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Un esperimento di fisica non può mai condannare un’ipotesi isolata, ma soltanto un insieme teorico”. […] Il fisico non può mai sottoporre al controllo dell’esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l’esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata. Eccoci ben lontani dal metodo sperimentale come volentieri lo concepisce chi è estraneo al suo funzionamento. Si pensa comunemente che ogni ipotesi di cui la fisica fa uso possa essere presa isolatamente e sottoposta al controllo dell’esperienza; e che poi, quando prove svariate e molteplici ne hanno constatato il valore, possa essere collocata in modo definitivo nel sistema della fisica. In realtà non è così. La fisica non è una macchina che si lascia smontare, non si può verificare ogni pezzo isolatamente e attendere, per ripararlo, che la solidità ne sia stata minuziosamente controllata. La scienza fisica è un sistema che bisogna prendere nella sua interezza, è un organismo di cui non si può far funzionare una parte senza che quelle più lontane entrino in gioco le une di più, le altre di meno, ma tutte in qualche misura. Se si rivela qualche intoppo, qualche disfunzione nel suo funzionamento, è attraverso l’effetto prodotto sul sistema nel suo insieme che il fisico dovrà indovinare l’organo che ha bisogno di essere rettificato o modificato, senza che gli sia possibile isolare l’organo ed esaminarlo a parte.
Pierre Duhem, “La théorie physique” (1906)
Secondo Duhem, ogni modello teorico (ad esempio, la meccanica newtoniana, o l’elettromagnetismo) costruito per spiegare una serie di fenomeni è costituito da un’insieme di ipotesi tra loro interconnesse e non falsificabili singolarmente. Un’eventuale falsificazione del modello alla luce dei dati sperimentali non chiarisce di per sé stessa l’ambiguità riguardo a quale (o quali) delle tante ipotesi è falsa.
La tesi di Duhem può essere formalizzata nel modo seguente:
Se (T1 & T2 & T3 & T4 … & Tn) allora O,
non-O,
dunque: non-(T1 & T2 & T3 & T4 … & Tn)
O è un’asserzione osservativa (enunciato osservativo), che descrive come dovrebbero andare le cose se fossero valide tutte le ipotesi T1, T2, …, Tn (ipotesi utilizzate nella deduzione di O). Ma i dati sperimentali ci indicano che l’asserzione osservativa O è falsa (non- O). Per modus tollens si deve concludere che l’insieme di ipotesi (T1 & T2 & T3 & T4 & T5) non è in accordo con l’esperienza, cioè che almeno una delle ipotesi che lo compongono è falsa. Tuttavia, in mancanza di altri dati, non si può decidere quale delle ipotesi sia quella falsa (indecidibilità).
L’olismo epistemologico di Duhem mette in dubbio la possibilità di una falsificazione empirica conclusiva di singole proposizioni scientifiche; per questa ragione è stato anche chiamato tesi della simmetria fra verificazione e falsificazione. Come la verificazione di una ipotesi non può essere conclusiva (per quanti cigni si possano osservare non potremo mai inferire la verità della proposizione “Tutti i cigni sono bianchi”), così anche la falsificazione di una ipotesi non può essere conclusiva (contro falsificazionismo di Popper).
Esistono due ipotesi riguardanti la natura della luce. Per Newton, Laplace e Biot, la luce consiste in proiettili lanciati a grandissima velocità; per Huygens, Young e Fresnel, la luce consiste in vibrazioni le cui onde si propagano all’interno di un etere. Le due ipotesi sono le uniche di cui si intravvede la possibilità: o il movimento è trascinato dai corpi che esso anima e al quale resta legato, oppure passa da un corpo a un altro. Seguiamo la prima ipotesi. Essa ci annuncia che la luce cammina più veloce nell’acqua che nell’aria; scegliamo la seconda: essa ci dice che la luce cammina più veloce nell’aria che nell’acqua. Montiamo l’apparecchio di Foucault e mettiamo in movimento lo specchio girevole. Sotto i nostri occhi vediamo formarsi due macchie luminose, l’una incolore e l’altra verdastra. Se la banda verdastra si trova a sinistra di quella incolore ciò sta a significare che la luce cammina più veloce nell’acqua che nell’aria e che l’ipotesi ondulatoria è falsa. Al contrario, se la banda verdastra è a destra della banda incolore, ciò sta a significare che la luce cammina più veloce nell’aria che nell’acqua e che l’ipotesi ondulatoria è condannata. Se poniamo l’occhio dietro la lente con cui esaminiamo le due macchie luminose, constateremo che la macchia verdastra si trova a destra di quella incolore. La disputa è risolta, la luce non è un corpo ma un movimento vibratorio propagato dall’etere. L’ipotesi dell’emissione è morta, quella ondulatoria non può essere messa in dubbio. L’esperimento cruciale ne ha fatto un nuovo articolo del credo scientifico.
Pierre Duhem, “La théorie physique” (1906)
Il brano di Duhem presenta un’analisi delle due principali teorie sulla natura della luce all’epoca: la teoria corpuscolare di Newton e la teoria ondulatoria di Huygens.
L’autore espone le due ipotesi evidenziando la loro fondamentale differenza: nella teoria corpuscolare la luce è composta da minuscoli proiettili, mentre nella teoria ondulatoria la luce è una vibrazione che si propaga attraverso un mezzo chiamato etere.
Duhem introduce poi l’esperimento di Foucault, considerato un esperimento cruciale, ovvero un esperimento in grado di risolvere in modo definitivo le controversie tra due teorie concorrenti, fornendo risultati inequivocabili che supportino una teoria e confutino l’altra. L’esperimento, basato sul principio della rotazione terrestre e sull’effetto Doppler, dimostrò che la luce si propaga più velocemente nel vuoto che nell’acqua, elevando la teoria ondulatoria a credo scientifico.
