Autori Flashcards

1
Q

Un esperimento di fisica non può mai condannare un’ipotesi isolata, ma soltanto un insieme teorico”. […] Il fisico non può mai sottoporre al controllo dell’esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l’esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata. Eccoci ben lontani dal metodo sperimentale come volentieri lo concepisce chi è estraneo al suo funzionamento. Si pensa comunemente che ogni ipotesi di cui la fisica fa uso possa essere presa isolatamente e sottoposta al controllo dell’esperienza; e che poi, quando prove svariate e molteplici ne hanno constatato il valore, possa essere collocata in modo definitivo nel sistema della fisica. In realtà non è così. La fisica non è una macchina che si lascia smontare, non si può verificare ogni pezzo isolatamente e attendere, per ripararlo, che la solidità ne sia stata minuziosamente controllata. La scienza fisica è un sistema che bisogna prendere nella sua interezza, è un organismo di cui non si può far funzionare una parte senza che quelle più lontane entrino in gioco le une di più, le altre di meno, ma tutte in qualche misura. Se si rivela qualche intoppo, qualche disfunzione nel suo funzionamento, è attraverso l’effetto prodotto sul sistema nel suo insieme che il fisico dovrà indovinare l’organo che ha bisogno di essere rettificato o modificato, senza che gli sia possibile isolare l’organo ed esaminarlo a parte.
Pierre Duhem, “La théorie physique” (1906)

A

Secondo Duhem, ogni modello teorico (ad esempio, la meccanica newtoniana, o l’elettromagnetismo) costruito per spiegare una serie di fenomeni è costituito da un’insieme di ipotesi tra loro interconnesse e non falsificabili singolarmente. Un’eventuale falsificazione del modello alla luce dei dati sperimentali non chiarisce di per sé stessa l’ambiguità riguardo a quale (o quali) delle tante ipotesi è falsa.

La tesi di Duhem può essere formalizzata nel modo seguente:
Se (T1 & T2 & T3 & T4 … & Tn) allora O,
non-O,
dunque: non-(T1 & T2 & T3 & T4 … & Tn)

O è un’asserzione osservativa (enunciato osservativo), che descrive come dovrebbero andare le cose se fossero valide tutte le ipotesi T1, T2, …, Tn (ipotesi utilizzate nella deduzione di O). Ma i dati sperimentali ci indicano che l’asserzione osservativa O è falsa (non- O). Per modus tollens si deve concludere che l’insieme di ipotesi (T1 & T2 & T3 & T4 & T5) non è in accordo con l’esperienza, cioè che almeno una delle ipotesi che lo compongono è falsa. Tuttavia, in mancanza di altri dati, non si può decidere quale delle ipotesi sia quella falsa (indecidibilità).

L’olismo epistemologico di Duhem mette in dubbio la possibilità di una falsificazione empirica conclusiva di singole proposizioni scientifiche; per questa ragione è stato anche chiamato tesi della simmetria fra verificazione e falsificazione. Come la verificazione di una ipotesi non può essere conclusiva (per quanti cigni si possano osservare non potremo mai inferire la verità della proposizione “Tutti i cigni sono bianchi”), così anche la falsificazione di una ipotesi non può essere conclusiva (contro falsificazionismo di Popper).

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Q

Esistono due ipotesi riguardanti la natura della luce. Per Newton, Laplace e Biot, la luce consiste in proiettili lanciati a grandissima velocità; per Huygens, Young e Fresnel, la luce consiste in vibrazioni le cui onde si propagano all’interno di un etere. Le due ipotesi sono le uniche di cui si intravvede la possibilità: o il movimento è trascinato dai corpi che esso anima e al quale resta legato, oppure passa da un corpo a un altro. Seguiamo la prima ipotesi. Essa ci annuncia che la luce cammina più veloce nell’acqua che nell’aria; scegliamo la seconda: essa ci dice che la luce cammina più veloce nell’aria che nell’acqua. Montiamo l’apparecchio di Foucault e mettiamo in movimento lo specchio girevole. Sotto i nostri occhi vediamo formarsi due macchie luminose, l’una incolore e l’altra verdastra. Se la banda verdastra si trova a sinistra di quella incolore ciò sta a significare che la luce cammina più veloce nell’acqua che nell’aria e che l’ipotesi ondulatoria è falsa. Al contrario, se la banda verdastra è a destra della banda incolore, ciò sta a significare che la luce cammina più veloce nell’aria che nell’acqua e che l’ipotesi ondulatoria è condannata. Se poniamo l’occhio dietro la lente con cui esaminiamo le due macchie luminose, constateremo che la macchia verdastra si trova a destra di quella incolore. La disputa è risolta, la luce non è un corpo ma un movimento vibratorio propagato dall’etere. L’ipotesi dell’emissione è morta, quella ondulatoria non può essere messa in dubbio. L’esperimento cruciale ne ha fatto un nuovo articolo del credo scientifico.
Pierre Duhem, “La théorie physique” (1906)

A

Il brano di Duhem presenta un’analisi delle due principali teorie sulla natura della luce all’epoca: la teoria corpuscolare di Newton e la teoria ondulatoria di Huygens.

L’autore espone le due ipotesi evidenziando la loro fondamentale differenza: nella teoria corpuscolare la luce è composta da minuscoli proiettili, mentre nella teoria ondulatoria la luce è una vibrazione che si propaga attraverso un mezzo chiamato etere.

Duhem introduce poi l’esperimento di Foucault, considerato un esperimento cruciale, ovvero un esperimento in grado di risolvere in modo definitivo le controversie tra due teorie concorrenti, fornendo risultati inequivocabili che supportino una teoria e confutino l’altra. L’esperimento, basato sul principio della rotazione terrestre e sull’effetto Doppler, dimostrò che la luce si propaga più velocemente nel vuoto che nell’acqua, elevando la teoria ondulatoria a credo scientifico.

Tuttavia, dalla sua tesi Duhem trae la conseguenza che in fisica è impossibile fare un experimentum crucis. Nessuna ipotesi può essere messa a confronto con l’esperienza isolatamente come invece dovrebbe essere per consentire l’experimentum crucis. Nessuna teoria può essere confrontata da sola con i risultati di un esperimento. Insieme con ogni teoria sottoposta a verifica sperimentale sono sempre presenti molte assunzioni teoriche ausiliarie, alcune delle quali implicite, tra cui bisogna ricordare anche quelle che riguardano il funzionamento degli apparati sperimentali.

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3
Q

Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite questioni di geografia e di storia alle leggi più profonde di fisica atomica o financo della matematica pura e della logica, tutto è un edificio fatto dall’uomo che tocca l’esperienza solo lungo i suoi margini. […] Un disaccordo con l’esperienza alla periferia provoca un riordinamento all’interno del campo; si devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni. […] Una volta data una nuova valutazione di una certa proposizione dobbiamo darne un’altra anche a certe altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse con la prima o esse stesse proposizioni di connessioni logiche. […] Ma l’intero campo è determinato dai suoi punti limite, cioè l’esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le proposizioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria.
(Due dogmi dell’empirismo, Quine)

A

Nel suo articolo Due dogmi dell’empirismo (1951) il filosofo americano Quine muove una critica radicale a due presupposti (dogmi) fondamentali dell’empirismo logico:
- La distinzione tra giudizi/verità analitiche e giudizi/verità sintetiche; i neopositivisti logici avevano elaborato una teoria del significato (verificazionismo: il significato di un enunciato è il metodo della sua verifica, ovvero il metodo con cui empiricamente lo confermiamo o lo infirmiamo) che prevedeva una netta distinzione tra asserti sintetici, di cui possiamo riconoscere la verità confrontandoli con l’esperienza sensibile, e asserti analitici, che risultano veri indipendentemente da qualunque esperienza sensibile (poiché la loro verità è puramente concettuale), quindi immuni alla falsificazione empirica. Essendo, secondo Quine, impossibile tracciare coerentemente la distinzione tra questi asserti (che può essere compiuta solo servendosi di nozioni che la presuppongono, come quelle di significato, sinonimia e necessità), va rifiutata anche questa teoria del significato, soprattutto il suo dogma centrale;
- Il dogma del riduzionismo, secondo cui ciascun enunciato preso da sé, separatamente dagli altri, si può confermare o infirmare mettendolo a confronto con l’esperienza. Al suo posto, ispirandosi agli argomenti di Duhem, Quine propone un’immagine olistica del linguaggio e di tutta la conoscenza. L’unità di misura della significanza empirica è la scienza nella sua globalità. I nostri enunciati sul mondo esterno sono messi a confronto con l’esperienza sensibile non individualmente, ma come corpo unico, “insieme solidale”.

Quine paragona la scienza, nella sua totalità, a un campo di forza, o a una rete, che tocca l’esperienza solo ai suoi margini periferici: non esiste alcun enunciato sconnesso da altri e un’esperienza particolare non è mai vincolata a nessun enunciato particolare all’interno del campo, quindi i dati dell’esperienza sensibile non mettono in discussione un solo enunciato ma l’intero impianto / sistema conoscitivo. Qualunque enunciato (sia quelli in periferia, cioè in contatto con l’esperienza, sia quelli più centrali, come gli enunciati della logica e della matematica) può essere soggetto a revisione se ciò contribuisce a un miglior equilibrio complessivo (anche se di solito preferiamo mutare non il centro della rete, ma una porzione il più possibile piccola della periferia: infatti, nel caso di una smentita dell’esperienza, la scelta di quale parte del campo mutare dipende dalle nostre abitudini e dai nostri interessi). Ad esempio, è stata proposta la revisione della legge logica del terzo escluso, come via per semplificare la meccanica quantistica, e questa secondo Quine è in linea di principio una rivoluzione scientifica.

Quello di Quine, a differenza di Duhem, è un olismo applicato non solo alla metodologia scientifica, ma anche a tutte le nostre conoscenze, in particolare al linguaggio, per questo è definito anche semantico: la totalità della nostra conoscenza o delle nostre convinzioni è una costruzione fatta dall’uomo, che viene a contatto con l’esperienza soltanto lungo i margini. Ogni nostro enunciato, non solo quelli scientifici, è privo di un significato separato, scisso dal contesto, estrapolato dall’intero discorso di cui fa parte. Solo il linguaggio come un tutto unitario è propriamente significante.

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4
Q

Abbiamo un’induzione quando generalizziamo da un certo numero di casi per i quali qualcosa è vera e inferiamo che quella medesima cosa è vera per un’intera classe. Oppure quando troviamo che una certa cosa è vera in una certa percentuale di casi osservati e inferiamo quella medesima cosa è vera nella stessa percentuale per tutta la classe.

[L’ipotesi si presenta] quando troviamo qualche circostanza curiosa, che sarebbe spiegata dalla supposizione che sia la conseguenza di un caso ascrivibile a una regola generale, e perciò adottiamo quella supposizione.

La prima fase nell’avvio di un’ipotesi e nell’intrattenerla, sia come una semplice supposizione sia con un qualsiasi grado di fiducia, è un passo inferenziale che propongo di chiamare abduzione. Questo include una preferenza per una qualche ipotesi rispetto ad altre che ugualmente spiegherebbero i fatti, a patto che questa preferenza non si basi su alcuna conoscenza precedente che abbia un rapporto con la verità delle ipotesi, né su qualsiasi test preliminare di una qualsiasi delle ipotesi, dopo averle accettate in prova come ammissibili. Chiamo un’inferenza di questo tipo con un nome curioso, abduzione.

L’ipotesi non può essere ammessa, neanche come ipotesi, se non si suppone che renderebbe conto dei fatti o di alcuni di essi. La forma di inferenza, dunque, è questa: il fatto sorprendente, C, si osserva; ma se A fosse vera, C sarebbe un fatto normale, quindi c’è ragione di sospettare che A sia vera. Perciò, A non può essere abduttivamente congetturato a meno che il suo intero contenuto non sia già presente nella premessa “Se A fosse vera, C sarebbe un fatto normale”.

A

Secondo Peirce, il primo passo del ragionamento scientifico consiste nell’abduzione, quella catena inferenziale che ci permette di passare dalla constatazione di fatti che ci sorprendono, contrari rispetto a ciò che ci saremmo aspettati, alla formulazione di un’ipotesi esplicativa in sé verosimile e che renda verosimili quei fatti.

