza di etica e di correttezza a cui assistevano spesso i cittadini, approfittandone per proporre una riflessione più generale sugli errori e gli abusi che si compiono in nome di false credenze e sciocche superstizioni.

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7
Q

il pensiero di Manzoni:

A

il suo pensiero si riflette in maniera evidente nelle diverse fasi della sua produzione e che ci permette di capirle più a fondo e con maggiore completezza.

Trascorrendo a Milano i primi anni della sua formazione, l’autore viene inevitabilmente a contatto con gli ideali della cultura illuminista, assorbendo e facendo propria un’impostazione neoclassica della scrittura. Quando, però, si sposta poi a Parigi e conosce personalità come Claude Fauriel (1772-1844) e Augustin Thierry (1795-1856), la sua visione poetica e la sua concezione della storia iniziano a cambiare.

A differenza di quanto pensavano gli illuministi, infatti, Alessandro Manzoni si convince del fatto che non si possa guardare alla storia con ottimismo, dovendone al contrario riconoscere le cadute umane, gli abbagli e gli orrori, anche se conserva l’idea che sia fondamentale e appassionante studiarla per comprendere il presente a 360°.

Oltre a ciò, l’autore si rende conto di non dover prestare attenzione solo a sovrani e condottieri, bensì specialmente alle masse che costituiscono la spina dorsale di ogni popolo, e fra i cui meandri si sviluppano la mentalità e il sistema di valori che sorreggono (o distruggono) l’intera società, proprio come afferma la corrente del Romanticismo che si sta intanto affermando in Europa.

Prendendo spunto dai romanzi di Walter Scott (1771-1832) e dalla sua fede in una divina provvidenza capace di rovesciare le sorti umane in qualunque momento, Alessandro Manzoni sviluppa così il gusto per una letteratura inquadrata e rigorosa, ma che al tempo stesso risulti spontanea e vera, a contatto con i sentimenti, i pensieri e le azioni dei suoi lettori, per riuscire a descrivere gli eventi collettivi e le pulsioni individuali con realismo e coinvolgimento.

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Q

perchè Manzoni è così importante:

A

Alessandro Manzoni, pertanto, assume un ruolo cruciale nella storia della letteratura perché, senza voler per forza seguire le tendenze del periodo in cui vive, e riservando comunque un’alta considerazione alle emozioni umane, trascura gli eccessi sentimentali dei romanzi ottocenteschi, prendendo spunto da eventi reali per proporre opere più vive e più dinamiche, che nel caso del teatro si allontano perfino dalle regole aristoteliche, petrarchesche e rinascimentali.

A differenza di quanto si era soliti preferire fino ad allora, infatti, nelle sue tragedie l’autore abbandona le tre unità di tempo, luogo e azione per dare ai suoi testi più pathos e verosimiglianza, modifica la funzione del coro del teatro antico (che ora gli serve per introdurre delle pause liriche e non per veicolare le proprie opinioni) e crea un rapporto più diretto con il suo pubblico.

Dopodiché, per portare a compimento l’ambizioso progetto de I promessi sposi, Alessandro Manzoni persegue con fermezza l’intento di rivolgersi non tanto a una ristretta cerchia di intellettuali, quanto piuttosto a un pubblico vasto, che a prescindere dalla propria condizione di partenza sia in grado di cogliere i significati della sua opera e di imparare qualcosa dai suoi contenuti.

D’altronde, specie quando l’Italia si trasforma in un solo regno sotto la guida di Vittorio Emanuele II, è indispensabile secondo lui che gli italiani trovino un codice comune nel quale esprimersi, che li aiuti a superare le differenze regionali e li faccia identificare nella stessa nazione: tutte idee per le quali intellettuali, lettori e lettrici apprezzeranno sempre di più Alessandro Manzoni nei secoli a venire, considerandolo il padre del romanzo moderno e, ancor di più, della lingua italiana per come la conosciamo ai nostri giorni.