Tuttavia, dalla sua tesi Duhem trae la conseguenza che in fisica è impossibile fare un experimentum crucis. Nessuna ipotesi può essere messa a confronto con l’esperienza isolatamente come invece dovrebbe essere per consentire l’experimentum crucis. Nessuna teoria può essere confrontata da sola con i risultati di un esperimento. Insieme con ogni teoria sottoposta a verifica sperimentale sono sempre presenti molte assunzioni teoriche ausiliarie, alcune delle quali implicite, tra cui bisogna ricordare anche quelle che riguardano il funzionamento degli apparati sperimentali.
Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite questioni di geografia e di storia alle leggi più profonde di fisica atomica o financo della matematica pura e della logica, tutto è un edificio fatto dall’uomo che tocca l’esperienza solo lungo i suoi margini. […] Un disaccordo con l’esperienza alla periferia provoca un riordinamento all’interno del campo; si devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni. […] Una volta data una nuova valutazione di una certa proposizione dobbiamo darne un’altra anche a certe altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse con la prima o esse stesse proposizioni di connessioni logiche. […] Ma l’intero campo è determinato dai suoi punti limite, cioè l’esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le proposizioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria.
(Due dogmi dell’empirismo, Quine)
Nel suo articolo Due dogmi dell’empirismo (1951) il filosofo americano Quine muove una critica radicale a due presupposti (dogmi) fondamentali dell’empirismo logico:
- La distinzione tra giudizi/verità analitiche e giudizi/verità sintetiche; i neopositivisti logici avevano elaborato una teoria del significato (verificazionismo: il significato di un enunciato è il metodo della sua verifica, ovvero il metodo con cui empiricamente lo confermiamo o lo infirmiamo) che prevedeva una netta distinzione tra asserti sintetici, di cui possiamo riconoscere la verità confrontandoli con l’esperienza sensibile, e asserti analitici, che risultano veri indipendentemente da qualunque esperienza sensibile (poiché la loro verità è puramente concettuale), quindi immuni alla falsificazione empirica. Essendo, secondo Quine, impossibile tracciare coerentemente la distinzione tra questi asserti (che può essere compiuta solo servendosi di nozioni che la presuppongono, come quelle di significato, sinonimia e necessità), va rifiutata anche questa teoria del significato, soprattutto il suo dogma centrale;
- Il dogma del riduzionismo, secondo cui ciascun enunciato preso da sé, separatamente dagli altri, si può confermare o infirmare mettendolo a confronto con l’esperienza. Al suo posto, ispirandosi agli argomenti di Duhem, Quine propone un’immagine olistica del linguaggio e di tutta la conoscenza. L’unità di misura della significanza empirica è la scienza nella sua globalità. I nostri enunciati sul mondo esterno sono messi a confronto con l’esperienza sensibile non individualmente, ma come corpo unico, “insieme solidale”.
Quine paragona la scienza, nella sua totalità, a un campo di forza, o a una rete, che tocca l’esperienza solo ai suoi margini periferici: non esiste alcun enunciato sconnesso da altri e un’esperienza particolare non è mai vincolata a nessun enunciato particolare all’interno del campo, quindi i dati dell’esperienza sensibile non mettono in discussione un solo enunciato ma l’intero impianto / sistema conoscitivo. Qualunque enunciato (sia quelli in periferia, cioè in contatto con l’esperienza, sia quelli più centrali, come gli enunciati della logica e della matematica) può essere soggetto a revisione se ciò contribuisce a un miglior equilibrio complessivo (anche se di solito preferiamo mutare non il centro della rete, ma una porzione il più possibile piccola della periferia: infatti, nel caso di una smentita dell’esperienza, la scelta di quale parte del campo mutare dipende dalle nostre abitudini e dai nostri interessi). Ad esempio, è stata proposta la revisione della legge logica del terzo escluso, come via per semplificare la meccanica quantistica, e questa secondo Quine è in linea di principio una rivoluzione scientifica.
Quello di Quine, a differenza di Duhem, è un olismo applicato non solo alla metodologia scientifica, ma anche a tutte le nostre conoscenze, in particolare al linguaggio, per questo è definito anche semantico: la totalità della nostra conoscenza o delle nostre convinzioni è una costruzione fatta dall’uomo, che viene a contatto con l’esperienza soltanto lungo i margini. Ogni nostro enunciato, non solo quelli scientifici, è privo di un significato separato, scisso dal contesto, estrapolato dall’intero discorso di cui fa parte. Solo il linguaggio come un tutto unitario è propriamente significante.
Abbiamo un’induzione quando generalizziamo da un certo numero di casi per i quali qualcosa è vera e inferiamo che quella medesima cosa è vera per un’intera classe. Oppure quando troviamo che una certa cosa è vera in una certa percentuale di casi osservati e inferiamo quella medesima cosa è vera nella stessa percentuale per tutta la classe.
[L’ipotesi si presenta] quando troviamo qualche circostanza curiosa, che sarebbe spiegata dalla supposizione che sia la conseguenza di un caso ascrivibile a una regola generale, e perciò adottiamo quella supposizione.
La prima fase nell’avvio di un’ipotesi e nell’intrattenerla, sia come una semplice supposizione sia con un qualsiasi grado di fiducia, è un passo inferenziale che propongo di chiamare abduzione. Questo include una preferenza per una qualche ipotesi rispetto ad altre che ugualmente spiegherebbero i fatti, a patto che questa preferenza non si basi su alcuna conoscenza precedente che abbia un rapporto con la verità delle ipotesi, né su qualsiasi test preliminare di una qualsiasi delle ipotesi, dopo averle accettate in prova come ammissibili. Chiamo un’inferenza di questo tipo con un nome curioso, abduzione.