Un esempio di abduzione è: questi fagioli sono bianchi; tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi; dunque, questi fagioli vengono da questo sacchetto. Osservando un fatto sorprendente (abbiamo dei fagioli bianchi) e avendo a disposizione una regola in grado di spiegarlo (sappiamo che tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi) possiamo ipotizzare che si dia il caso che questi fagioli vengano da questo sacchetto.

L’abduzione è il motore della ricerca scientifica: senza rischiare un’ipotesi, senza scommettere su una possibile spiegazione, non si può fare alcun passo avanti nella scienza.

L’ipotesi a cui si giunge per abduzione è preferibile rispetto ad altre. Questa preferenza non è basata su prove o conoscenze preesistenti, ma su un’intuizione o un “istinto esplicativo”.

L’ipotesi abdotta non è certa come una conclusione deduttiva: per poter essere ammessa, deve superare il vaglio dell’esperienza.

Deduzione
- Regola: tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi.
- Caso: questi fagioli vengono da questo sacchetto.
- Risultato: questi fagioli sono bianchi.

Date la regola e il caso, il risultato non può essere diverso e rappresenta semplicemente il rendere esplicito ciò che era già implicito nelle premesse.

Induzione
- Caso: questi fagioli vengono da questo sacchetto.
- Risultato: questi fagioli sono bianchi.
- Regola: tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi.

L’induzione consente di ipotizzare una regola a partire da un caso e da un risultato: essa si basa sull’assunzione che determinate regolarità osservate in un fenomeno continueranno a manifestarsi nella stessa forma anche in futuro.

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5
Q

Tutto il ragionamento positivo consiste per natura nel giudicare la proporzione di qualcosa all’interno di un’intera collezione per mezzo della proporzione trovata in un campione. Di conseguenza, vi sono tre cose che non possiamo mai sperare di raggiungere con il ragionamento, ovvero la certezza assoluta, l’esattezza assoluta, l’universalità assoluta. Non possiamo essere assolutamente certi che le nostre conclusioni siano anche approssimativamente vere, in quanto il campione potrebbe essere completamente diverso dal resto della collezione. Non possiamo pretendere di essere neppure probabilmente esatti, in quanto il campione non consiste che di un numero finito di esempi e ammette soltanto valori particolari della proporzione cercata. Infine, anche se potessimo stabilire con certezza ed esattezza assolute che il rapporto tra gli uomini peccatori e tutti gli uomini è di 1a 1, resterebbe ancora spazio, tra le generazioni infinite degli uomini, per un qualche numero finito di uomini senza peccato, senza per questo violare la proporzione. […] Ora, se l’esattezza, la certezza e l’universalità non possono essere raggiunte con il ragionamento, non vi sono certo altri mezzi con cui raggiungerle.

A

Peirce, sostenendo il carattere autenticamente fallibile e rivedibile della scienza, più in generale della conoscenza (nega la possibilità di ottenere una conoscenza assolutamente certa, non potendo escludere l’errore), riconosce i limiti del ragionamento positivo: l’impossibilità di raggiungere la certezza assoluta, l’esattezza assoluta e l’universalità assoluta. Se il ragionamento positivo non può raggiungere questi traguardi assoluti, non esistono altri metodi in grado di farlo.

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6
Q

Qualcuno suggerirà la rivelazione. Vi sono scienziati e persone influenzate dalla scienza che ridono della rivelazione; e certo la scienza ci ha insegnato a considerare la testimonianza in una luce tale da far sembrare piuttosto debole l’intera dottrina teologica delle “Evidenze”. Tuttavia, non ritengo filosofico rifiutare la possibilità di una rivelazione. Eppure, ciò concesso, come logico dichiaro che le verità rivelate - ovvero le verità che non hanno nulla a proprio favore se non le rivelazioni fatte a pochi individui - costituiscono di gran lunga la classe di verità più incerta che vi sia. Qui non è in questione l’universalità, dato che la rivelazione è in se stessa sporadica e miracolosa. E neppure l’esattezza matematica, dal momento che la rivelazione non avanza una simile pretesa. Essa pretende, però, di essere certa; e contro di ciò abbiamo tre obiezioni definitive. Primo, non possiamo essere assolutamente certi che una qualsiasi asserzione data sia davvero ispirata, poiché questo può essere stabilito solo con il ragionamento. Non possiamo provarlo neppure con un grado molto alto di probabilità. Secondo, anche se fosse ispirata, non potremmo essere sicuri, o quasi sicuri, che l’asserzione sia vera. Sappiamo che in un’edizione della Bibbia uno dei comandamenti è stato stampato omettendo il non. Tutte le cose ispirate sono state soggette alle distorsioni o alle coloriture umane. Inoltre, non possiamo penetrare nei disegni dell’Altissimo, o abbozzare un qualche principio che governi la sua condotta. Non conosciamo i suoi imperscrutabili scopi, né possiamo comprendere i suoi progetti. Non possiamo dire se Egli non trovi appropriato ispirare i suoi servi con degli errori. In terzo luogo, una verità che si fonda sull’autorità della sola ispirazione è per natura alquanto incomprensibile; e non possiamo mai essere sicuri di capirla bene. Poiché non c’è modo di evadere queste difficoltà, sostengo che la rivelazione, lungi dal concederci una qualche certezza, dà risultati meno certi di altre fonti di informazione. E sarebbe così anche se la rivelazione fosse molto più semplice di quanto è.

A

Peirce non nega la possibilità della rivelazione, ma ne sottolinea l’incertezza. Le verità rivelate, non avendo altre prove se non la loro presunta origine divina, sono intrinsecamente incerte per la loro dubbia autenticità (non possiamo mai essere certi che un’affermazione sia davvero ispirata divinamente), per i possibili errori (anche se ispirata, la rivelazione potrebbe contenere errori dovuti a trasmissione, traduzione o interpretazione umana) e per la loro incomprensibilità (le verità rivelate, basate sulla sola autorità della loro ispirazione e non sulla ragione, possono risultare complesse e di difficile comprensione).

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7
Q

Ma, si dirà, hai dimenticato le leggi che ci sono rese note a priori, gli assiomi della geometria, i principi della logica, le massime della causalità, e cose del genere. Queste sono assolutamente certe, senza eccezioni ed esatte. A ciò replico che mi sembra che vi sia la dimostrazione storica più positiva che le idee innate sono particolarmente incerte e mescolate all’errore, e quindi, a fortiori, non senza eccezioni. Questa dimostrazione storica non è ovviamente infallibile, ma è molto forte. E quindi vi chiedo: come fate a sapere che la verità a priori è certa, senza eccezioni ed esatta? Non potete saperlo tramite il ragionamento. Esso, infatti, sarebbe soggetto a incertezza e inesattezza. Non resta allora che questo: lo sapete a priori; ovvero, prendete i giudizi a priori al loro valore nominale, senza esercitare alcuna critica o richiedere alcuna credenziale. Ciò vuol dire chiudere la porta dell’indagine.

A

Peirce contesta l’idea che le verità a priori, come gli assiomi della geometria o i principi della logica, siano assolutamente certe, senza eccezioni ed esatte. Egli sostiene che la storia dimostra il contrario: le idee innate non sono immutabili e scolpite nella pietra, ma piuttosto soggette a evoluzione e revisione.

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8
Q

Ah! Ma mi si dirà, tu dimentichi l’esperienza diretta. Questa non è né certa né incerta, poiché non afferma nulla - semplicemente è. Vi sono illusioni, allucinazioni e sogni. Ma non c’è da sbagliarsi: tali cose appaiono davvero, e l’esperienza diretta si riferisce unicamente all’apparenza. Non implica alcun errore, perché non testimonia nulla se non la sua stessa apparenza. Per la stessa ragione non concede alcuna certezza. Non è esatta, perché lascia molto nel vago; ma non è neanche inesatta; vale adire, non ha falsa esattezza. Tutto ciò è vero dell’esperienza diretta quando si presenta la prima volta. Ma quando la si critica è passata ed è resa presente dalla memoria. E gli inganni e l’inesattezza della memoria sono proverbiali.

A

L’esperienza diretta, che sia immediata o rievocata attraverso la memoria, non è una fonte di conoscenza infallibile. La sua mancanza di asserzioni esplicite (non afferma nulla, semplicemente è) la rende immune all’errore in senso stretto, ma non le garantisce certezza. Inoltre, la rievocazione di esperienze passate attraverso la memoria introduce un ulteriore elemento di incertezza, data la fallibilità della memoria stessa.

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9
Q

Qualcuno vorrà gentilmente dire al resto del pubblico qual è la caratteristica più marcata e invadente della natura? Ovviamente, la sua varietà. Ebbene, non so se sia logicamente accurato dire che questa meravigliosa e infinita diversità e molteplicità delle cose sia un segno di spontaneità. Per formazione sono un analista logico e dire che questa è una manifestazione di spontaneità mi sembra un’analisi fallace. Direi piuttosto che è spontaneità. Non so cos’altro si possa trarre dal significato di spontaneità se non novità, freschezza e diversità. Posso farvi una domandina? L’operazione della legge [fisica, in senso lato] può creare diversità dove prima non ve n’era? Ovviamente no; in circostanze date la legge meccanica prescrive un solo risultato determinato. […] La legge prescrive risultati identici a partire da circostanze identiche. Questo è ciò che implica la parola legge. E allora tutta questa esuberante diversità della natura non può essere il risultato di una legge. Ebbene, che cos’è la spontaneità? È la caratteristica del non risultare per legge da qualcosa di antecedente. Quindi, l’Universo non è un mero risultato meccanico dell’operazione della cieca legge. La più ovvia delle sue caratteristiche non può essere spiegata in tal modo.

A

Peirce si concentra sulla varietà come caratteristica distintiva e pervasiva della natura, che chiama spontaneità. Le leggi meccaniche, date determinate circostanze, prescrivono un unico risultato determinato, per cui non possono creare diversità dove prima non esisteva. L’Universo non è un semplice prodotto meccanico di leggi cieche, ma contiene una componente di novità e imprevedibilità che non può essere spiegata unicamente attraverso il determinismo.

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10
Q

Ma li fallibilismo non può essere valutato nel suo vero significato sinché non si prende in considerazione l’evoluzione. È questo ciò a cui il mondo ha maggiormente pensato negli ultimi quarant’anni, nonostante l’idea generale sia in sé piuttosto antica. La filosofia di Aristotele, che ha dominato li mondo per così tanto e che in gran misura esercita ancora una tirannia sulle menti di macellai e panettieri che non l’hanno mai sentita nominare, non è altro che evoluzionismo metafisico. Evoluzione, nel senso più ampio del termine, non vuol dire altro che crescita. La riproduzione, ovviamente, è solo uno degli episodi della crescita. E che cos’è la crescita? Non il semplice aumento. Spencer dichiara che è il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, o la diversificazione. Si tratta di un fattore certamente importante. Pensate a quanto sia sbalorditiva quest’idea della diversificazione! In natura abbiamo forse qualcosa come l’aumento della varietà? Sarebbero le cose così semplici, sarebbe la varietà minore nella nebulosa originaria da cui si suppone sia cresciuto li Sistema solare rispetto a quella che c’è ora, quando la terra e li mare brulicano di forme animali e vegetali, con le loro intricate anatomie e le loro ancora più meravigliose economie? Sembrerebbe ci sia stato un aumento della varietà, non vi pare? Eppure, la legge della meccanica, quella legge che l’infallibilista scientifico ci dice costituisca l’unico modo d’agire della natura, non può mai produrre diversificazione. Questa è una verità matematica - una proposizione della meccanica analitica. E tutti possono rendersi conto, senza alcun apparato algebrico, che la legge della meccanica da antecedenti simili può produrre solo conseguenti simili. È l’idea stessa di legge. Quindi, se fatti osservati puntano in direzione di crescita reale, puntano verso un altro modo d’agire, verso quella spontaneità per la quale l’infallibilismo non produce alcuna gabbia utile.

A

L’evoluzione rappresenta un argomento chiave a favore del fallibilismo. L’evoluzione non si limita al semplice aumento di quantità, ma implica un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, una diversificazione che si manifesta in modo evidente in natura. Peirce porta come esempio la complessità e la varietà del sistema solare rispetto alla nebulosa originaria da cui si presume sia nato. Le leggi della meccanica, considerate dall’infallibilismo scientifico come l’unico modo di agire della natura, non sono in grado di spiegare la varietà e la complessità che osserviamo nel mondo.

Riconoscendo il ruolo della spontaneità, della creatività e della varietà del cosmo, Peirce sfida una visione meccanicistica e deterministica dell’universo.