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9
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i promessi sposi: cap.1:

A

Il primo capitolo de I promessi sposi di Alessandro Manzoni si apre con una descrizione paesaggistica e con la presentazione del contesto storico: quella del lago di Como, dei suoi monti e della città di Lecco, del 7 novembre 1628. In questo paesaggio viene inserito il primo personaggio della storia Don Abbondio curato di un paese della zona, che sta tornando a casa dalla sua passeggiata.
Passeggia serenamente leggendo il suo breviario, incontra ad un bivio due uomini che stanno aspettando proprio lui. Sono i “bravi”, uomini armati al servizio del signorotto locale, Don Rodrigo, che hanno il compito di gestire l’ordine e tenere sotto controllo il territorio, eseguendo ovviamente i desideri del loro signore. In questo caso, i bravi sono stati incaricati da Don Rodrigo di impedire il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella (che il nobilotto spagnolo vuole conquistare); matrimonio che don Abbondio avrebbe dovuto appunto celebrare l’indomani.
Per rendere più efficace la loro minaccia i due, oltre a pronunciare, “in tono solenne di comando”, la famosa frase “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai” 2, aggiungono il nome di “don Rodrigo”, che gela il sangue al povero curato, che non può che replicare.

Don Abbondio, sconvolto dall’avvenimento (in una breve digressione, Manzoni illumina la psicologia e lo stile di vita del curato, che ha sempre cercato di tenersi lontano dai guai sapendo di essere “un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro” immagina la reazione del giovane Renzo, noto per arrabbiarsi facilmente se contraddetto, e, giunto a casa, si confida con la serva Perpetua, nonostante i “bravi” gli abbiano intimato il silenzio. La donna, pettegola ma di animo pratico, consiglia a Don Abbondio di rivolgersi al Cardinal Borromeo per denunciare le prepotenze di Don Rodrigo; ma il curato, codardo e spaventatissimo, non accetta il consiglio e anzi le intima il silenzio.

Il primo capitolo dei Promessi sposi è caratterizzato, oltre che dalla descrizione iniziale e dall’ingresso in scena di don Abbondio e dei “bravi”, anche da 2 digressioni di carattere storico, in cui il narratore si concede uno spazio d’intervento personale.

La prima, inserita dopo il momento in cui don Abbondio scorge i due “bravi”, è quella sulle “gride”, cioè la serie di inutili provvedimenti legislativi dell’amministrazione spagnola che avevano provato a limitare il fenomeno di questi piccoli eserciti privati al soldo dei potenti dell’epoca. Il narratore manzoniano cita direttamente alcuni di questi provvedimenti per ironicamente mettere in luce - come già aveva fatto nell’Introduzione con lo stile retorico ed ampolloso dell’Anonimo secentesco - come il linguaggio della giustizia sia lontanissimo dalla realtà concreta dei fatti. L’ironia manzoniana sfrutta la tecnica dell’elencazione e dell’accumulo: nessuna delle leggi citate (si va dall’8 aprile del 1583 al 13 febbraio del 1632) è davvero riuscita a risolvere il problema.

La dominazione spagnola sull’Italia del XVII secolo (che al lettore di Manzoni doveva ricordare quella austriaca a lui contemporanea) è allora strettamente connessa al problema della giustizia, che attraversa tutto il romanzo, collegandosi a quello della Provvidenza divina.

La seconda digressione di questo capitolo parte proprio dalla considerazione che don Abbondio non era “un cuor di leone” e dal fatto che la legge non assicura protezione ai più deboli.

La deformazione della Giustizia si estende e si propaga a più livelli: la già menzionata inutilità delle leggi, i privilegi di casta e di corporazione, l’impunità che la Chiesa garantisce a chi ha commesso un delitto ospitandolo in chiese e conventi, la corruzione di chi deve amministrare la legge. Ne consegue, amaramente, che l’unica attività sicura sta “nell’opprimer […] e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa”.

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10
Q

i promessi sposi: cap. 2:

A

Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondio ne passa una piena di pensieri e tormenti, nell’incertezza di cosa fare il giorno dopo in cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia.