L’ipotesi non può essere ammessa, neanche come ipotesi, se non si suppone che renderebbe conto dei fatti o di alcuni di essi. La forma di inferenza, dunque, è questa: il fatto sorprendente, C, si osserva; ma se A fosse vera, C sarebbe un fatto normale, quindi c’è ragione di sospettare che A sia vera. Perciò, A non può essere abduttivamente congetturato a meno che il suo intero contenuto non sia già presente nella premessa “Se A fosse vera, C sarebbe un fatto normale”.
Secondo Peirce, il primo passo del ragionamento scientifico consiste nell’abduzione, quella catena inferenziale che ci permette di passare dalla constatazione di fatti che ci sorprendono, contrari rispetto a ciò che ci saremmo aspettati, alla formulazione di un’ipotesi esplicativa in sé verosimile e che renda verosimili quei fatti.
Un esempio di abduzione è: questi fagioli sono bianchi; tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi; dunque, questi fagioli vengono da questo sacchetto. Osservando un fatto sorprendente (abbiamo dei fagioli bianchi) e avendo a disposizione una regola in grado di spiegarlo (sappiamo che tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi) possiamo ipotizzare che si dia il caso che questi fagioli vengano da questo sacchetto.
L’abduzione è il motore della ricerca scientifica: senza rischiare un’ipotesi, senza scommettere su una possibile spiegazione, non si può fare alcun passo avanti nella scienza.
L’ipotesi a cui si giunge per abduzione è preferibile rispetto ad altre. Questa preferenza non è basata su prove o conoscenze preesistenti, ma su un’intuizione o un “istinto esplicativo”.
L’ipotesi abdotta non è certa come una conclusione deduttiva: per poter essere ammessa, deve superare il vaglio dell’esperienza.
Deduzione
- Regola: tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi.
- Caso: questi fagioli vengono da questo sacchetto.
- Risultato: questi fagioli sono bianchi.
Date la regola e il caso, il risultato non può essere diverso e rappresenta semplicemente il rendere esplicito ciò che era già implicito nelle premesse.
Induzione
- Caso: questi fagioli vengono da questo sacchetto.
- Risultato: questi fagioli sono bianchi.
- Regola: tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi.
L’induzione consente di ipotizzare una regola a partire da un caso e da un risultato: essa si basa sull’assunzione che determinate regolarità osservate in un fenomeno continueranno a manifestarsi nella stessa forma anche in futuro.
Tutto il ragionamento positivo consiste per natura nel giudicare la proporzione di qualcosa all’interno di un’intera collezione per mezzo della proporzione trovata in un campione. Di conseguenza, vi sono tre cose che non possiamo mai sperare di raggiungere con il ragionamento, ovvero la certezza assoluta, l’esattezza assoluta, l’universalità assoluta. Non possiamo essere assolutamente certi che le nostre conclusioni siano anche approssimativamente vere, in quanto il campione potrebbe essere completamente diverso dal resto della collezione. Non possiamo pretendere di essere neppure probabilmente esatti, in quanto il campione non consiste che di un numero finito di esempi e ammette soltanto valori particolari della proporzione cercata. Infine, anche se potessimo stabilire con certezza ed esattezza assolute che il rapporto tra gli uomini peccatori e tutti gli uomini è di 1a 1, resterebbe ancora spazio, tra le generazioni infinite degli uomini, per un qualche numero finito di uomini senza peccato, senza per questo violare la proporzione. […] Ora, se l’esattezza, la certezza e l’universalità non possono essere raggiunte con il ragionamento, non vi sono certo altri mezzi con cui raggiungerle.
Peirce, sostenendo il carattere autenticamente fallibile e rivedibile della scienza, più in generale della conoscenza (nega la possibilità di ottenere una conoscenza assolutamente certa, non potendo escludere l’errore), riconosce i limiti del ragionamento positivo: l’impossibilità di raggiungere la certezza assoluta, l’esattezza assoluta e l’universalità assoluta. Se il ragionamento positivo non può raggiungere questi traguardi assoluti, non esistono altri metodi in grado di farlo.
Qualcuno suggerirà la rivelazione. Vi sono scienziati e persone influenzate dalla scienza che ridono della rivelazione; e certo la scienza ci ha insegnato a considerare la testimonianza in una luce tale da far sembrare piuttosto debole l’intera dottrina teologica delle “Evidenze”. Tuttavia, non ritengo filosofico rifiutare la possibilità di una rivelazione. Eppure, ciò concesso, come logico dichiaro che le verità rivelate - ovvero le verità che non hanno nulla a proprio favore se non le rivelazioni fatte a pochi individui - costituiscono di gran lunga la classe di verità più incerta che vi sia. Qui non è in questione l’universalità, dato che la rivelazione è in se stessa sporadica e miracolosa. E neppure l’esattezza matematica, dal momento che la rivelazione non avanza una simile pretesa. Essa pretende, però, di essere certa; e contro di ciò abbiamo tre obiezioni definitive. Primo, non possiamo essere assolutamente certi che una qualsiasi asserzione data sia davvero ispirata, poiché questo può essere stabilito solo con il ragionamento. Non possiamo provarlo neppure con un grado molto alto di probabilità. Secondo, anche se fosse ispirata, non potremmo essere sicuri, o quasi sicuri, che l’asserzione sia vera. Sappiamo che in un’edizione della Bibbia uno dei comandamenti è stato stampato omettendo il non. Tutte le cose ispirate sono state soggette alle distorsioni o alle coloriture umane. Inoltre, non possiamo penetrare nei disegni dell’Altissimo, o abbozzare un qualche principio che governi la sua condotta. Non conosciamo i suoi imperscrutabili scopi, né possiamo comprendere i suoi progetti. Non possiamo dire se Egli non trovi appropriato ispirare i suoi servi con degli errori. In terzo luogo, una verità che si fonda sull’autorità della sola ispirazione è per natura alquanto incomprensibile; e non possiamo mai essere sicuri di capirla bene. Poiché non c’è modo di evadere queste difficoltà, sostengo che la rivelazione, lungi dal concederci una qualche certezza, dà risultati meno certi di altre fonti di informazione. E sarebbe così anche se la rivelazione fosse molto più semplice di quanto è.