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11
Q

Che cosa c’è nell’Universo, la cui esistenza ci sia nota grazie al fatto che ne abbiamo conoscenza diretta? Fin qui, abbiamo risposto che abbiamo conoscenza diretta dei dati dei nostri sensi e, probabilmente, di noi stessi. Queste cose, sappiamo che esistono. E sappiamo che sono esistiti nel passato i dati sensibili passati, che ricordiamo: questa conoscenza tiene luogo dei nostri dati. Ma se dobbiamo poter trarre deduzioni da questi dati, se dobbiamo saper qualcosa dell’esistenza della materia, dell’esistenza degli altri, dell’esistenza del passato prima che cominci la nostra memoria individuale, o del futuro, dobbiamo conoscere principi generali di un qualche tipo, per mezzo dei quali possiamo trarre tali deduzioni. Dobbiamo sapere che l’esistenza di una cosa, A, è segno dell’esistenza di qualche altra cosa, B, contemporanea ad A o anteriore o posteriore, come per esempio il tuono è segno della precedente esistenza del fulmine. Se non sapessimo questo, non potremmo mai estendere la nostra conoscenza oltre la sfera dell’esperienza personale; che, come abbiamo visto, è paurosamente limitata. Il problema che dobbiamo esaminare ora è se questo allargamento sia possibile; e se sì, come avvenga.

A

Il punto di partenza della conoscenza, secondo Russell, è l’esperienza individuale/personale (la teoria della conoscenza ha una certa soggettività essenziale): l’esperienza immediata e privata costituisce la sfera della conoscenza diretta, dei cui oggetti siamo direttamente consapevoli, senza la mediazione di alcun processo di inferenza. Oggetti della conoscenza diretta sono i dati sensibili, i dati dell’introspezione (è probabile che abbiamo conoscenza immediata di noi stessi: non potremmo conoscere la verità della proposizione “io ho conoscenza immediata dei dati sensibili” se non avessimo conoscenza immediata di ciò che chiamiamo “io”) e i dati forniti dalla memoria. Il passaggio dalla conoscenza di questi dati alla conoscenza delle realtà fisiche (oggetti) e psichiche (soggetti diversi da noi) anteriori o future alla nostra esistenza, che non ci sono note direttamente, richiede dei principi generali, da cui possiamo inferire l’esistenza di queste realtà. Russell si chiede se sia possibile e, se sì, come avvenga il superamento da parte della nostra conoscenza dei limiti dell’esperienza personale.

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12
Q

Tutti siamo convinti che il Sole si leverà domattina. Perché? Questa convinzione è soltanto la conseguenza cieca dell’esperienza passata, o si può giustificare come una convinzione ragionevole? Non è facile trovare una prova che ci permetta di giudicare se una convinzione di questo genere sia ragionevole o meno, ma possiamo se non altro stabilire quali convinzioni generali basterebbero, se fossero vere, a giustificare li giudizio che il Sole si leverà domani, e molti altri giudizi simili, sui quali si basa la nostra condotta. È ovvio che se ci domandassero perché crediamo che li Sole si leverà domani, noi risponderemmo con tutta naturalezza: “Perché da sempre si leva ogni giorno”. Abbiamo la ferma convinzione che si leverà in futuro perché si è levato in passato. Se ci chiederanno di spiegare perché crediamo che continuerà a levarsi come ha fatto sin qui, ci potremo richiamare alle leggi del moto: la Terra, diremo, è un corpo che ruota liberamente su se stesso, e questi corpi continuano a ruotare a meno che intervenga qualche ostacolo esterno, e non vi è nulla che possa intervenire a ostacolare il moto della Terra fra ora e domani. Naturalmente si potrebbe chiedere se siamo proprio sicuri che nulla possa intervenire dall’esterno, ma non è questo il dubbio che ci interessa. La vera domanda da porre è se le leggi del moto rimarranno valide sino a domani. Quando sia sollevato questo dubbio, ci troveremo nella stessa posizione in cui eravamo quando fu sollevato per al prima volta il dubbio circa il levare del Sole.

La sola ragione per credere che le leggi del moto rimarranno valide sino a domani è che esse hanno operato sino a ora, a quanto ci permette di giudicare la nostra conoscenza del passato. È vero che il passato ci dà un maggior numero di prove in favore delle leggi del moto che in favore del levar del Sole, perché li levar del Sole è solo un caso particolare di adempimento delle leggi del moto, e vi sono innumerevoli altri casi particolari. Ma la vera domanda è: un qualsiasi numero di casi di adempimento di una legge nel passato ci dà la prova che quella legge sarà adempiuta nel futuro? Se la risposta è negativa, è chiaro che non abbiamo nessun motivo di attenderci che il Sole si levi domani, o di aspettarci che il pane che mangeremo nel nostro prossimo pasto non ci avveleni, o di nutrire qualsiasi altra delle inconsce convinzioni che regolano la nostra condotta quotidiana. Bisogna dire che tutto ciò che attendiamo è solo probabile che si verifichi; sicché non dobbiamo cercare una prova che la nostra attesa deve essere esaudita, ma solo qualche motivo in favore dell’opinione che è probabile che sia esaudita.

A

Russell affronta la questione cruciale della giustificazione delle nostre aspettative sul futuro. Prendendo l’esempio del sorgere del sole come caso emblematico, Russell analizza la nostra convinzione che esso sorgerà anche domani come derivata da un’esperienza passata: il sole è sempre sorto in passato, quindi ci aspettiamo che lo faccia anche in futuro.

  • Un induttivista basa le previsioni su casi «simili» nell’esperienza passata. Il sole sorgerà domani perché è sorto fino a oggi per lunghissimo tempo, e questa fiducia («grado di certezza») cresce al crescere degli eventi positivi. Possiamo quantificare il grado di certezza, per esempio probabilisticamente.
  • Un induttivista si basa sull’aspettativa dall’uniformità della natura.
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13
Q

L’esperienza ci ha mostrato fin qui che il frequente presentarsi di certe successioni uniformi o di casi di coesistenza è stato causa della nostra attesa che la stessa successione o coesistenza si verifichi alla prossima occasione. Un cibo con una data apparenza di solito ha quel certo sapore, e siamo sgradevolmente delusi quando scopriamo che l’apparenza familiare si accompagna a un sapore insolito. Le cose che vediamo vengono associate, per abitudine, a certe sensazioni tattili che ci aspettiamo di provare toccandole; una delle qualità più paurose dei fantasmi è il loro non potere essere toccati. Persone prive di cultura che si recano all’estero per la prima volta sono sorprese fino all’incredulità nel vedere che la gente non capisce la loro lingua. Questo tipo di associazione non è limitato agli uomini: è molto forte anche tra gli animali. Un cavallo che sia stato condotto spesso lungo una certa strada oppone resistenza al tentativo di condurlo in direzione diversa. Gli animali domestici si aspettano di ricevere li cibo quando vedono la persona che di solito gliene porge. Sappiamo che questa fiducia piuttosto sprovveduta nell’uniformità può indurre in errore. L’uomo da cui il pollo ha ricevuto il cibo per ogni giorno della propria vita gli tirerà alla fine il collo, dimostrando che un’idea meno primitiva dell’uniformità della natura sarebbe stata utile all’animale. Ma per quanto ingannevoli siano queste attese, esse tuttavia esistono. Basta il fatto che qualcosa sia avvenuto un certo numero di volte perché uomini e animali si attendano che debba accadere di nuovo. Così i nostri istinti ci danno a credere che il Sole si leverà domani, ma noi potremmo essere in una situazione simile a quella del pollo a cui hanno inaspettatamente tirato li collo.

A

Russell approfondisce il tema dell’associazione per abitudine e del suo ruolo nel determinare le nostre aspettative sul futuro. Egli evidenzia come la frequente ripetizione di un insieme o di una successione di eventi ci porti a sviluppare la convinzione che tale insieme o successione si ripeteranno anche in futuro, anche se questa convinzione non è sempre basata su una solida base razionale.
- Un cibo con un certo aspetto ha un sapore prevedibile.
- Le cose che vediamo sono associate a determinate sensazioni tattili.
- Persone che viaggiano in un paese straniero si aspettano che la gente capisca la loro lingua.
- Cavalli abituati a percorrere una certa strada resistono a deviazioni.
- Animali domestici associano la figura del padrone al cibo.

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14
Q

Dobbiamo dunque distinguere il fatto che le uniformità verificatesi nel passato determinano l’attesa del futuro, dalla questione se vi sia qualche ragionevole motivo di dar peso a queste attese, dopo che sia stato posto il problema della loro validità. Il problema che dobbiamo discutere è se vi sia qualche ragione di credere in ciò che viene chiamato l’uniformità della natura. Credere nell’uniformità della natura significa credere che tutto ciò che è accaduto o accadrà sia un esempio di qualche legge generale alla quale non vi sono eccezioni. Una fiducia cieca e piuttosto stupida come quelle che abbiamo esaminato fin qui è sempre soggetta a eccezioni e delusioni. Ma la scienza di solito presume, se non altro come ipotesi di lavoro, che le regole generali a cui si danno eccezioni possano essere sostituite da regole generali senza eccezioni. “I corpi liberi nell’aria cadono” è una regola generale di cui i palloni egli aeroplani costituiscono le eccezioni. Ma le leggi del moto e la legge di gravità, che spiegano perché la maggior parte dei corpi cada, spiegano anche perché palloni e aeroplani si sollevino; sicché essi non rappresentano più eccezioni alle leggi del moto e alla legge di gravità. La convinzione che il Sole si leverà domani potrebbe diventare errata se la Terra venisse improvvisamente in contatto con un grosso corpo che ne arrestasse al rotazione; ma le leggi del moto e la legge di gravità non sarebbero perciò infrante. Il compito della scienza è di scoprire leggi di uniformità, come le leggi del moto e la legge di gravità, alle quali, fin dove giunge la nostra esperienza, non vi siano eccezioni. In questa ricerca la scienza ha avuto un notevole successo, e bisogna riconoscere che sino a oggi queste leggi di uniformità non sono state contraddette. Così, eccoci tornati al problema: dato che non sono mai state contraddette in passato, abbiamo motivo di supporre che non lo saranno in futuro?

A

Russell pone un interrogativo fondamentale: come possiamo sapere che le leggi di uniformità del passato saranno valide anche in futuro? Egli pone questa domanda come il problema centrale della filosofia induttiva.

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15
Q

È stato detto che possiamo sapere che il futuro somiglierà al passato perché ciò che fu futuro è sempre diventato il passato, e sempre è stato trovato somigliante al passato, di modo che noi abbiamo realmente esperienza del futuro, cioè di tempi che furono una volta futuri, e che possiamo chiamare futuri passati. Ma un tale argomento è in realtà una petizione di principio. Abbiamo esperienza di futuri passati, ma non di futuri futuri, e la domanda è: i futuri futuri somiglieranno ai futuri passati? Non è domanda cui si possa rispondere con un argomento che prende lo spunto solo dai futuri passati.

Dobbiamo dunque cercare ancora qualche principio che ci metta in grado di sapere se il futuro seguirà le stesse leggi del passato. Il riferimento al futuro non è del resto necessario. Lo stesso problema si pone quando applichiamo le leggi che la nostra esperienza ha provato valide a cose passate di cui non abbiamo esperienza; come accade, per esempio, nella geologia o per le teorie sull’origine del Sistema solare. La domanda che in realtà dobbiamo porre è: “Quando vediamo che due cose si presentano spesso insieme, e non si conosce nessun esempio del ricorrere dell’una senza l’altra, il ricorrere di una delle due, in un caso nuovo, dà motivo di credere che si presenterà anche l’altra?” Dalla nostra risposta a questa domanda dipende la validità di ogni nostra attesa futura, di tutti i risultati ottenuti per induzione, e in pratica di tutte le credenze su cui si basa la nostra vita quotidiana.

Bisogna ammettere, anzitutto, che il fatto che due cose si siano presentate spesso insieme e mai separatamente non basta, da solo, a dimostrare che due cose si presenteranno di nuovo insieme nel prossimo caso che esamineremo. Possiamo al massimo sperare che quanto più spesso le cose si presentano assieme, tanto più probabile diventa che si presenteranno assieme un’altra volta, e che, quando si siano presentate assieme abbastanza spesso, la probabilità si avvicinerà al grado di certezza; senza però giungervi mai, perché sappiamo che nonostante le frequenti ripetizioni alla fine può talvolta accadere un fatto del tutto diverso, come nel caso del pollo cui hanno tirato li collo. Cosicché la probabilità è tutto ciò che dobbiamo cercare.