Il curato esamina alcune possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di dire la verità a Renzo, come un’improbabile fuga dal paese. Alla fine decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto, confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il “tempo proibito” in cui non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il curato un periodo di respiro. Don Abbondio si rende conto che Renzo è innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle, pensando alle minacce dei bravi.
Verso il mattino riesce a prendere sonno, anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo, da fughe e inseguimenti.

Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi circa l’ora in cui lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane di vent’anni, rimasto orfano dall’adolescenza, che ora esercita la professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione del mercato, Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di lavoro. Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando non è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può dire discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze con giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Si presenta dal curato vestito di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il manico del pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli conferisce un’aria un po’ spavalda che a quei tempi era comune anche agli uomini più pacifici. Il curato accoglie Renzo con fare un po’ reticente, il che insospettisce subito Renzo.

Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa, ma il curato finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa parla: il giovane gli ricorda delle nozze e don Abbondio ribatte che non può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi impedimenti burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio.
Il curato spiega che avrebbe dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta ai due promessi di sposarsi, mentre per il suo buon cuore ha affrettato le pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere conto e, per confondere le idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico.

Il giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato ribadisce che si tratta di rimandare le nozze di qualche tempo, proponendo a Renzo una dilazione di quindici giorni. La reazione del giovane è alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare almeno una settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato un suo sbaglio e a gettare la colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il giovane solo in parte (Renzo non è molto convinto delle ragioni esposte dal curato). Alla fine Renzo se ne va, ribadendo al curato che aspetterà una settimana e non un giorno di più per sposarsi con Lucia.

Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al colloquio appena avuto col curato e si convince sempre di più che le ragioni accampate da don Abbondio suonano strane e incomprensibili. Sta quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni, quando vede Perpetua che sta per entrare nella porticina dell’orto, quindi la chiama e le si avvicina.
Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c’è qualcosa sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei superiori del curato. Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed entra nell’orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere da lei, torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando con fare alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto.

Renzo chiede subito a un esterrefatto don Abbondio chi è il prepotente che si oppone alle sue nozze: il curato impallidisce e con un balzo tenta di guadagnare la porta, ma il giovane lo precede e chiude l’uscio, mettendosi la chiave in tasca.
In seguito Renzo chiede nuovamente al curato il nome di chi lo ha minacciato, mettendo forse inavvertitamente la mano sul manico del pugnale, il che riempie di paura il sacerdote che, non senza esitazioni, fa finalmente il nome di don Rodrigo.
La reazione di Renzo è furibonda, ma a questo punto don Abbondio descrive il terribile incontro coi bravi e sfoga la collera che ha in corpo, accusando anche il giovane di avergli esercitato una forma di violenza nella sua casa. Renzo si scusa debolmente e riapre la porta, mentre il curato lo implora di mantenere il segreto per il bene di tutti: gli chiede di giurare, ma Renzo esce e se ne va senza promettere nulla, per cui don Abbondio chiama a gran voce Perpetua. La domestica accorre dall’orto con un cavolo sotto il braccio e segue un breve scambio di battute col padrone che l’accusa di aver parlato e lei che nega di averlo fatto; alla fine il curato si mette a letto con la febbre e ordina alla donna di sprangare l’uscio e di non aprire a nessuno, rispondendo dalla finestra a chi eventualmente chiedesse di lui.

Renzo torna infuriato a casa di Agnese e Lucia, sconvolto per l’accaduto e meditando vendetta contro il suo nemico don Rodrigo: egli è un giovane pacifico che non commetterebbe mai violenze, ma in questo momento fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al suo palazzotto per afferrarlo per il collo.
Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in quell’edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta di tendergli un’imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre al confine e mettersi in salvo riparando in un altro Stato. Ma Lucia? Il pensiero della sua promessa sposa tronca questi pensieri sanguinosi e lo induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di aver solo pensato un’azione così scellerata. Tuttavia il giovane è preoccupato all’idea di dover informare la ragazza dell’accaduto e sospetta che Lucia lo abbia tenuto all’oscuro di qualche cosa, il che lo riempie di dubbi e di sospetti.