Peirce non nega la possibilità della rivelazione, ma ne sottolinea l’incertezza. Le verità rivelate, non avendo altre prove se non la loro presunta origine divina, sono intrinsecamente incerte per la loro dubbia autenticità (non possiamo mai essere certi che un’affermazione sia davvero ispirata divinamente), per i possibili errori (anche se ispirata, la rivelazione potrebbe contenere errori dovuti a trasmissione, traduzione o interpretazione umana) e per la loro incomprensibilità (le verità rivelate, basate sulla sola autorità della loro ispirazione e non sulla ragione, possono risultare complesse e di difficile comprensione).
Ma, si dirà, hai dimenticato le leggi che ci sono rese note a priori, gli assiomi della geometria, i principi della logica, le massime della causalità, e cose del genere. Queste sono assolutamente certe, senza eccezioni ed esatte. A ciò replico che mi sembra che vi sia la dimostrazione storica più positiva che le idee innate sono particolarmente incerte e mescolate all’errore, e quindi, a fortiori, non senza eccezioni. Questa dimostrazione storica non è ovviamente infallibile, ma è molto forte. E quindi vi chiedo: come fate a sapere che la verità a priori è certa, senza eccezioni ed esatta? Non potete saperlo tramite il ragionamento. Esso, infatti, sarebbe soggetto a incertezza e inesattezza. Non resta allora che questo: lo sapete a priori; ovvero, prendete i giudizi a priori al loro valore nominale, senza esercitare alcuna critica o richiedere alcuna credenziale. Ciò vuol dire chiudere la porta dell’indagine.
Peirce contesta l’idea che le verità a priori, come gli assiomi della geometria o i principi della logica, siano assolutamente certe, senza eccezioni ed esatte. Egli sostiene che la storia dimostra il contrario: le idee innate non sono immutabili e scolpite nella pietra, ma piuttosto soggette a evoluzione e revisione.
Ah! Ma mi si dirà, tu dimentichi l’esperienza diretta. Questa non è né certa né incerta, poiché non afferma nulla - semplicemente è. Vi sono illusioni, allucinazioni e sogni. Ma non c’è da sbagliarsi: tali cose appaiono davvero, e l’esperienza diretta si riferisce unicamente all’apparenza. Non implica alcun errore, perché non testimonia nulla se non la sua stessa apparenza. Per la stessa ragione non concede alcuna certezza. Non è esatta, perché lascia molto nel vago; ma non è neanche inesatta; vale adire, non ha falsa esattezza. Tutto ciò è vero dell’esperienza diretta quando si presenta la prima volta. Ma quando la si critica è passata ed è resa presente dalla memoria. E gli inganni e l’inesattezza della memoria sono proverbiali.
L’esperienza diretta, che sia immediata o rievocata attraverso la memoria, non è una fonte di conoscenza infallibile. La sua mancanza di asserzioni esplicite (non afferma nulla, semplicemente è) la rende immune all’errore in senso stretto, ma non le garantisce certezza. Inoltre, la rievocazione di esperienze passate attraverso la memoria introduce un ulteriore elemento di incertezza, data la fallibilità della memoria stessa.
Qualcuno vorrà gentilmente dire al resto del pubblico qual è la caratteristica più marcata e invadente della natura? Ovviamente, la sua varietà. Ebbene, non so se sia logicamente accurato dire che questa meravigliosa e infinita diversità e molteplicità delle cose sia un segno di spontaneità. Per formazione sono un analista logico e dire che questa è una manifestazione di spontaneità mi sembra un’analisi fallace. Direi piuttosto che è spontaneità. Non so cos’altro si possa trarre dal significato di spontaneità se non novità, freschezza e diversità. Posso farvi una domandina? L’operazione della legge [fisica, in senso lato] può creare diversità dove prima non ve n’era? Ovviamente no; in circostanze date la legge meccanica prescrive un solo risultato determinato. […] La legge prescrive risultati identici a partire da circostanze identiche. Questo è ciò che implica la parola legge. E allora tutta questa esuberante diversità della natura non può essere il risultato di una legge. Ebbene, che cos’è la spontaneità? È la caratteristica del non risultare per legge da qualcosa di antecedente. Quindi, l’Universo non è un mero risultato meccanico dell’operazione della cieca legge. La più ovvia delle sue caratteristiche non può essere spiegata in tal modo.
Peirce si concentra sulla varietà come caratteristica distintiva e pervasiva della natura, che chiama spontaneità. Le leggi meccaniche, date determinate circostanze, prescrivono un unico risultato determinato, per cui non possono creare diversità dove prima non esisteva. L’Universo non è un semplice prodotto meccanico di leggi cieche, ma contiene una componente di novità e imprevedibilità che non può essere spiegata unicamente attraverso il determinismo.