A

L’induttivismo è la concezione secondo cui le teorie scientifiche sono essenzialmente generalizzazioni di dati osservativi nel senso che
- vengono scoperte a partire da un gran numero di osservazioni mediante generalizzazione,
- sono giustificate a partire dalle asserzioni osservative mediante inferenze induttive.

L’induzione è un’inferenza che ci permette di «estendere la nostra conoscenza oltre la sfera dell’esperienza personale».

L’induzione è alla base del nostro modo di comprendere il mondo, c’è in noi la tendenza a ragionare induttivamente e ad affidarci a quanto abbiamo esperito in passato per anticipare quanto vivremo in futuro. Hume ha mostrato che l’induzione non può essere «dimostrata» (giustificata deduttivamente), ma può essere sostenuta ricorrendo a un principio di «uniformità della natura»: tutto ciò che accade, è accaduto o accadrà è un esempio di qualche legge generale alla quale non vi sono eccezioni. La nostra fiducia nell’induzione dipende dalla nostra credenza che la natura obbedisca a leggi universali. Secondo Hume, non è possibile dimostrare il principio di uniformità della natura e non è possibile giustificarlo sulla base dei dati empirici.

Secondo Bertrand Russell l’induzione è necessaria alla scienza, ma non infallibile. Diamo per scontato che lanatura sia uniformee si comporterà sempre allo stesso modo. Siamo abituati al fatto che la mattina sorga il sole, ma potrebbe essere che domani non sia così. L’errore del tacchino induttivista è stato quello di assumere che quanto ha esperito in passato si ripeterà necessariamente anche in futuro, un errore che commettiamo tutti molto spesso, ma al quale dovremmo prestare attenzione se non vogliamo fare la stessa fine.

Russell ridefinisce i processi induttivi non come fissazioni di certezze, ma come assegnazioni di probabilità. L’induzione non può mai dimostrare la verità delle teorie, può solo accrescerne la probabilità. Se non abbiamo mai osservato un A che non è B, allora quanto più grande è il numero di casi in cui abbiamo osservato che un A è B, tanto maggiore è la probabilità che tutti gli A siano B (che il prossimo A osservato sia B).

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16
Q

Prima formulazione del principio di induzione

A
  • Quando una cosa di tipo A si presenta insieme ad una cosa di un altro tipo B, e non si è mai presentata separatamente da una cosa del tipo B, quanto più grande è il numero dei casi in cui A e B si sono presentate assieme tanto maggiore è la probabilità che si presenteranno insieme in un nuovo caso in cui si sa che è presente una delle due.
  • In circostanze eguali, un numero sufficiente di casi in cui due fenomeni si siano presentati assieme farà della probabilità che si presentino ancora assieme quasi una certezza; e farà sì che questa probabilità si avvicini illimitatamente alla certezza.

È significativo della difficoltà insita in ogni tentativo di formulare il principio di induzione in modo soddisfacente che Russell, nella prima formulazione del principio di induzione, incorra in errore. Supponiamo che A stia per corvo e B per nero. Applicando il principio dovremmo concludere che è altamente probabile che A e B si presenteranno assieme in un nuovo caso in cui si sa che è presente una delle due. Di conseguenza, se sappiamo che un oggetto è nero dovremmo inferire che si tratta verosimilmente di un corvo, il che è evidentemente scorretto. Tuttavia, basta riformulare il primo punto specificando che “tanto maggiore è la probabilità che si presenteranno assieme nel caso in cui si sa che A è presente”.

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17
Q

Seconda formulazione del principio di induzione

A
  • Quanto più grande è il numero dei casi in cui una cosa del tipo A si presenta associata a una cosa del tipo B, tanto più è probabile (se non si conosce nessun caso in cui l’associazione sia mancata) che A sia sempre associato a B.
  • A parità di circostanze, un numero sufficiente di casi di associazione di A con B darà quasi la certezza che A sia sempre associato a B, e farà sì che questa legge generale si avvicini illimitatamente alla certezza.
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18
Q

Simplicio: Aristotele, per quanto mi sovviene, insurge contro alcuni antichi, i quali introducevano il vacuo come necessario per il moto, dicendo che questo senza quello non si potrebbe fare. A questo contrapponendosi Aristotele, dimostra che, all’opposito, il farsi (come veggiamo) il moto distrugge la posizione del vacuo.

A

Galileo Galilei sostenne che la terra gira intorno al sole e che la velocità di caduta dei gravi è indipendente dal loro peso, pur essendo consapevole che ciò era contrario all’opinione comune e all’esperienza ordinaria, e fornì argomentazioni molto sofisticate per convincere i suoi contemporanei che l’opinione comune era sbagliata e l’esperienza ordinaria fuorviante. L’argomento con cui Galileo mostra l’infondatezza della teoria aristotelica sulla caduta dei gravi è un brillante esempio di confutazione, cioè di un ragionamento in cui si mostra che una certa tesi non può essere vera in quanto da essa, unitamente ad altre tesi accettate, può essere dedotta una contraddizione.

Nella prima giornata dei Discorsi intorno a due nuove scienze Galileo presenta una celebre confutazione della tesi aristotelica secondo cui la velocità di caduta di un corpo è proporzionale al suo peso. Aristotele, a sua volta, aveva usato questa tesi per confutare la tesi democritea secondo cui il movimento comporta necessariamente l’esistenza del vuoto.

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19
Q

Sagredo: Ma io, Sig. Simplicio, che n’ho fatto la prova, vi assicura che una palla d’artiglieria, che pesi cento, dugento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo solamente l’arrivo in terra della palla d’un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di dugento braccia.

A

La leggenda vuole che Galileo abbia fatto cadere due sfere di massa diversa dalla Torre diPisafacendo vedere che le due sfere toccavano il suolo quasi contemporaneamente, per dimostrare che il loro tempo di discesa era indipendente dalla loro massa. Che questa “prova sperimentale” di cui parla Galileo siano state veramente effettuate con l’esito da lui dichiarato è questione storicamente piuttosto dubbia. In effetti, se si lasciano cadere una una piuma e un martello, il secondo cade molto più velocemente della prima, dando apparentemente ragione ad Aristotele.

Galileo intuiva che questo effetto dipendeva dalla resistenza del mezzo (in questo caso l’aria), e che quindi in assenza di attrito il martello e la piuma avrebbero toccato terra nello stesso momento, ma non era in grado di produrre una conferma sperimentale di questa intuizione. Tuttavia riuscì con un ragionamento a mostrare che l’assunzione di Aristotele poteva essere confutata (cioè dimostrata falsa) del tutto indipendentemente dall’esperienza.

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20
Q

Salviati: Ma senz’altre esperienze, con breve e concludente dimostrazione possiamo chiaramente provare non esser vero che un mobile più grave si muova più velocemente d’un altro men grave […]. Però ditemi Signor Simplicio, se voi ammettete che di ciascheduno corpo grave cadente sia una da natura determinata velocità […].
Simplicio: Non si può dubitare […]
Salviati: Quando dunque noi avessimo due mobili, le naturali velocità dei quali fussero ineguali, è manifesto che se noi congiugnessimo il più tardo col più veloce, questo dal più tardo sarebbe in parte ritardato, ed il tardo in parte velocitato dall’altro più veloce. Non concorrete voi meco in quest’opinione?

Simplicio: Parmi che così debba indubitabilmente seguire.

A

Dunque Simplicio accetta le premesse iniziali da cui muove la confutazione di Salviati. A questo punto Salviati aggiunge a queste premesse, che sono accettate da Simplicio, la tesi aristotelica che vuole confutare.

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21
Q

Salviati: Ma se questo è, ed è insieme vero che una pietra grande si muova, per esempio, con otto gradi di velocità, ed una minore con quattro, adunque, congiugnendole amendue insieme, il composto di loro si moverà con velocità minore di otto gradi: ma le due pietre, congiunte insieme, fanno una pietra maggiore che quella prima, che si moveva con otto gradi di velocità: adunque questa maggiore si muove men velocemente che la minore; che è contro alla vostra supposizione. Vedete dunque come dal suppor che ’l mobile più grave si muova più velocemente del men grave, io vi concludo il più grave muoversi men velocemente.

A

Questo conclude la confutazione di Galileo-Salviati. Dall’assunzione che i corpi si muovano “per natura” secondo velocità proporzionali al loro peso, insieme ad altre premesse accettate dal suo aristotelico interlocutore, segue una contraddizione, e cioè che la pietra più pesante dovrebbe, al tempo stesso, muoversi più velocemente e più lentamente di quella più leggera. Se gli oggetti più pesanti cadono più velocemente di quelli leggeri, come affermava Aristotele, il peso più leggero rimarrà indietro. Ciò implica che quando i due sono legati insieme, cadranno più lentamente rispetto al solo grave di peso maggiore. Tuttavia insieme pesano più di quello pesante, per cui dovrebbero cadere più velocemente. Dunque Simplicio, se non vuole essere incoerente, non può accettare la verità della tesi aristotelica.

Galileo rivendica la possibilità di confutare la teoria della caduta dei gravi di Aristotele senza ricorrere in alcun modo all’esperienza, ma mediante un’elegante reductio ad aburdum. La teoria di Aristotele non può essere vera (anche se l’esperienza a prima vista sembra confermarla) perché assumendone la verità possiamo dedurre una contraddizione. Dato che la deduzione trasmette infallibilmente la verità dalle premesse alla conclusione, se le teoria fosse vera anche le conclusioni ottenute da essa dovrebbero essere tutte vere. Ma due proposizioni contraddittorie non possono essere entrambe vere, dunque la teoria non può essere vera.

22
Q

Nel suo libro Dray ha usato l’espressione “modello della legge di copertura” per riferirsi alla costruzione di una spiegazione intesa come una deduzione a partire da leggi di copertura. In una spiegazione di questo tipo, un dato fenomeno empirico - in questo saggio parlerò di tale fenomeno empirico come di un evento particolare - è spiegato con la deduzione dell’explanandum, cioè dell’enunciato che descrive l’evento in questione, da un insieme di altri enunciati, chiamato explanans. Questo insieme consiste di alcune leggi generali e di enunciati descriventi certi fatti o condizioni particolari, che normalmente sono antecedenti e/o simultanei all’evento da spiegare. In una spiegazione causale - tanto per menzionare un’importante specie di spiegazione deduttiva per opera di leggi di copertura - un evento individuale (per esempio, l’aumento di volume di una particolare massa di gas in un determinato spazio e tempo) è presentato come l’”effetto” di certi altri particolari eventi e condizioni (per esempio, l’aumento della temperatura della massa di gas sotto la condizione della pressione costante) da cui risulta (dalla cui realizzazione si può inferire li suo verificarsi) in accordo con determinate leggi generali (per esempio, le leggi dei gas).
Nelle spiegazioni di tipo deduttivo o “nomologico-deduttivo” le leggi di copertura sono tutte di forma strettamente universale; e ciò significa, parlando schematicamente, che esse sono enunciati stabilenti che in tutti i casi in cui è soddisfatto un certo complesso F di condizioni, allora si avrà un evento o una situazione di tipo G
.

A

Hempel ha formulato il modello nomologico-deduttivo (DN-Model) della spiegazione scientifica / modello a leggi di copertura. Un evento viene spiegato solo se l’asserto che lo descrive (explanandum: asserto che descrive il fenomeno che deve essere spiegato) può essere logicamente inferito da premesse (explanans: le leggi generali e i fatti particolari che servono per la spiegazione) che consistono in asserti ben confermati esprimenti le condizioni iniziali rilevanti, e in una serie di leggi universali altrettanto ben confermate, le cosiddette leggi di copertura. Il modello della spiegazione scientifica procede per deduzione da leggi universali.

Secondo Hempel, le spiegazioni scientifiche hanno tipicamente la struttura logica di un’argomentazione, ovvero di un insieme di premesse seguite da una conclusione. La conclusione afferma che il fenomeno che deve essere spiegato ha effettivamente luogo, e le premesse ci dicono perché la conclusione è vera.
Obiettivo di un’analisi della spiegazione scientifica è caratterizzare esattamente la relazione che deve sussistere tra un insieme di premesse e una conclusione, affinché le premesse possano contare come spiegazione della conclusione.