Renzo passa davanti alla propria casa e raggiunge quella di Lucia, che si trova in fondo al paese; entra nel cortile, cinto da un piccolo muro, sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano e immagina che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi per le nozze.

Una ragazzetta di nome Bettina si fa incontro a Renzo nel cortile, chiamandolo a gran voce, ma il giovane le impone di fare silenzio e le chiede di salire a chiamare Lucia, facendola venire al pian terreno senza che nessuno se ne accorga. La fanciulla sale subito e trova Lucia che sta ultimando di vestirsi: la giovane ha i lunghi capelli bruni raccolti in trecce, con spilli d’argento infilati che formano una specie di aureola sopra la testa (secondo la moda delle contadine milanesi); al collo porta una collana di pietre rosse e bottoni dorati, indossa un busto di broccato a fiori, una gonnella corta di seta di scarsa qualità, calze rosse e due pianelle di seta.

Bettina le si accosta e le dice qualcosa all’orecchio, quindi Lucia si congeda dalle donne e scende al pian terreno: qui trova Renzo, che le dice subito cos’è successo e fa il nome di don Rodrigo, al che la giovane è sconvolta dal rossore.

Renzo la accusa di essere a conoscenza della cosa, ma Lucia lo prega di pazientare e corre di sopra a licenziare le donne, mentre intanto la madre Agnese è scesa e si è unita a Renzo. Lucia dice alle donne che il curato è ammalato e per questo il matrimonio è rimandato, quindi le sue compagne vanno via e si spargono per il paese, raccontando a tutti l’accaduto. Alcune vanno alla casa di don Abbondio per verificare se sia davvero malato e qui trovano Perpetua, la quale si affaccia dalla finestra e dice loro che il curato ha un febbrone. Le donne, alquanto deluse per non poter spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case.

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11
Q

i promessi sposi: cap. 3:

A

Il capitolo terzo dei Promessi Sposi, ambientato nella giornata dell’8 novembre 1628, rivela il motivo per cui don Rodrigo ha impedito il matrimonio di Renzo e Lucia e spiega come il giovane, con quattro capponi, si recherà da un avvocato di Lecco per ottenere giustizia.

Il capitolo si apre con una confessione di Lucia. La giovane promessa sposa confida, tra le lacrime di vergogna, il tentativo di seduzione da parte di don Rodrigo avvenuto qualche giorno prima all’uscita dalla filanda dove la giovane lavora.

Il racconto di Lucia mette in luce tra le righe l’arroganza e la volgarità di don Rodrigo, che impedisce il matrimonio di Renzo e Lucia solo per soddisfare un capriccio personale: il nobilotto ha infatti scommesso col cugino, il conte Attilio, che avrebbe sedotto la ragazza.

La protagonista, per pudore e per non inquietare la madre, ha confessato tutto soltanto a Fra Cristoforo, un frate cappuccino che ha avrà un ruolo rilevante nello sviluppo dell’intreccio. Le reazioni dei personaggi sono antitetiche: Renzo non trattiene l’ira ed esprime desideri di vendetta violenta nei confronti del nobile, mentre Lucia, scoppiata a piangere, cerca di placare la rabbia del promesso sposo facendo affidamento sulla speranza nel futuro e nella provvidenza di Dio, che non può permettere che l’ingiustizia trionfi.

Interviene Agnese, la madre di Lucia, che con la sua saggezza popolare consiglia ai due di rivolgersi a “un uomo che abbia studiato”, a “una cima d’uomo” come l’avvocato Azzecca-garbugli.

Renzo dunque parte per Lecco, dove si trova l’uomo di legge, portando con sé quattro capponi, per propiziarsi i favori dell’uomo dell’uomo di legge. Si apre così la seconda parte del capitolo ambientato nello studio di Azzecca-garbugli.

Il narratore fa così chiaramente trasparire l’atmosfera di mediocrità e di decadenza del personaggio di Azzecca-garbugli, che è un buon simbolo per l’intero Seicento, che Manzoni, già dall’Introduzione, ha caratterizzato come periodo più attento all’ipocrita forma esteriore che alla sostanza delle cose.