Ma li fallibilismo non può essere valutato nel suo vero significato sinché non si prende in considerazione l’evoluzione. È questo ciò a cui il mondo ha maggiormente pensato negli ultimi quarant’anni, nonostante l’idea generale sia in sé piuttosto antica. La filosofia di Aristotele, che ha dominato li mondo per così tanto e che in gran misura esercita ancora una tirannia sulle menti di macellai e panettieri che non l’hanno mai sentita nominare, non è altro che evoluzionismo metafisico. Evoluzione, nel senso più ampio del termine, non vuol dire altro che crescita. La riproduzione, ovviamente, è solo uno degli episodi della crescita. E che cos’è la crescita? Non il semplice aumento. Spencer dichiara che è il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, o la diversificazione. Si tratta di un fattore certamente importante. Pensate a quanto sia sbalorditiva quest’idea della diversificazione! In natura abbiamo forse qualcosa come l’aumento della varietà? Sarebbero le cose così semplici, sarebbe la varietà minore nella nebulosa originaria da cui si suppone sia cresciuto li Sistema solare rispetto a quella che c’è ora, quando la terra e li mare brulicano di forme animali e vegetali, con le loro intricate anatomie e le loro ancora più meravigliose economie? Sembrerebbe ci sia stato un aumento della varietà, non vi pare? Eppure, la legge della meccanica, quella legge che l’infallibilista scientifico ci dice costituisca l’unico modo d’agire della natura, non può mai produrre diversificazione. Questa è una verità matematica - una proposizione della meccanica analitica. E tutti possono rendersi conto, senza alcun apparato algebrico, che la legge della meccanica da antecedenti simili può produrre solo conseguenti simili. È l’idea stessa di legge. Quindi, se fatti osservati puntano in direzione di crescita reale, puntano verso un altro modo d’agire, verso quella spontaneità per la quale l’infallibilismo non produce alcuna gabbia utile.
L’evoluzione rappresenta un argomento chiave a favore del fallibilismo. L’evoluzione non si limita al semplice aumento di quantità, ma implica un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, una diversificazione che si manifesta in modo evidente in natura. Peirce porta come esempio la complessità e la varietà del sistema solare rispetto alla nebulosa originaria da cui si presume sia nato. Le leggi della meccanica, considerate dall’infallibilismo scientifico come l’unico modo di agire della natura, non sono in grado di spiegare la varietà e la complessità che osserviamo nel mondo.
Riconoscendo il ruolo della spontaneità, della creatività e della varietà del cosmo, Peirce sfida una visione meccanicistica e deterministica dell’universo.
Che cosa c’è nell’Universo, la cui esistenza ci sia nota grazie al fatto che ne abbiamo conoscenza diretta? Fin qui, abbiamo risposto che abbiamo conoscenza diretta dei dati dei nostri sensi e, probabilmente, di noi stessi. Queste cose, sappiamo che esistono. E sappiamo che sono esistiti nel passato i dati sensibili passati, che ricordiamo: questa conoscenza tiene luogo dei nostri dati. Ma se dobbiamo poter trarre deduzioni da questi dati, se dobbiamo saper qualcosa dell’esistenza della materia, dell’esistenza degli altri, dell’esistenza del passato prima che cominci la nostra memoria individuale, o del futuro, dobbiamo conoscere principi generali di un qualche tipo, per mezzo dei quali possiamo trarre tali deduzioni. Dobbiamo sapere che l’esistenza di una cosa, A, è segno dell’esistenza di qualche altra cosa, B, contemporanea ad A o anteriore o posteriore, come per esempio il tuono è segno della precedente esistenza del fulmine. Se non sapessimo questo, non potremmo mai estendere la nostra conoscenza oltre la sfera dell’esperienza personale; che, come abbiamo visto, è paurosamente limitata. Il problema che dobbiamo esaminare ora è se questo allargamento sia possibile; e se sì, come avvenga.
Il punto di partenza della conoscenza, secondo Russell, è l’esperienza individuale/personale (la teoria della conoscenza ha una certa soggettività essenziale): l’esperienza immediata e privata costituisce la sfera della conoscenza diretta, dei cui oggetti siamo direttamente consapevoli, senza la mediazione di alcun processo di inferenza. Oggetti della conoscenza diretta sono i dati sensibili, i dati dell’introspezione (è probabile che abbiamo conoscenza immediata di noi stessi: non potremmo conoscere la verità della proposizione “io ho conoscenza immediata dei dati sensibili” se non avessimo conoscenza immediata di ciò che chiamiamo “io”) e i dati forniti dalla memoria. Il passaggio dalla conoscenza di questi dati alla conoscenza delle realtà fisiche (oggetti) e psichiche (soggetti diversi da noi) anteriori o future alla nostra esistenza, che non ci sono note direttamente, richiede dei principi generali, da cui possiamo inferire l’esistenza di queste realtà. Russell si chiede se sia possibile e, se sì, come avvenga il superamento da parte della nostra conoscenza dei limiti dell’esperienza personale.
Tutti siamo convinti che il Sole si leverà domattina. Perché? Questa convinzione è soltanto la conseguenza cieca dell’esperienza passata, o si può giustificare come una convinzione ragionevole? Non è facile trovare una prova che ci permetta di giudicare se una convinzione di questo genere sia ragionevole o meno, ma possiamo se non altro stabilire quali convinzioni generali basterebbero, se fossero vere, a giustificare li giudizio che il Sole si leverà domani, e molti altri giudizi simili, sui quali si basa la nostra condotta. È ovvio che se ci domandassero perché crediamo che li Sole si leverà domani, noi risponderemmo con tutta naturalezza: “Perché da sempre si leva ogni giorno”. Abbiamo la ferma convinzione che si leverà in futuro perché si è levato in passato. Se ci chiederanno di spiegare perché crediamo che continuerà a levarsi come ha fatto sin qui, ci potremo richiamare alle leggi del moto: la Terra, diremo, è un corpo che ruota liberamente su se stesso, e questi corpi continuano a ruotare a meno che intervenga qualche ostacolo esterno, e non vi è nulla che possa intervenire a ostacolare il moto della Terra fra ora e domani. Naturalmente si potrebbe chiedere se siamo proprio sicuri che nulla possa intervenire dall’esterno, ma non è questo il dubbio che ci interessa. La vera domanda da porre è se le leggi del moto rimarranno valide sino a domani. Quando sia sollevato questo dubbio, ci troveremo nella stessa posizione in cui eravamo quando fu sollevato per al prima volta il dubbio circa il levare del Sole.