  • Le premesse devono implicare logicamente la conclusione, vale a dire, l’argomentazione deve essere deduttiva.
  • Tutte le premesse devono essere vere.
  • Almeno una delle premesse deve essere una legge generale. Esempi di leggi generali sono «tutti i metalli conducono l’elettricità», «l’accelerazione di un corpo varia inversamente alla sua massa», «tutte le piante contengono clorofilla». Le leggi generali si distinguono da fatti particolari («A questo albero sono cadute le foglie a novembre»).

Hempel ammetteva che una spiegazione scientifica potesse fare appello tanto a fatti particolari quanto a leggi generali, ma sosteneva che almeno una legge generale fosse sempre essenziale. Così spiegare un fenomeno significa spiegare che la sua occorrenza segue deduttivamente da una legge generale, eventualmente supportata da altre leggi e/o fatti particolari, ciascuno dei quali deve essere vero.

MODELLO DI SPIEGAZIONE DI HEMPEL
Leggi generali
Fatti particolari

Fenomeno che deve essere spiegato

La relazione tra spiegazione e predizione viene configurata in uno stesso quadro unitario, affermando che si tratta di due facce della stessa medaglia. Ogni volta che diamo una spiegazione basata su leggi di copertura di un dato fenomeno, le leggi e i fatti particolari che citiamo ci avrebbero permesso di predire l’occorrere del fenomeno in questione, se già non lo avessimo conosciuto. Le informazioni usate per predire un fatto prima del suo verificarsi serviranno come spiegazione dello stesso fatto dopo che è avvenuto: spiegazione e predizione sono strutturalmente simmetriche.

23
Q

Ma c’è pure un secondo tipo di spiegazione, del tutto differente dal punto di vista logico, da quello appena descritto. Si tratta di un tipo di spiegazione che svolge un importante ruolo in varie branche della scienza empirica, e che io, parimenti, chiamerò “spiegazione mediante leggi di copertura”. Il tratto distintivo di questo secondo tipo di spiegazione, cui Dray fa una breve allusione nel suo saggio, è che alcune delle leggi di copertura sono di forma probabilistico-statistica. Nel caso più semplice, una legge di questa forma è un enunciato stabilente che, sotto condizioni di tipo più o meno complesso F, si avrà l’occorrenza dell’evento o “esito” di tipo G; con probabilità statistica q; […] Se la probabilità q si avvicina a 1, una legge di questo tipo può venire invocata per spiegare l’occorrenza di G in un dato particolare caso in cui sono realizzate le condizioni F. A mo’ di semplice illustrazione, supponiamo che lanciando insieme quattro dadi, il numero totale dei punti usciti sia maggiore di 4 Questo si potrebbe spiegare per merito della seguente informazione (la cui correttezza fattuale è, ovviamente, una questione empirica e soggetta a controllo empirico; potrebbe non essere vera, per esempio, se uno dei dadi fosse truccato): (i) per ognuno dei dadi, la probabilità statistica che esca una qualsiasi particolare faccia come risultato di un lancio è la stessa per tutte le facce e (ii) risultati ottenuti con un singolo dado, lanciato insieme agli altri, sono statisticamente indipendenti; così che la probabilità statistica per un lancio congiunto di tutti e quattro i dadi di ottenere un totale maggiore di 4 punti è= 1295/1296 = 0,9992… Questo asserto di probabilità generale, combinato con l’informazione che la particolare occorrenza in considerazione, chiamiamola I, era un caso di lancio congiunto dei quattro dadi, non implica logicamente che nel particolare caso I il numero totale dei punti usciti sarà maggiore di 4: ma le due asserzioni offrono forti basi induttive, o un forte supporto induttivo o, come talvolta si dice, un’alta probabilità induttiva, per assumere o aspettarsi [che li numero totale dei punti sia maggiore di 4…].
La probabilità che l’explanans si dice qui conferire all’explanandum chiaramente non è di tipo statistico; essa non rappresenta una relazione quantitativa empiricamente determinata tra due tipi di eventi […]; si tratta piuttosto di una relazione logica tra due asserti - nel nostro caso tra la congiunzione degli enunciati dell’explanans da una parte e l’asserto dell’explanandum dall’altra.
I due tipi di spiegazione mediante leggi di copertura hanno questa caratteristica in comune: essi spiegano un evento mostrando che, in relazione a certe particolari circostanze e a leggi generali, li suo verificarsi era da attendersi (in un senso puramente logico) o con certezza deduttiva o con probabilità induttiva
.

A

Hempel ha sostenuto la tesi dell’unità delle scienze empiriche ritenendo che in tutte fossero rintracciabili due tipi di spiegazioni mediante leggi di copertura, entrambe valide: quella probabilistica, giustificata dal ragionamento induttivo, e quella nomologico-deduttiva, fondata sul ragionamento ipotetico-deduttivo.

Spiegazione nomologico-deduttiva: si basa su leggi universali e deduzioni logiche per dimostrare che un evento specifico era da attendersi con certezza. Hempel sottolinea che le leggi di copertura in questo tipo di spiegazione sono sempre di forma strettamente universale, ovvero affermano che in tutte le circostanze in cui sono soddisfatte determinate condizioni, si verificherà un certo evento.

Spiegazione statistico-induttiva: utilizza leggi probabilistiche e ragionamento induttivo per dimostrare che un evento specifico era da attendersi con una certa probabilità. Explanandum: evento da spiegare (ad esempio, il lancio di quattro dadi con un totale maggiore di 4 punti). Explanans: leggi di probabilità per i singoli dadi (ogni faccia ha la stessa probabilità di uscire), indipendenza statistica dei lanci. L’explanans aumenta la nostra probabilità induttiva di aspettarci l’explanandum, ma non lo garantisce con certezza.

24
Q

La concezione scientifica del mondo è caratterizzata non tanto da tesi specifiche, quanto, piuttosto, dall’orientamento di fondo, dalla prospettiva, dall’indirizzo di ricerca. Essa si prefigge come scopo l’unificazione della scienza. Suo intento è di collegare e coordinare le acquisizioni dei singoli ricercatori nei vari ambiti scientifici. Da qui l’enfasi sul lavoro collettivo, sull’intersoggettività, nonché la ricerca di un sistema di formule neutrali, di un simbolismo libero dalle scorie delle lingue storiche, non meno che la ricerca di un sistema globale dei concetti. Precisione e chiarezza vengono perseguite, le oscure lontananze e le insondabili profondità respinte. Nella scienza non si dà “profondità” alcuna; ovunque è superficie: tutta l’esperienza costituisce una rete intricata, non sempre dominabile e spesso intelligibile solo in parte. Tutto è accessibile all’uomo e l’uomo è misura di tutte le cose. Si rivela qui l’affinità con i sofisti, non con i platonici; con gli epicurei, non con i pitagorici; con tutti i fautori del mondano e del terreno. La concezione scientifica del mondo non conosce enigmi insolubili. Il chiarimento dei problemi filosofici tradizionali conduce, in parte, a smascherarli quali pseudoproblemi, in parte, a convertirli in problemi empirici, soggetti, quindi, al giudizio della scienza sperimentale. Proprio tale chiarimento di problemi e asserti costituisce il compito dell’attività filosofica, la quale, comunque, non tende a stabilire specifici asserti “filosofici”. Il metodo di questa chiarificazione è quello dell’analisi logica; per dirla con Russell, esso “si è sviluppato via via nel contesto delle indagini critiche dei matematici, segnando un progresso simile a quello promosso da Galileo nella fisica: la sostituzione di risultati particolari comprovabili, in luogo di tesi generali correnti non comprovabili, motivate in termini di mera fantasia.

A

Il contesto in cui nasce e si sviluppa il neopositivismo o empirismo logico è il Circolo di Vienna, costituito da filosofi e scienziati, tre dei quali - Neurath, Hahn e Carnap - nel 1929 scrissero un manifesto programmatico intitolato La concezione scientifica del mondo. I tratti caratteristici della nuova corrente di pensiero indicati nel manifesto sono:
- lo scopo di raggiungere l’unificazione della scienza: la scienza, al di là della differenziazione delle singole discipline, è una sola; i neopositivisti elaborano una visione unitaria del sapere, che comprenda sia le scienze naturali che le scienze sociali;
- l’enfasi posta sul lavoro collettivo: lavoro pubblico e fondato sul confronto continuo delle varie posizioni; i neopositivisti attribuiscono all’analisi filosofica un ruolo sociale e culturale, che rifiuta ogni approccio intuitivo e privato/settario alla conoscenza;
- l’identificazione del metodo della chiarificazione concettuale con l’analisi logica (influenza di Russell);
- il programma di distruzione della metafisica;
- il compito della filosofia (non è una scienza, un sistema di conoscenze): è un’attività chiarificatrice che ha come compito principale l’analisi del linguaggio sensato della scienza e la denuncia di quello insensato della metafisica. Attraverso l’analisi logica del linguaggio, la filosofia traccia una demarcazione tra scienza e metafisica, convertendo i problemi filosofici tradizionali in problemi empirici o eliminandoli, una volta smascherati come pseudoproblemi.
- lo sviluppo di linguaggi logici e formali che rettifichino le oscurità del linguaggio ordinario;

La concezione scientifica del mondo è empiristica e positivistica: si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati. In questo consiste il limite dei contenuti della scienza genuina. Non c’è alcun problema profondo, ovvero questione metafisica, bollata come priva di senso.

25
Q

Siffatto metodo dell’analisi logica è ciò che distingue essenzialmente il nuovo empirismo e positivismo da quello precedente, che era orientato in senso più biologico-psicologico. Se qualcuno afferma “esiste un dio”, “il fondamento assoluto del mondo è l’inconscio”, “nell’essere vivente vi è un’entelechia come principio motore”, noi non gli rispondiamo “quanto dici è falso”, bensì a nostra volta gli poniamo un quesito: “ che cosa intendi dire con i tuoi asserti?”. Risulta chiaro, allora, che esiste un confine preciso fra due tipi di asserzioni. All’uno appartengono gli asserti formulati nella scienza empirica: il loro senso si può stabilire mediante l’analisi logica; più esattamente, col ridurli ad asserzioni elementari sui dati sensibili. Gli altri asserti, cui appartengono quelli citati sopra, si rivelano affatto privi di significato, assumendoli come li intende il metafisico. Spesso è possibile reinterpretarli quali asserti empirici; allora, però, essi perdono il proprio contenuto emotivo, che in genere è basilare per lo stesso metafisico. Il metafisico e il teologo credono, a torto, con i loro enunciati di asserire qualcosa, di rappresentare uno stato di fatto. Viceversa, l’analisi mostra che simili enunciati non dicono nulla, esprimendo solo atteggiamenti emotivi. Espressioni del genere possono, certo, avere un ruolo pregnante nella vita; ma, al riguardo, lo strumento espressivo adeguato è l’arte, per esempio la lirica o la musica. Si sceglie, invece, la veste linguistica propria di una teoria, ingenerando un pericolo: quello di simulare un contenuto teorico inesistente. Se un metafisico o un teologo vogliono mantenere nel linguaggio la forma usuale, debbono consapevolmente e chiaramente ammettere di non fornire rappresentazioni, bensì espressioni; di non offrire teorie, di non comunicare conoscenze, bensì poesie o miti. Nulla si può contestare a un mistico che affermi di avere esperienze che vanno al di sopra o al di là di tutti i concetti. Ma egli non può parlarne, poiché parlare significa ricorrere a concetti, ricondurre a stati di fatto articolabili scientificamente.

A

Prendendo spunto dal Tractatus di Wittgenstein, per cui “comprendere una proposizione significa sapere come stanno le cose se essa è vera”, i neopositivisti sostengono che il significato di un enunciato non è altro che il metodo della sua verifica. Secondo questo criterio di significanza, definito verificazionismo, un enunciato risulta sensato solo quando esistono procedure empiriche atte a verificarne la validità. Poiché la scienza ha un metodo per la verifica empirica dei propri enunciati, è l’attività conoscitiva per eccellenza. Le proposizioni della metafisica, invece, sono prive di senso nell’ambito della conoscenza, in quanto trascendono l’orizzonte dell’umanamente verificabile. Il neopositivismo non rimprovera alla metafisica la falsità, ma l’insensatezza delle sue dichiarazioni, costituite da concetti illusori e da parole senza senso. La metafisica, come l’etica e la religione, non fornisce conoscenza, ma è la semplice manifestazione di un atteggiamento emotivo verso l’esistenza, si configura come il bisogno dell’uomo di esprimere il proprio sentimento della vita. I metafisici non sono che dei musicisti senza capacità musicale. La metafisica è qualcosa di simile all’arte, con in più la pretesa fallace di voler ragionare.