Il problema della giustizia viene però sviluppato qui attraverso un equivoco comico: Renzo, intimorito di fronte a quello che crede essere un “signor dottore”, domanda se minacciare un curato, affinché non celebri un matrimonio, sia un crimine.
Però Azzecca-garbugli scambia Renzo per un bravo e, mostrandogli una “grida” inizia così a parlare nel linguaggio avvocatesco, aumentando la confusione di Renzo e mettendo in mostra la propria distorsione del concetto di giustizia, per cui “a saper ben maneggiare le grida” non c’è distinzione tra colpevoli ed innocenti.

Ma non appena il protagonista chiarisce come stanno in effetti le cose e fa il nome di don Rodrigo, il patetico Azzecca-garbugli lo scaccia in malo modo, non avendo alcuna intenzione di mettersi contro un potente.

Agnese e Lucia, intanto, ricevono la visita di Fra Galdino, un cappuccino che gira per il paese per elemosinare delle noci. Lucia, sfruttando la situazione, dona al frate una cospicua quantità di noci, chiedendole di avvisare fra Cristoforo da parte sua.
Renzo, deluso e amareggiato, torna nel frattempo in paese, combattuto tra i desideri di vendetta e i consigli dell’amata Lucia di confidare nella Provvidenza divina.

Fra Galdino compare in chiusura di capitolo raccontando ad Agnese una piccola storiella edificante. La parabola di san Macario (un exemplum che giustifica la necessità della carità cristiana) è assai emblematica della fede semplice ed un po’ ingenua del frate.

Questo personaggio minore ha però una funzione non secondaria nell’intreccio del romanzo: nel momento in cui il potere religioso (incarnato del pavido Don Abbondio del primo capitolo) e la giustizia umana (distorta dalle paroel ipocrite e meschine di Azzecca-garbugli) sembrano opporsi al desiderio di giustizia di Renzo e Lucia, ecco che s’annuncia l’ingresso in scena di quel personaggio, fra Cristoforo, che più si impegnerà a combattere don Rodrigo e a proteggere i due “promessi sposi”.
L’importanza di questa svolta nella trama è testimoniata anche dalla breve digressione che il narratore si concede per presentare l’ordine dei frati cappuccini.

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i promessi sposi: cap. 37:

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Renzo esce dal lazzaretto e svolta a destra, per ritrovare la strada percorsa al suo arrivo a Milano quella mattina, quando inizia a piovere in modo via via più impetuoso e ben presto l’acqua cade abbondantemente.
Il giovane non se ne preoccupa e, anzi, è rallegrato e rinfrescato dalla pioggia, come se lo spezzarsi dell’afa per il temporale sottolineasse la soluzione di tutti i suoi problemi, l’inizio di una nuova vita: e si sentirebbe addirittura più sollevato, se sapesse che nei giorni seguenti la pioggia porterà via il contagio e tra una settimana riapriranno usci e botteghe, mentre non si parlerà più di peste ma soltanto di quarantena.

Renzo cammina sotto la pioggia non preoccupandosi di nulla se non di camminare e procedere, per arrivare il più presto possibile al suo paese e poi ripartire per Pasturo, in cerca d’Agnese. Ogni triste pensiero relativo a ciò che ha visto, all’epidemia, è compensato dal sollievo di aver trovato Lucia in vita, di aver risolto ogni problema, di poter finalmente sposare la sua promessa; <3.

Renzo ripercorre con la mente tutte le traversie passate e, soprattutto, i momenti più terribili della giornata trascorsa, quando ha bussato alla casa di don Ferrante, ha appreso che Lucia era al lazzaretto, ha rischiato il linciaggio della folla; e poi la ricerca nel lazzaretto, la disperazione di non averla trovata nella processione dei guariti.