La sola ragione per credere che le leggi del moto rimarranno valide sino a domani è che esse hanno operato sino a ora, a quanto ci permette di giudicare la nostra conoscenza del passato. È vero che il passato ci dà un maggior numero di prove in favore delle leggi del moto che in favore del levar del Sole, perché li levar del Sole è solo un caso particolare di adempimento delle leggi del moto, e vi sono innumerevoli altri casi particolari. Ma la vera domanda è: un qualsiasi numero di casi di adempimento di una legge nel passato ci dà la prova che quella legge sarà adempiuta nel futuro? Se la risposta è negativa, è chiaro che non abbiamo nessun motivo di attenderci che il Sole si levi domani, o di aspettarci che il pane che mangeremo nel nostro prossimo pasto non ci avveleni, o di nutrire qualsiasi altra delle inconsce convinzioni che regolano la nostra condotta quotidiana. Bisogna dire che tutto ciò che attendiamo è solo probabile che si verifichi; sicché non dobbiamo cercare una prova che la nostra attesa deve essere esaudita, ma solo qualche motivo in favore dell’opinione che è probabile che sia esaudita.
Russell affronta la questione cruciale della giustificazione delle nostre aspettative sul futuro. Prendendo l’esempio del sorgere del sole come caso emblematico, Russell analizza la nostra convinzione che esso sorgerà anche domani come derivata da un’esperienza passata: il sole è sempre sorto in passato, quindi ci aspettiamo che lo faccia anche in futuro.
- Un induttivista basa le previsioni su casi «simili» nell’esperienza passata. Il sole sorgerà domani perché è sorto fino a oggi per lunghissimo tempo, e questa fiducia («grado di certezza») cresce al crescere degli eventi positivi. Possiamo quantificare il grado di certezza, per esempio probabilisticamente.
- Un induttivista si basa sull’aspettativa dall’uniformità della natura.
L’esperienza ci ha mostrato fin qui che il frequente presentarsi di certe successioni uniformi o di casi di coesistenza è stato causa della nostra attesa che la stessa successione o coesistenza si verifichi alla prossima occasione. Un cibo con una data apparenza di solito ha quel certo sapore, e siamo sgradevolmente delusi quando scopriamo che l’apparenza familiare si accompagna a un sapore insolito. Le cose che vediamo vengono associate, per abitudine, a certe sensazioni tattili che ci aspettiamo di provare toccandole; una delle qualità più paurose dei fantasmi è il loro non potere essere toccati. Persone prive di cultura che si recano all’estero per la prima volta sono sorprese fino all’incredulità nel vedere che la gente non capisce la loro lingua. Questo tipo di associazione non è limitato agli uomini: è molto forte anche tra gli animali. Un cavallo che sia stato condotto spesso lungo una certa strada oppone resistenza al tentativo di condurlo in direzione diversa. Gli animali domestici si aspettano di ricevere li cibo quando vedono la persona che di solito gliene porge. Sappiamo che questa fiducia piuttosto sprovveduta nell’uniformità può indurre in errore. L’uomo da cui il pollo ha ricevuto il cibo per ogni giorno della propria vita gli tirerà alla fine il collo, dimostrando che un’idea meno primitiva dell’uniformità della natura sarebbe stata utile all’animale. Ma per quanto ingannevoli siano queste attese, esse tuttavia esistono. Basta il fatto che qualcosa sia avvenuto un certo numero di volte perché uomini e animali si attendano che debba accadere di nuovo. Così i nostri istinti ci danno a credere che il Sole si leverà domani, ma noi potremmo essere in una situazione simile a quella del pollo a cui hanno inaspettatamente tirato li collo.
Russell approfondisce il tema dell’associazione per abitudine e del suo ruolo nel determinare le nostre aspettative sul futuro. Egli evidenzia come la frequente ripetizione di un insieme o di una successione di eventi ci porti a sviluppare la convinzione che tale insieme o successione si ripeteranno anche in futuro, anche se questa convinzione non è sempre basata su una solida base razionale.
- Un cibo con un certo aspetto ha un sapore prevedibile.
- Le cose che vediamo sono associate a determinate sensazioni tattili.
- Persone che viaggiano in un paese straniero si aspettano che la gente capisca la loro lingua.
- Cavalli abituati a percorrere una certa strada resistono a deviazioni.
- Animali domestici associano la figura del padrone al cibo.