26
Q

L’influenza di Einstein sui neopositivisti

A

La teoria della relatività di Einstein risultò particolarmente significativa per i neopositivisti per illustrare la loro teoria del significato. Essa partì da un’analisi del significato operativo della relazione di “simultaneità” in termini delle operazioni che devono essere eseguite per verificare un enunciato di simultaneità (“l’evento A si verifica simultaneamente all’evento B”). Questa analisi portò Einstein a rivoluzionare i concetti di tempo e di spazio e a mettere da parte la “metafisica” newtoniana dello spazio e del tempo assoluti.

27
Q

Primo dogma del neopositivismo

A

Uno dei dogmi del neopositivismo logico è la distinzione rigida fra enunciati teorici ed enunciati osservativi. Questi ultimi dovrebbero essere verificabili in modo diretto mediante l’esperienza. Ma l’analisi approfondita di questo problema ha portato alla conclusione che questa distinzione non regge e che tutti gli enunciati sono, in qualche misura, “carichi di teoria” (theory-laden).

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Secondo dogma del neopositivismo

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Un secondo dogma del neopositivismo logico, oltre alla dicotomia teorico/osservativo è quella fra enunciati analitici ed enunciati sintetici. Gli enunciati significanti vengono classificati in:
- enunciati che concernono relazioni tra idee (in termini kantiani analitici), come quelli della matematica, che sono tautologie che hanno in se stesse la loro verità (il triangolo ha tre lati);
- enunciati che concernono fatti (sintetici), come quelli della fisica, che sono veri solo se testimoniati dall’esperienza.

Gli enunciati analitici (come le verità logiche), al contrario di quelli sintetici, sono veri indipendentemente dall’esperienza, poiché la loro verità è puramente concettuale (ad esempio “nessuno scapolo è sposato”).

Questa distinzione si è rivelata difficile da tracciare ed è stata severamente criticata soprattutto da Quine.

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La concezione scientifica del mondo respinge la metafisica. Ma come spiegarne gli errori? La questione ammette profili differenti: psicologico, sociologico, logico. Le indagini psicologicheal riguardo appaiono ancora in uno stadio iniziale; i primi passi verso una comprensione più profonda sono forse reperibili nelle ricerche della psicoanalisi freudiana. Analoga è la situazione in ambito sociologico […]. Più avanzata è la comprensione dell’origine logica degli errori metafisici, specialmente grazie ai lavori di Russell e di Wittgenstein. Nelle teorie e nelle stesse formulazioni delle questioni metafisiche sono presenti due errori logici basilari : un’aderenza troppo stretta alla forma delle lingue tradizionali e un inadeguato intendimento della funzione logica del pensiero. La lingua comune, per esempio, usa la medesima forma grammaticale, cioè il sostantivo, per designare sia cose (“mela”), sia qualità (“durezza”), sia relazioni (“amicizia”), sia processi (“sonno”); in tal modo, essa induce erroneamente a intendere i concetti funzionali come concetti di cose (ipostatizzazione, sostanzializzazione). È possibile addurre molteplici esempi di simili travisamenti linguistici, che sono del pari risultati fatali per la filosofia.

Il secondo errore basilare della metafisica consiste nel ritenere che il pensiero possa, da solo, senza il ricorso a qualche materiale empirico, condurre alla conoscenza, o almeno sia in grado di ricavare per via di inferenze da elementi fattuali noti nuove cognizioni. L’indagine logica, però, mostra che ogni pensiero, ogni inferenza, non è che un passaggio da proposizioni ad altre proposizioni che non contengono nulla che non sia già presente nelle prime. Risulta, quindi, impossibile sviluppare una metafisica a partire dal “pensiero puro”.

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Secondo i neopositivisti, gli errori metafisici derivano principalmente da due tipi di fallacie logiche:
- Problema linguistico: l’eccessiva aderenza al linguaggio naturale, che non fa rilevare le differenze sussistenti tra espressioni che sembrano possedere la stessa forma superficiale. La lingua comune, che si serve della stessa forma grammaticale, il sostantivo, per designare concetti astratti e oggetti concreti, genera confusione e fraintendimenti, portando all’ipostatizzazione, o reificazione, trasformando erroneamente concetti astratti o relazioni in entità concrete, come se avessero un’esistenza indipendente nel mondo reale. Ad esempio, la metafisica potrebbe ipostatizzare il concetto di “essere” come se fosse una cosa esistente di per sé. Carnap mostra che nella metafisica di Heidegger la parola “nulla” viene assunta come il nome di un oggetto e trattato come tale, mentre in realtà il nulla non è il nome di un oggetto, ma la negazione di un enunciato (“c’è nulla” nega l’enunciato “c’è qualcosa”).
- Problema metodologico: l’erronea convinzione che il pensiero possa generare conoscenza autonomamente, senza riferimento ai dati empirici, o che possa passare, per via inferenziale, da fatti noti a conoscenze nuove e significative. Questo approccio implica una fiducia nella capacità della ragione di trascendere l’esperienza e di scoprire verità fondamentali sull’esistenza, la realtà e altri concetti metafisici. I neopositivisti contestano questa idea, affermando che le conclusioni di ogni inferenza logica non contengono informazioni nuove rispetto a quelle presenti nelle premesse. Pertanto, qualsiasi tentativo di costruire una metafisica basata esclusivamente sul pensiero razionale è destinato a fallire. La critica neopositivista sottolinea l’importanza dei dati empirici per l’acquisizione di nuove conoscenze. Senza l’osservazione e l’esperienza, non possiamo ottenere informazioni nuove sul mondo.

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Così, mediante l’analisi logica, viene superata non solo la metafisica nell’accezione più ristretta, classica, del termine, in particolare la metafisica scolastica e quella dei sistemi dell’idealismo tedesco, bensì anche la metafisica latente dell’apriorismo kantiano e moderno. Nella concezione scientifica del mondo non si danno conoscenze incondizionatamente valide derivanti dalla pura ragione, né “giudizi sintetici a priori” , quali ricorrono alla base sia della teoria della conoscenza di Kant, sia, ancor più, di tutte le ontologie e metafisiche pre o postkantiane. […] La tesi fondamentale dell’empirismo moderno consiste proprio nell’escludere la possibilità di una conoscenza sintetica a priori. La concezionescientifica del mondo riconosce solo le proposizioni empiriche su oggetti di ogni sorta e le proposizioni analitiche della logica e della matematica. Tutti i fautori della concezione scientifica del mondo concordano nel rifiuto sia della metafisica esplicita, sia di quella latente, propria dell’apriorismo. Ma il Circolo di Vienna sostiene, inoltre, che anche gli asserti del realismo (critico) e dell’idealismo circa la realtà o irrealtà del mondo esterno e delle altre menti hanno carattere metafisico, essendo soggetti alle stesse obiezioni rivolte contro gli asserti della metafisica antica: essi sono privi di senso, in quanto non verificabili e vacui. Qualcosa è “reale” nella misura in cui risulta inserito nel quadro generale dell’esperienza.

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La metafisica scolastica e i sistemi dell’idealismo tedesco (come quelli di Hegel) vengono superati mediante l’analisi logica. Questi sistemi filosofici tradizionali, che cercano di stabilire verità assolute e universali sulla base della pura ragione, sono considerati insostenibili dai neopositivisti.
Anche l’apriorismo di Kant viene rigettato. Kant sosteneva l’esistenza di giudizi sintetici a priori, cioè affermazioni che ampliano la nostra conoscenza e che sono valide indipendentemente dall’esperienza. Secondo i neopositivisti, tali giudizi non sono possibili. Essi affermano che tutta la conoscenza derivante dalla ragione pura senza riferimento all’esperienza è insensata.
La concezione scientifica del mondo rifiuta sia la metafisica esplicita (come quella delle teorie ontologiche e metafisiche pre o postkantiane) sia la metafisica latente (come l’apriorismo di Kant).

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La scienza non posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude, ma non in una base naturale o “data”; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura.
Karl Popper, La logica della scoperta scientifica, 1934.

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La verità assoluta nella scienza e nella filosofia non verrà mai raggiunta. Non possiamo verificare mediante enunciati osservativi le teorie scientifiche e non possiamo renderle più probabili. La caratteristica distintiva della scienza non è la sua infallibilità, ma la sua fallibilità. È un’illusione pensare che le teorie scientifiche siano come un edificio solido.

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Asserti universali e singolari

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  • Le teorie scientifiche sono asserti universali. A: Tutti i corvi sono neri. B: Tutti i cigni sono bianchi.
  • Le conoscenze che derivano dall’esperienza e dall’osservazione sono asserti singolari. P: Gennaro è un corvo ed è nero. Q: Giorgio è un cigno ed è bianco.
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Asserzioni strettamente universali, numericamente universali e strettamente esistenziali

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  • Le asserzioni strettamente universali si riferiscono a un numero illimitato di individui («Tutti i corvi sono neri», «Non esiste un corvo che non sia nero»). Sono falsificabili dall’esperienza, ma non verificabili: non si può escludere che in futuro osserviamo un corvo non-nero.
  • Le asserzioni numericamente universali si riferiscono a un numero limitato di individui e quindi possono essere sostituite da una congiunzione di asserti singolari («tutte le persone ora viventi sulla terra non superano i 2.40 di altezza», «tutti i corvi che sono stati osservati negli ultimi 50 anni sono neri»).
  • Le asserzioni strettamente esistenziali (qualche corvo non è nero, non tutti i corvi sono neri) possono solo essere verificate dall’esperienza, ma mai falsificate.
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Qualcuno potrebbe dire che, rifiutando il metodo induttivo, privo la scienza empirica di quella che sembra la sua caratteristica più importante; e ciò significa che elimino le barriere che separano la scienza dalla speculazione metafisica. A quest’obiezione rispondo che la principale ragione per cui rifiuto la logica induttiva è precisamente questa: che essa non fornisce un contrassegno appropriato per distinguere il carattere empirico, non metafisico, di un sistema di teorie; o, in altre parole, che non fornisce un “criterio di demarcazione” appropriato. Chiamo problema della demarcazione li problema di trovare un criterio che ci metta in grado di distinguere tra le scienze empiriche da un lato e la matematica e la logica, e così pure i sistemi “metafisici”, dall’altro. […] Poiché rifiuto la logica induttiva, devo anche rifiutare tutti questi tentativi di risolvere il problema della demarcazione. Il problema della demarcazione diventa importante per la nostra indagine in seguito a questo rifiuto. Il compito cruciale di qualunque epistemologia che non accetti la logica induttiva dev’essere trovare un criterio di demarcazione accettabile.

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Secondo Popper l’esperienza non solo non è in grado di verificare le teorie scientifiche, ma neppure di renderle più probabili. Le teorie scientifiche sono asserzioni strettamente universali, quali sono le leggi di natura, cioè proposizioni che devono valere per un numero illimitato di accadimenti, dunque non possono essere verificate, ma solo falsificate dall’esperienza. “Tutti i corvi sono neri” non può essere verificata dall’osservazione di qualunque numero, per quanto grande, di corvi neri, ma può essere falsificata dall’osservazione di un singolo corvo non-nero. Poiché basta un solo esempio contrario a invalidare un enunciato universale, Popper propone come criterio di demarcazione tra scienza e pseudoscienza non la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema: da un sistema non si esige che sia capace di essere valutato una volta per tutte in senso positivo, ma si esige che la sua forma logica sia tale che possa essere valutato per mezzo di controlli empirici in senso negativo.
Una teoria è scientifica se è falsificabile, ovvero se divide le asserzioni base che caratterizzano la nostra esperienza in due classi: la classe dei falsificatori potenziali della teoria, cioè l’insieme delle asserzioni osservative che, se fossero verificate, contraddirebbero una previsione della teoria, quindi le asserzioni base che essa esclude o vieta, e la classe delle asserzioni base che non contraddice o che permette.

Popper scarta quindi il programma del neopositivismo di una demarcazione tra asserti significanti e non significanti: infatti, secondo il criterio dei neopositivisti basato sulla verificabilità, le asserzioni strettamente universali sarebbero «prive di significato», perché non possono essere verificate.