Renzo è quasi incredulo di aver trovato Lucia viva e in salute, di aver potuto anche risolvere l’intralcio del voto, di aver superato per sempre l’odio verso don Rodrigo, cosicché la sua felicità sarebbe piena e completa se non ci fosse la preoccupazione per il destino di Agnese e per la salute di padre Cristoforo che sa ammalato di peste.

La via si va tramutando in un pantano a causa del temporale e Renzo avanza non senza fatica, tuttavia le difficoltà del viaggio sono niente rispetto a tutto quello che ha passato e il suo pensiero è fisso all’avvenire e alle nozze imminenti con Lucia.
Indovina con molta fortuna e perizia le strade giuste da percorrere e alle prime luci dell’alba raggiunge le rive dell’Adda.

Ormai la pioggia sta scemando e all’incerta luce dell’alba Renzo intravede il paesaggio circostante, distinguendo le cime del Resegone, Lecco e indovinando che lì c’è anche il suo paese (la vista dei luoghi natii lo riempie di una gioia affatto nuova).

La luce del giorno gli fa vedere il proprio corpo tutto inzaccherato dalla pioggia, bagnato fradicio dalla cintola alla testa e pieno di fango dalla vita in giù, tuttavia la sua felicità è tale che non si dà pensiero, né sente la stanchezza del viaggio ma prosegue il cammino. Percorre gli ultimi tratti di strada, costeggiando l’Adda e vedendo Pescarenico in lontananza (ha una stretta al cuore pensando a fra Cristoforo), quindi arriva nel suo paese alla casa dell’amico che l’aveva ospitato. L’uomo è già in piedi fuori dall’uscio e, vedendo arrivare Renzo, gli chiede subito com’è andato il viaggio. L’altro ribatte che tutto è andato bene e che ha trovato Lucia, quindi l’ospite lo fa entrare e accende il fuoco per riscaldarlo, poi va a prendergli il fagotto di vesti che gli aveva lasciato perché possa cambiarsi gli abiti zuppi d’acqua. L’amico mette infine della polenta a cuocere sul fuoco e nell’attesa Renzo inizia a raccontargli per sommi capi tutto l’orrore cui ha assistito per le strade di Milano, le brutte avventure subìte, concludendo poi che Lucia grazie a Dio è viva e presto sarà sua moglie, quindi l’amico è invitato a fargli da testimone alle nozze.

Il mattino dopo si alza di buon’ora e approfitta del bel tempo per andare subito a Pasturo in cerca di Agnese, che non tarda a scoprire viva e in salute: la raggiunge nella casetta isolata in cui vive e le parla attraverso una finestra, dicendole subito che Lucia sta bene e presto sarà di ritorno per le nozze.
Il giovane spiega ad Agnese, incredula, le motivazioni per cui il voto di Lucia è stato sciolto da padre Cristoforo, quindi i due concertano senza dubbio di trasferirsi dopo le nozze nel Bergamasco dove Renzo ha un lavoro avviato, anche se il momento della partenza verrà deciso in seguito, quando la peste sarà cessata del tutto.
Felice in cuor suo di aver trovato la madre di Lucia in buona salute, Renzo lascia Pasturo e torna a casa sua.

Renzo trascorre un’altra giornata e un’altra notte a casa dell’amico, quindi riparte alla volta del Bergamasco: qui trova il cugino Bortolo in buona salute, poiché nel frattempo la peste ha iniziato a essere meno pericolosa e a mietere meno vittime, con i sopravvissuti che riprendono poco alla volta le antiche occupazioni. Tutti parlano di ricominciare la lavorazione della seta e i pochi operai disponibili sono molto ricercati, incluso Renzo che promette al cugino di tornare presto ad accasarsi lì, fatta salva naturalmente l’approvazione della futura moglie Lucia. Nel frattempo si occupa di trovare una casa più grande e di arredarla con lo stretto necessario, operazione facile e poco costosa dato che la peste ha creato grande disponibilità di beni e pochi acquirenti, situazione di cui il giovane può approfittare. Dopo alcuni giorni di permanenza nel territorio di Bergamo, Renzo ritorna al paese natale.