Dobbiamo dunque distinguere il fatto che le uniformità verificatesi nel passato determinano l’attesa del futuro, dalla questione se vi sia qualche ragionevole motivo di dar peso a queste attese, dopo che sia stato posto il problema della loro validità. Il problema che dobbiamo discutere è se vi sia qualche ragione di credere in ciò che viene chiamato l’uniformità della natura. Credere nell’uniformità della natura significa credere che tutto ciò che è accaduto o accadrà sia un esempio di qualche legge generale alla quale non vi sono eccezioni. Una fiducia cieca e piuttosto stupida come quelle che abbiamo esaminato fin qui è sempre soggetta a eccezioni e delusioni. Ma la scienza di solito presume, se non altro come ipotesi di lavoro, che le regole generali a cui si danno eccezioni possano essere sostituite da regole generali senza eccezioni. “I corpi liberi nell’aria cadono” è una regola generale di cui i palloni egli aeroplani costituiscono le eccezioni. Ma le leggi del moto e la legge di gravità, che spiegano perché la maggior parte dei corpi cada, spiegano anche perché palloni e aeroplani si sollevino; sicché essi non rappresentano più eccezioni alle leggi del moto e alla legge di gravità. La convinzione che il Sole si leverà domani potrebbe diventare errata se la Terra venisse improvvisamente in contatto con un grosso corpo che ne arrestasse al rotazione; ma le leggi del moto e la legge di gravità non sarebbero perciò infrante. Il compito della scienza è di scoprire leggi di uniformità, come le leggi del moto e la legge di gravità, alle quali, fin dove giunge la nostra esperienza, non vi siano eccezioni. In questa ricerca la scienza ha avuto un notevole successo, e bisogna riconoscere che sino a oggi queste leggi di uniformità non sono state contraddette. Così, eccoci tornati al problema: dato che non sono mai state contraddette in passato, abbiamo motivo di supporre che non lo saranno in futuro?
Russell pone un interrogativo fondamentale: come possiamo sapere che le leggi di uniformità del passato saranno valide anche in futuro? Egli pone questa domanda come il problema centrale della filosofia induttiva.
È stato detto che possiamo sapere che il futuro somiglierà al passato perché ciò che fu futuro è sempre diventato il passato, e sempre è stato trovato somigliante al passato, di modo che noi abbiamo realmente esperienza del futuro, cioè di tempi che furono una volta futuri, e che possiamo chiamare futuri passati. Ma un tale argomento è in realtà una petizione di principio. Abbiamo esperienza di futuri passati, ma non di futuri futuri, e la domanda è: i futuri futuri somiglieranno ai futuri passati? Non è domanda cui si possa rispondere con un argomento che prende lo spunto solo dai futuri passati.
Dobbiamo dunque cercare ancora qualche principio che ci metta in grado di sapere se il futuro seguirà le stesse leggi del passato. Il riferimento al futuro non è del resto necessario. Lo stesso problema si pone quando applichiamo le leggi che la nostra esperienza ha provato valide a cose passate di cui non abbiamo esperienza; come accade, per esempio, nella geologia o per le teorie sull’origine del Sistema solare. La domanda che in realtà dobbiamo porre è: “Quando vediamo che due cose si presentano spesso insieme, e non si conosce nessun esempio del ricorrere dell’una senza l’altra, il ricorrere di una delle due, in un caso nuovo, dà motivo di credere che si presenterà anche l’altra?” Dalla nostra risposta a questa domanda dipende la validità di ogni nostra attesa futura, di tutti i risultati ottenuti per induzione, e in pratica di tutte le credenze su cui si basa la nostra vita quotidiana.
Bisogna ammettere, anzitutto, che il fatto che due cose si siano presentate spesso insieme e mai separatamente non basta, da solo, a dimostrare che due cose si presenteranno di nuovo insieme nel prossimo caso che esamineremo. Possiamo al massimo sperare che quanto più spesso le cose si presentano assieme, tanto più probabile diventa che si presenteranno assieme un’altra volta, e che, quando si siano presentate assieme abbastanza spesso, la probabilità si avvicinerà al grado di certezza; senza però giungervi mai, perché sappiamo che nonostante le frequenti ripetizioni alla fine può talvolta accadere un fatto del tutto diverso, come nel caso del pollo cui hanno tirato li collo. Cosicché la probabilità è tutto ciò che dobbiamo cercare.
L’induttivismo è la concezione secondo cui le teorie scientifiche sono essenzialmente generalizzazioni di dati osservativi nel senso che
- vengono scoperte a partire da un gran numero di osservazioni mediante generalizzazione,
- sono giustificate a partire dalle asserzioni osservative mediante inferenze induttive.
L’induzione è un’inferenza che ci permette di «estendere la nostra conoscenza oltre la sfera dell’esperienza personale».
L’induzione è alla base del nostro modo di comprendere il mondo, c’è in noi la tendenza a ragionare induttivamente e ad affidarci a quanto abbiamo esperito in passato per anticipare quanto vivremo in futuro. Hume ha mostrato che l’induzione non può essere «dimostrata» (giustificata deduttivamente), ma può essere sostenuta ricorrendo a un principio di «uniformità della natura»: tutto ciò che accade, è accaduto o accadrà è un esempio di qualche legge generale alla quale non vi sono eccezioni. La nostra fiducia nell’induzione dipende dalla nostra credenza che la natura obbedisca a leggi universali. Secondo Hume, non è possibile dimostrare il principio di uniformità della natura e non è possibile giustificarlo sulla base dei dati empirici.
Secondo Bertrand Russell l’induzione è necessaria alla scienza, ma non infallibile. Diamo per scontato che lanatura sia uniformee si comporterà sempre allo stesso modo. Siamo abituati al fatto che la mattina sorga il sole, ma potrebbe essere che domani non sia così. L’errore del tacchino induttivista è stato quello di assumere che quanto ha esperito in passato si ripeterà necessariamente anche in futuro, un errore che commettiamo tutti molto spesso, ma al quale dovremmo prestare attenzione se non vogliamo fare la stessa fine.