Popper scarta anche l’induttivismo: se le scienze empiriche mirano a formulare asserzioni strettamente universali, l’estrapolazione da qualsiasi numero finito di esempi a favore non è conclusiva, ma fallace.

Popper respinge l’induttivismo sia nel contesto della scoperta sia nel contesto della giustificazione: le teorie scientifiche non vengono scoperte a partire da osservazioni casuali e non possono neppure essere giustificate sulla base delle osservazioni. Il giustificazionismo deve essere sostituito dall’atteggiamento critico e l’induzione dal metodo dei controlli severi. Nel caso la teoria abbia resistito ai severi tentativi escogitati per falsificarla, Popper la definisce corroborata. La corroborazione pubblica è una componente essenziale della ricerca, non meno dell’ideazione personale da parte del singolo scopritore.

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Solo ponendo come requisito che le spiegazioni dovranno impiegare leggi di natura universali (integrate con condizioni iniziali) possiamo progredire verso la realizzazione di spiegazioni indipendenti, o non ad hoc. Infatti, le leggi di natura universali possono essere enunciati ricchi di contenuto, così da poter essere controllati indipendentemente sempre e dovunque. Quindi, qualora vengano usate come spiegazioni non possono essere ad hoc, dal momento che possono permetterci di interpretare l’explicandum come esempio di un processo riproducibile. Tutto questo è vero, tuttavia, se ci limitiamo a leggi universali che siano controllabili, vale adire falsificabili. È qui che entrano in gioco il problema della demarcazione e il criterio di falsificabilità. La domanda “che genere di spiegazione può risultare soddisfacente?” porta così alla risposta: una spiegazione nei termini di leggi universali e di condizioni iniziali controllabili e falsificabili. Una spiegazione di questo genere sarà tanto più soddisfacente quanto più altamente controllabili saranno queste leggi, e quanto meglio saranno controllate.

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Secondo Popper, una spiegazione scientifica soddisfacente dei fenomeni deve impiegare leggi universali controllabili e falsificabili, per essere indipendente e non ad hoc.

La caratteristica distintiva della scienza non è la sua infallibilità, ma la sua fallibilità. Le teorie scientifiche si distinguono dalle quelle pseudo-scientifiche per il fatto di essere falsificabili: possono essere contraddette dall’esperienza. Le teorie pseudoscientifiche o metafisiche sono invece infalsificabili o per la loro forma logica (asserzioni esistenziali) o per l’atteggiamento metodologico dei loro sostenitori che le rendono immuni dalla confutazione con stratagemmi ed “ipotesi ad hoc”.

Le ipotesi ad hoc sono ipotesi che vengono formulate dagli scienziati per «salvare» una teoria dalla confutazione empirica. Ci sono vari tipi di ipotesi ad hoc, ma la loro caratteristica comune è che esse si limitano a spiegare il fatto che sembra contraddire la teoria senza condurre a nessuna previsione nuova. In questo modo esse riducono il contenuto empirico della teoria, ovvero l’insieme dei suoi falsificatori potenziali (per esempio, il contenuto empirico di «tutti i corvi sono neri» è l’insieme delle asserzioni della forma: «nel luogo x al tempo t c’è un corvo che non è nero»).

Secondo Popper le ipotesi sono tanto più scientifiche quanto più sono falsificabili. Se la teoria T ha più falsificatori potenziali di T’, ha un contenuto empirico maggiore. Il caso più semplice è quello in cui T’ ha tutti i falsificatori potenziali di T, ma ne ha anche altri che non sono falsificatori potenziali di T.

Tipici esempi di pseudoscienze che non soddisfano il requisito della falsificabilità sono, secondo Popper, l’astrologia, il marxismo, la psicoanalisi (involuzioni pseudoscientifiche di posizioni originariamente scientifiche). Queste teorie sono in grado di “spiegare” praticamente tutto (“un marxista non può aprire il giornale senza trovare innumerevoli conferme della propria teoria”), ma i loro sostenitori non sono in grado, anzi si rifiutano, di specificare di fronte a quale tipo di evidenza contraria sarebbero disposti a considerarle confutate.

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Secondo il punto di vista che sarà esposto qui, il metodo consistente nel sottoporre le teorie a controlli critici e nello scegliere secondo i risultati dei controlli procede sempre lungo le linee seguenti. Da una nuova idea, avanzata per tentativi e non ancora giustificata in alcun modo - una anticipazione, un’ipotesi, un sistema di teorie, o qualunque cosa si preferisca -, si traggono conclusioni per mezzo della deduzione logica. In un secondo tempo queste conclusioni vengono confrontate l’una con l’altra, e con altre asserzioni rilevanti, in modo da trovare quali relazioni logiche (come equivalenza, derivabilità, compatibilità o incompatibilità) esistano tra di esse.

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La dinamica della conoscenza scientifica è un’alternarsi di congetture e confutazioni. Gli scienziati propongono ipotesi audaci (altamente falsificabili) e poi le sottopongono a severi controlli. Accettiamo provvisoriamente le teorie che sopravvivono a questa dura selezione (l’evoluzione della conoscenza scientifica avviene secondo uno schema darwiniano).
Prima si fanno CONGETTURE e poi si procede solo per DEDUZIONE. Quando si deve falsificare la teoria non si parte da osservazioni casuali per trarre una regola generale per induzione, ma al contrario si traggono conclusioni solo per deduzione, che è l’unico metodo valido → la sua filosofia è una forma di razionalismo deduttivo.

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Volendo, possiamo distinguere quattro differenti linee lungo le quali si può eseguire il controllo di una teoria. Per primo viene il confronto logico delle conclusioni tra loro: confronto per mezzo del quale si controlla la coerenza interna del sistema. In secondo luogo viene l’indagine della forma logica della teoria, il cui scopo è di determinare se la teoria abbia carattere di teoria empirica o di teoria scientifica, o se sia, per esempio, tautologica. In terzo luogo viene il confronto con altre teorie, il cui scopo principale è quello di determinare se la teoria costituisca un progresso scientifico, nel caso che sopravviva ai vari controlli a cui l’abbiamo sottoposta. Infine c’è il controllo della teoria condotto mediante le applicazioni empiriche delle conclusioni che possono essere derivate da essa. Scopo di quest’ultimo tipo di controllo è di scoprire fino a che punto le nuove conseguenze della teoria - qualunque cosa di nuovo possa esserci in ciò che essa asserisce - vengano incontro alle richieste della pratica, sia a quelle sollevate da esperimenti puramente scientifici, sia a quelle che derivano da applicazioni tecnologiche pratiche. Anche qui la procedura dei controlli rivela il proprio carattere deduttivo. Con l’aiuto di altre asserzioni già accettate in precedenza si deducono dalla teoria certe asserzioni singolari che possiamo chiamare “predizioni”: in particolar modo predizioni che possano essere controllate o applicate con facilità. Tra queste asserzioni scegliamo quelle che non sono derivabili dalla teoria corrente, e, più in particolare, quelle che la teoria corrente contraddice. In seguito andiamo alla ricerca di una decisione riguardante queste (e altre) asserzioni derivate, confrontando queste ultime con i risultati delle applicazioni pratiche e degli esperimenti. Se questa decisione è positiva, cioè se le singole conclusioni si rivelano accettabili o verificate, la teoria ha temporaneamente superato il controllo: non abbiamo trovato alcuna ragione per scartarla. Ma se al decisione è negativa, o, in altre parole, se le conclusioni sono state falsificate, allora la loro falsificazione falsifica anche la teoria da cui le conclusioni sono state dedotte logicamente. È opportuno notare che una decisione positiva può sostenere al teoria soltanto temporaneamente, perché può sempre darsi che successive decisioni negative la scalzino. Finché una teoria affronta con successo controlli dettagliati e severi, e nel corso del progresso scientifico non è scalzata da un’altra teoria, possiamo dire che ha “provato il suo valore” oche è stata “corroborata” dall’esperienza passata.

A

Secondo Popper, la conoscenza scientifica non è mai definitiva, ma è in continua evoluzione. Si parte da una congettura, un’ipotesi altamente falsificabile, e, con l’aiuto di teorie ausiliarie, ovvero conoscenze già acquisite e ritenute valide, dalla congettura si deducono delle predizioni empiriche, ovvero delle asserzioni che riguardano i fenomeni che la teoria dovrebbe spiegare. Attraverso l’osservazione e l’esperimento si raccolgono dati empirici e si confrontano con le predizioni derivate dalla teoria. Se le predizioni sono confermate dai dati empirici, la congettura viene provvisoriamente accettata. Tuttavia, la sua validità non è mai definitiva, e può essere sempre messa in discussione da nuove osservazioni ed esperimenti. Se le predizioni sono falsificate dai dati empirici, la congettura viene falsificata e deve essere sostituita da una nuova congettura che meglio spieghi i fenomeni osservati.

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Il metodo scientifico secondo Popper

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Secondo Popper il «metodo scientifico» non è un sistema di istruzioni su come deve essere condotta una ricerca, ma è un sistema di convenzioni generali, simili a quelle che regolano un gioco.
- Il gioco della scienza è in linea di principio senza fine. Chi un bel giorno decide che le asserzioni scientifiche non hanno più bisogno di alcun controllo, e si possono ritenere verificate definitivamente, si ritira dal gioco.
- Una volta che un’ipotesi sia stata proposta e controllata, e abbia provato il suo valore, non dovrebbe più senza una «buona ragione», poter scomparire dal posto che occupa. Una «buona ragione» può essere, ad esempio, la sua sostituzione con un’ipotesi meglio controllabile, o la falsificazione di una delle conseguenze dell’ipotesi.

Tutta la filosofia della scienza di Popper si basa sull’idea che la caratteristica distintiva del metodo scientifico sia un costante e severo atteggiamento critico e il rifiuto di qualunque forma di dogmatismo. L’onestà scientifica non impone di confermare le proprie teorie ma di cercare di confutarle. Il “codice d’onore” dello scienziato gli impone non di cercare conferme della propria teoria ma, al contrario, di cercare di confutarla. Cercare con ogni mezzo di sottrarre una teoria alla confutazione, mediate stratagemmi ed ipotesi ad hoc, finisce col trasformare la teoria in una “metafisica”, infalsificabile non per la sua forma logica, ma come conseguenza dell’atteggiamento metodologico dei suoi sostenitori.

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Razionalismo critico di Popper

A

Secondo Popper, la ragione non legittima la verità di una teoria, ma va impiegata per criticare la teoria stessa (in materia di conoscenza empirica, non ha funzione rigorosamente dimostrativa, ma unicamente un compito critico). Sulla base del principio di falsificabilità, che afferma che una teoria è scientifica solo se sottoponibile ad un controllo in grado eventualmente di falsificarla (mediante deduzione di fatti d’esperienza da asserzioni di base), Popper affida alla ragione il compito di individuare i possibili errori che si celano nella teoria presa in esame. Se le asserzioni di base risultano non contrastare con l’esperienza, ovvero se i tentativi di falsificazione coordinati dalla ragione non hanno alcun esito, la teoria viene ritenuta «corroborata», ma mai «verificata» essendolo soltanto in modo provvisorio, dato che altre asserzioni di base, in futuro, potrebbero falsificare la teoria.

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Fallibilismo di Popper

A

Dal razionalismo critico deriva la concezione fallibilistica popperiana per cui tutte le conoscenze empiriche sono incerte e non pervengono a una verità assoluta: non possiamo mai dimostrare con assoluta certezza che una teoria sia vera, ma possiamo solo cercare di falsificarla.

Da qui la rivalutazione dell’errore, grazie a cui è possibile in un certo senso delimitare l’orizzonte della verità: l’errore rappresenta infatti un limite, negativo ma anche costitutivo della scienza, perché consente di imparare da esso, attraverso la sua costante eliminazione resa possibile dal dibattito critico. Il progresso scientifico non consiste nell’accumulo di verità, ma nello scarto degli errori: quanto più si sbaglia, tanto più si evolve la conoscenza, in maniera analoga all’evoluzione biologica, avvicinandosi sempre di più alla verità, pur non potendola mai raggiungere definitivamente.

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Le rivoluzioni scientifiche per Kuhn

A

Se c’è uno schema riconoscibile nel modo in cui le idee scientifiche cambiano nel tempo, come dovremmo spiegare l’abbandono di una teoria esistente in favore di una nuova da parte degli scienziati, se le teorie scientifiche successive sono oggettivamente migliori delle precedenti, sono tutti temi che Kuhn tratta ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche.