Una volta di ritorno in paese, Renzo va di nuovo a Pasturo e poco tempo dopo conduce Agnese a casa sua, dove la donna trova tutto come l’aveva lasciata (ed è un dono del Cielo, trattandosi di una povera vedova).
Rendo nella propria casa e nel proprio podere non rimette più piede e ha ormai deciso di vendere tutto a qualunque prezzo, per stabilirsi nel Bergamasco con il poco ricavato. Renzo riprende i rapporti con i vecchi amici e racconta a tutti la sua storia, mentre si dà poco pensiero dei suoi guai giudiziari e dell’ordine di arresto: infatti i ministri della giustizia non se ne occupano più.
Quanto a don Abbondio, Renzo e il curato si evitano reciprocamente e il giovane decide di non parlare con lui delle nozze se non al ritorno di Lucia in paese, poiché teme che l’altro possa accampare nuovi pretesti pur di non celebrare il matrimonio. Le sue chiacchiere le fa con Agnese, con la quale condivide l’ansiosa attesa per il ritorno della sua amata.

Lucia intanto ha lasciato il lazzaretto pochi giorni dopo la visita di Renzo, facendo la quarantena nella casa della vedova a Milano; in questo tempo la giovane collabora a preparare il proprio corredo offertole dalla mercantessa, la quale lascia poi la bottega in cura a un fratello e prepara il viaggio per il paese dei due promessi.
Durante la permanenza in casa della mercantessa, Lucia ha modo di aggiungere ulteriori dettagli circa le sue passate traversie, accennando a Gertrude e al suo soggiorno nel convento di Monza: la vedova la informa che la monaca è stata nel frattempo arrestata su ordine del cardinal Borromeo, in quanto sospettata di atroci delitti, e imprigionata in un convento di Milano, dove alla fine si è ravveduta e si sottopone ora volontariamente a supplizi tali che nessun altro potrebbe essere maggiore, tranne la morte (apprendere questo riempie Lucia di profondo sgomento). Inoltre la ragazza è venuta a sapere dai frati cappuccini incontrati al lazzaretto che padre Cristoforo è morto di peste.

Prima di lasciare Milano, Lucia vorrebbe avere notizie dei suoi padroni e si fa accompagnare dalla mercantessa alla loro casa, dove apprende che entrambi sono morti per la peste.

Di donna Prassede l’autore si limita a dire che è passata a miglior vita, essendo inutili troppe parole, mentre di don Ferrante intende riferire la trattazione dell’anonimo (l’ipotetico vero scrittore dei Promessi Sposi), poiché questa è interessante per più aspetti.

All’inizio dell’epidemia don Ferrante è stato tra i più decisi a negare il contagio della malattia, argomentando la sua opinione con dotte disquisizioni filosofiche: è convinto infatti che, in base alla dottrina aristotelica, in natura ci siano solo sostanze e accidenti, e il contagio non corrisponde a nessuna delle due, il che dimostra la sua inesistenza.

Don Ferrante nega il contagio, ma non nega l’esistenza della peste, di cui attribuisce la causa alle influenze astrali, alla congiunzione di Giove e Saturno che, a suo dire, è stata avvalorata anche dai medici che predicano poi contro il contagio: per lui è impossibile sottrarsi alle influenze delle stelle e dei pianeti, per cui è del tutto inutile prendere precauzioni contro la peste (come evitare il contatto coi malati o bruciare panni infetti), giacché bisognerebbe addirittura bruciare Giove o Saturno.

Convinto delle proprie ragioni, don Ferrante non prende alcuna misura contro il contagio, si ammala di peste e muore come un eroe di Metastasio, prendendosela con gli astri. Quanto alla sua famosa biblioteca, essa forse è stata venduta sulle bancarelle.

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i promessi sposi: cap. 38:

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Il capitolo 38 dei Promessi Sposi inizia con il ritorno di Lucia accompagnata dalla madre al paesello natio, e con un accenno all’incontro commovente tra la giovane e sua madre.

La mattina seguente Renzo, ignaro dell’arrivo della sua amata, va da Agnese per ottenere notizie sulla figlia e trova lì la ragazza.