Russell ridefinisce i processi induttivi non come fissazioni di certezze, ma come assegnazioni di probabilità. L’induzione non può mai dimostrare la verità delle teorie, può solo accrescerne la probabilità. Se non abbiamo mai osservato un A che non è B, allora quanto più grande è il numero di casi in cui abbiamo osservato che un A è B, tanto maggiore è la probabilità che tutti gli A siano B (che il prossimo A osservato sia B).
Prima formulazione del principio di induzione
- Quando una cosa di tipo A si presenta insieme ad una cosa di un altro tipo B, e non si è mai presentata separatamente da una cosa del tipo B, quanto più grande è il numero dei casi in cui A e B si sono presentate assieme tanto maggiore è la probabilità che si presenteranno insieme in un nuovo caso in cui si sa che è presente una delle due.
- In circostanze eguali, un numero sufficiente di casi in cui due fenomeni si siano presentati assieme farà della probabilità che si presentino ancora assieme quasi una certezza; e farà sì che questa probabilità si avvicini illimitatamente alla certezza.
È significativo della difficoltà insita in ogni tentativo di formulare il principio di induzione in modo soddisfacente che Russell, nella prima formulazione del principio di induzione, incorra in errore. Supponiamo che A stia per corvo e B per nero. Applicando il principio dovremmo concludere che è altamente probabile che A e B si presenteranno assieme in un nuovo caso in cui si sa che è presente una delle due. Di conseguenza, se sappiamo che un oggetto è nero dovremmo inferire che si tratta verosimilmente di un corvo, il che è evidentemente scorretto. Tuttavia, basta riformulare il primo punto specificando che “tanto maggiore è la probabilità che si presenteranno assieme nel caso in cui si sa che A è presente”.
Seconda formulazione del principio di induzione
- Quanto più grande è il numero dei casi in cui una cosa del tipo A si presenta associata a una cosa del tipo B, tanto più è probabile (se non si conosce nessun caso in cui l’associazione sia mancata) che A sia sempre associato a B.
- A parità di circostanze, un numero sufficiente di casi di associazione di A con B darà quasi la certezza che A sia sempre associato a B, e farà sì che questa legge generale si avvicini illimitatamente alla certezza.
Simplicio: Aristotele, per quanto mi sovviene, insurge contro alcuni antichi, i quali introducevano il vacuo come necessario per il moto, dicendo che questo senza quello non si potrebbe fare. A questo contrapponendosi Aristotele, dimostra che, all’opposito, il farsi (come veggiamo) il moto distrugge la posizione del vacuo.
Galileo Galilei sostenne che la terra gira intorno al sole e che la velocità di caduta dei gravi è indipendente dal loro peso, pur essendo consapevole che ciò era contrario all’opinione comune e all’esperienza ordinaria, e fornì argomentazioni molto sofisticate per convincere i suoi contemporanei che l’opinione comune era sbagliata e l’esperienza ordinaria fuorviante. L’argomento con cui Galileo mostra l’infondatezza della teoria aristotelica sulla caduta dei gravi è un brillante esempio di confutazione, cioè di un ragionamento in cui si mostra che una certa tesi non può essere vera in quanto da essa, unitamente ad altre tesi accettate, può essere dedotta una contraddizione.
Nella prima giornata dei Discorsi intorno a due nuove scienze Galileo presenta una celebre confutazione della tesi aristotelica secondo cui la velocità di caduta di un corpo è proporzionale al suo peso. Aristotele, a sua volta, aveva usato questa tesi per confutare la tesi democritea secondo cui il movimento comporta necessariamente l’esistenza del vuoto.
Sagredo: Ma io, Sig. Simplicio, che n’ho fatto la prova, vi assicura che una palla d’artiglieria, che pesi cento, dugento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo solamente l’arrivo in terra della palla d’un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di dugento braccia.
La leggenda vuole che Galileo abbia fatto cadere due sfere di massa diversa dalla Torre diPisafacendo vedere che le due sfere toccavano il suolo quasi contemporaneamente, per dimostrare che il loro tempo di discesa era indipendente dalla loro massa. Che questa “prova sperimentale” di cui parla Galileo siano state veramente effettuate con l’esito da lui dichiarato è questione storicamente piuttosto dubbia. In effetti, se si lasciano cadere una una piuma e un martello, il secondo cade molto più velocemente della prima, dando apparentemente ragione ad Aristotele.
Galileo intuiva che questo effetto dipendeva dalla resistenza del mezzo (in questo caso l’aria), e che quindi in assenza di attrito il martello e la piuma avrebbero toccato terra nello stesso momento, ma non era in grado di produrre una conferma sperimentale di questa intuizione. Tuttavia riuscì con un ragionamento a mostrare che l’assunzione di Aristotele poteva essere confutata (cioè dimostrata falsa) del tutto indipendentemente dall’esperienza.
Salviati: Ma senz’altre esperienze, con breve e concludente dimostrazione possiamo chiaramente provare non esser vero che un mobile più grave si muova più velocemente d’un altro men grave […]. Però ditemi Signor Simplicio, se voi ammettete che di ciascheduno corpo grave cadente sia una da natura determinata velocità […].
Simplicio: Non si può dubitare […]
Salviati: Quando dunque noi avessimo due mobili, le naturali velocità dei quali fussero ineguali, è manifesto che se noi congiugnessimo il più tardo col più veloce, questo dal più tardo sarebbe in parte ritardato, ed il tardo in parte velocitato dall’altro più veloce. Non concorrete voi meco in quest’opinione?
Simplicio: Parmi che così debba indubitabilmente seguire.
Dunque Simplicio accetta le premesse iniziali da cui muove la confutazione di Salviati. A questo punto Salviati aggiunge a queste premesse, che sono accettate da Simplicio, la tesi aristotelica che vuole confutare.