I due giovani si salutano con un certo contegno, ma entrambi sono consapevoli di quali sentimenti si celino in realtà nel cuore dell’altro. Lucia informa Renzo della morte di fra Cristoforo, e lo esorta a pregare per l’anima di quell’uomo tanto buono.

Renzo, concluso il dialogo con Lucia, corre da don Abbondio per organizzare finalmente le nozze.

Il giovane chiede al curato di unirli in matrimonio al più presto e don Abbondio, seppur non rifiutando apertamente, inizia a prendere tempo (“e perché mettersi in piazza, e far gridare il suo nome, con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi ugualmente altrove”).

Renzo allora cerca di spronarlo dicendogli di aver visto don Rodrigo in fin di vita al lazzaretto, ma invano. Così il protagonista, spazientito, torna dalle donne e le informa che don Abbondio non sembra cambiato e che forse è meglio seguire il suo consiglio e andarsi a maritare lì dove andranno ad abitare.

La vedova suggerisce allora che il giovane porti lei e Lucia a fare una passeggiata, rassicurandolo che dopo pranzo andranno loro a parlare con don Abbondio.

Ma il curato è ancora sordo rispetto alla celebrazione del matrimonio, e usa ancora come scusa la cattura che grava sullo sposo e la paura di fargli un cattivo servizio, e consiglia nuovamente di andarsi a sposare altrove. Le donne ribattono, ma invano. Quindi subentra Renzo che annuncia l’arrivo del nuovo marchese al castello, in veste di successore di don Rodrigo. Dunque la morte di quest’ultimo è certa, e pare che il nuovo marchese sia un uomo onesto.

Don Abbondio è ancora diffidente, e Renzo fa allora venire il sagrestano a confermare la bontà del nuovo marchese. Finalmente don Abbondio è persuaso e si mostra disposto a sposarli.

Il giorno seguente il nuovo marchese fa visita a don Abbondio, gli dice che è a conoscenza delle traversie delle vicende dei due giovani “promessi sposi”, e chiede al prete come può aiutarli.

Allora don Abbondio gli suggerisce di comprare le case dei due giovani, che vogliono trasferirsi altrove, e il marchese acconsente di buon grado, dicendo al prete di scegliere un prezzo alto e di andare insieme immediatamente a comunicare la cosa ai due giovani.

Il prete, strada facendo, aggiunge una richiesta, vedendo il marchese così ben disposto, e dice che potrebbe, data la sua influenza a Milano, far togliere il mandato di cattura su Renzo. Il marchese acconsente nuovamente.
Arrivati a casa di Lucia e trovato lì anche Renzo, il marchese fa la sua proposta, raddoppiando l’offerta presentata da don Abbondio, e invita i futuri sposi a pranzare al castello il giorno successivo alle nozze. Quindi, dopo che il matrimonio venne finalmente celebrato, i giovani, con Agnese, don Abbondio e il curato, si dirigono al castello e qui firmano il contratto di vendita. La giovane coppia parte per la loro nuova casa nel Bergamasco.

Dopo poco però la nuova sistemazione risulta insopportabile a Renzo poiché viene a sapere che Lucia non vi è particolarmente apprezzata.

Infatti nel paese di Bortolo (nel Bergamasco) si è fatto un gran parlare di Lucia e delle sue traversie, perciò si è creata un’ansiosa attesa per l’arrivo della ragazza e una grande curiosità di vedere la sua bellezza che si crede straordinaria: quando però i paesani vedono che la giovane è una contadina dotata di modesta bellezza si fanno commenti non proprio lusinghieri, trovandole ora un difetto ora un altro, se non dicendo che è addirittura brutta.
Quindi quando il cugino Bortolo trova un nuovo filatoio troppo oneroso da acquistare da solo, e propone a Renzo di acquistarlo a metà, quest’ultimo acconsente felicemente.

La nuova attività si rivela redditizia; la famiglia, per la gioia di Agnese, si allarga (nasce Maria, e poi tanti altri e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere), e tutto procede in maniera soddisfacente.

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