Esempi di rivoluzione scientifica:
- Rivoluzione copernicana in astronomia.
- Rivoluzione einsteiniana in fisica.
- Rivoluzione darwiniana in biologia.

Una rivoluzione scientifica conduce a un cambiamento radicale nella visione scientifica del mondo: sostituzione di un insieme esistente di idee con uno completamento diverso.

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Il paradigma in Kuhn

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Le RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE accadono relativamente di rado: per la maggior parte del tempo la scienza non è in uno stato di rivoluzione. Kuhn conia il termine «SCIENZA NORMALE» per descrivere le attività ordinarie, giorno per giorno, in cui si impegnano gli scienziati quando la loro disciplina non è sottoposta a un cambiamento rivoluzionario. Centrale per la spiegazione kuhniana della scienza normale è la nozione di «PARADIGMA».
Un paradigma consiste di due componenti principali:
- Un insieme di assunzioni teoriche fondamentali che tutti i membri di una comunità scientifica accettano in un dato momento;
- Un insieme di casi «esemplari» di problemi scientifici particolari, che sono stati risolti per mezzo delle citate assunzioni fondamentali, e che appaiono nei manuali della disciplina in questione.

Un paradigma però è qualcosa di più di una mera teoria (anche se talvolta Kuhn usa queste espressioni in modo intercambiabile). Quando gli scienziati condividono un paradigma, essi non sono solo d’accordo su certe proposizioni, ma concordano anche sul modo in cui la futura ricerca scientifica nel loro campo dovrebbe procedere, su quali sono i problemi pertinenti da affrontare, su quali sono i metodi appropriati per risolverli, su come si presenta una soluzione accettabile dei problemi ecc.

PARADIGMA riassume un’intera prospettiva scientifica - una costellazione di assunzioni condivise, credenze e valori che unificano una comunità scientifica e permettono alla scienza normale di esistere.

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La scienza normale per Kuhn

A

Il mantenimento della scienza normale consiste in un’attività di soluzione di un rompicapo. Per quanto successo abbia un paradigma, affronterà sempre certi problemi - fenomeni che non è facilmente in grado di spiegare, distanza tra le predizioni della teoria e i fatti sperimentali ecc. Lo scopo della scienza normale è eliminare questi rompicapi minori, operando meno cambiamenti possibile al paradigma. La scienza normale, quindi, è un’attività conservatrice - i suoi praticanti non vogliono innescare un terremoto teorico, ma piuttosto sviluppare ed estendere il paradigma esistente: «La scienza normale non ha per scopo quello di trovare novità fattuali o teoriche e, quando ha successo, non ne trova nessuna».
Gli scienziati normali non cercano di sottoporre a controllo il paradigma, a differenza di Popper: essi lo accettano incondizionatamente e sviluppano le loro ricerche all’interno dei limiti da esso stabiliti. Se uno scienziato normale giunge a risultati sperimentali che sono in conflitto con il paradigma, di solito ne conclude che la tecnica sperimentale sia erronea, non che il paradigma sia sbagliato. Un periodo di scienza normale dura per decenni, a volte per secoli. Durante questo intervallo gli scienziati articolano gradualmente il paradigma - mettendolo a punto, completando dettagli, risolvendo rompicapi, estendendo il suo campo di applicazione, ecc.

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La scienza rivoluzionaria per Kuhn

A

Nel corso del tempo, emergono ANOMALIE: fenomeni che non possono essere riconciliati con le assunzioni teoriche del paradigma. Quando le anomalie sono poco numerose, si tende a ignorarle; ma quando aumentano, un crescente senso di CRISI avvolge la comunità scientifica. Questo periodo si chiama SCIENZA RIVOLUZIONARIA nella terminologia di Kuhn. Nel periodo di scienza rivoluzionaria sono proposte varie alternative al vecchio paradigma, e alla fine se ne afferma uno nuovo. Di solito occorre circa una generazione perché tutti i membri della comunità scientifica si arrendano al nuovo paradigma - un evento che segna la conclusione della rivoluzione scientifica. Dunque, la rivoluzione scientifica è il passaggio da un vecchio paradigma a uno nuovo.

Kuhn sostenne che adottare un nuovo paradigma richiede un atto di fede da parte dello scienziato: uno scienziato poteva avere buone ragioni per abbandonare il vecchio paradigma in favore di uno nuovo; ma Kuhn insisteva che le ragioni da sole non avrebbero mai potuto costringere su basi razionali a un cambio di paradigma (ESPERIENZA DI CONVERSIONE).

Nello spiegare il perché un nuovo paradigma conquista rapidamente il suo riconoscimento nella comunità scientifica, Kuhn sottolineò la pressione che gli scienziati esercitano gli uni sugli altri nell’ambito del gruppo dei pari. Se un paradigma ha difensori molto potenti è più probabile che conquisti un diffuso riconoscimento. (RAPPORTO SCIENZA/POTERE).

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Q

La visione della scienza di Kuhn

A

Se i cambiamenti di paradigma avvengono nel modo in cui egli afferma è difficile vedere come la scienza possa mai essere considerata un’attività razionale. Il modello di Kuhn del cambiamento di paradigma sembra difficile da conciliare con l’immagine positivista della scienza come un’attività oggettiva e razionale.

Kuhn NON ha una visione «cumulativa» della scienza, per cui la scienza progredisce verso la verità in modo lineare, via via che le idee vecchie e sbagliate sono sostituite da quelle nuove e corrette. Kuhn notò che la teoria della relatività di Einstein per certi aspetti è più simile alla teoria aristotelica che a quella newtoniana. La storia della meccanica, quindi, non è semplicemente una progressione lineare da ciò che è sbagliato a ciò che è giusto.

Inoltre Kuhn mise in questione la sensatezza stessa dell’idea di verità oggettiva. La verità di un asserto o di un suo insieme (teoria) è solo relativa al paradigma di riferimento.

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La teoria dell’incommensurabilità in Kuhn

A

Per Kuhn i paradigmi in competizione tra loro sono normalmente INCOMMENSURABILI. Due paradigmi possono essere talmente diversi da rendere impossibile ogni confronto diretto tra loro - non esiste un linguaggio comune in cui entrambi possano essere tradotti. Quando un paradigma esistente è sostituito da un altro in una rivoluzione scientifica, gli scienziati devono abbandonare l’intera cornice concettuale che usano per dare senso al mondo. Gli scienziati che aderiscono a due paradigmi diversi vivono in «mondi differenti». L’incommensurabilità implica che il cambiamento scientifico è in un certo senso privo di direzione: i paradigmi successivi non sono migliori dei precedenti, sono soltanto diversi (analogia con la teoria darwiniana).

La teoria dell’incommensurabilità si origina in larga parte dalla convinzione di Kuhn secondo cui i concetti scientifici derivano il proprio significato dalla teoria in cui giocano un ruolo. Ad esempio, il termine «massa» significa qualcosa di diverso per Newton e per Einstein, dato che le teorie in cui esso è inserito sono così diverse. Questo implica che Newton ed Einstein stavano in effetti parlando due linguaggi diversi, il che complica il tentativo di scelta tra le loro teorie.
Se un fisico newtoniano e uno einsteiniano provassero a intrattenere una discussione razionale, finirebbero col dar vita a un dialogo tra sordi.
I concetti non possono essere spiegati indipendentemente dalle teorie in cui sono inseriti: OLISMO. Così, per capire il concetto di massa di Newton, dobbiamo poter comprendere la totalità della teoria newtoniana.

L’incommensurabilità serve
- per rifiutare la concezione secondo cui i cambiamenti di paradigma sono completamente oggettivi;
- per sostenere un’immagine non cumulativa della storia della scienza.

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La risposta di Kuhn alle critiche dell’incommensurabilità

A

La filosofia della scienza dei neopositivisti o di Popper non vedeva nessuna eccessiva difficoltà nello scegliere tra teorie in competizione, ma ciò presuppone chiaramente che ci sia un linguaggio comune in cui entrambe le teorie possono essere espresse.
Kuhn risponde alle critiche al concetto di incommensurabilità sostenendo che anche se due paradigmi sono incommensurabili, ciò non significa che sia impossibile paragonarli tra loro, solo che il confronto è più difficile.

Una SCELTA solamente razionale tra paradigmi è impossibile, sia perché c’è un incommensurabilità di linguaggio sia perché c’è una incommensurabilità degli standard. I proponenti di paradigmi diversi possono dissentire sugli standard in base ai quali valutarli, su quali problemi un buon paradigma dovrebbe risolvere, sulla natura di una soluzione accettabile di tali problemi, ecc.. Così, anche se essi possono in effetti comunicare, non potranno raggiungere un accordo su quale paradigma sia superiore.

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Theory-ladenness in Kuhn

A

Kuhn pensava che la natura dei dati fosse carica di teoria (theory laden), negando l’esistenza di una osservazione pura e di un linguaggio osservativo neutro: le nostre osservazioni del mondo sono sempre influenzate dalle teorie che utilizziamo per comprenderlo. I “fatti” d’osservazione e di esperimento non sono mai “neutrali”, in quanto risultano intelligibili solo all’interno di un determinato quadro interpretativo, sono cioè cariche di teoria.
- La percezione da parte della comunità scientifica di ciò che viene osservato è condizionata da credenze di sfondo: ciò che vediamo dipende in parte da ciò che crediamo.
- I resoconti sperimentali e osservativi degli scienziati sono inseriti in un linguaggio altamente teorico. Per esempio uno scienziato potrebbe riportare l’esito di un esperimento dicendo «una corrente elettrica scorre attraverso il filo di rame»: questo resoconto sperimentale è carico di una gran quantità di teoria. Esso non sarebbe accettato da uno scienziato che già non avesse le credenze standard intorno alle correnti elettriche: uno scienziato non è neutrale rispetto alla teoria.

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Le conseguenze della Theory-ladenness in Kuhn

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La natura carica-di-teoria dei dati ha conseguenze importanti:
- La scelta tra due paradigmi in competizione non poteva essere risolta dal mero appello ai «dati» o ai «fatti», perché quello che uno scienziato annovera tra i dati, o tra i fatti, dipende da quale paradigma accetta. Una scelta OGGETTIVA tra due paradigmi non è possibile: non esiste un punto di vista neutrale.
- L’idea di verità oggettiva è messa in questione. Infatti, per essere oggettivamente vere le nostre teorie o credenze devono corrispondere ai fatti; ma l’idea di questa corrispondenza ha poco senso, se i fatti stessi sono contaminati dalle teorie. La VERITÀ è SOLO RELATIVA A UN PARADIGMA.

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Queste osservazioni dovrebbero iniziare a chiarire che cosa penso sia un paradigma. Esso è, anzitutto, una conquista scientifica fondamentale che comprende sia una teoria sia alcuni esempi di applicazione ai risultati della sperimentazione e dell’osservazione. Ancora più importante, esso è una conquista aperta, che lascia ogni genere di ricerca ancora da intraprendere. Infine, è una conquista accettata, nel senso che è condivisa da un gruppo i cui membri non tentano più di contrastarla o di creare alternative a essa. Al contrario: essi cercano di estenderla e di sfruttarla in una varietà di modi che esaminerò tra breve. La discussione sul lavoro che i paradigmi lasciano da fare renderà ancora più chiaro il loro ruolo e le ragioni per la loro speciale efficacia. Ma prima c’è da considerare un diverso argomento a loro riguardo. Benché la ricezione di un paradigma sembri costituire, da un punto di vista storico, un prerequisito ai più efficaci tipi di ricerca scientifica, i paradigmi che accrescono l’efficacia di una ricerca non devono essere permanenti, e di solito non lo sono. Al contrario, il modello di sviluppo di una scienza matura è solitamente da paradigma a paradigma. Si differenzia dal modello caratteristico del primo periodo, o periodo pre-paradigmatico, non per l’eliminazione totale del dibattito sui fondamenti, ma per la drastica restrizione di tale dibattito ai momenti occasionali di cambiamento di paradigma.

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Kuhn sottolinea che, contrariamente alla concezione popperiana dell’incessante “discussione critica” che dovrebbe garantire la scientificità della ricerca, proprio l’abbandono di tale atteggiamento con l’emergere di un paradigma (insieme di esempi di effettiva prassi scientifica riconosciuti come validi, che comprendono leggi, teorie, applicazioni e strumenti, fornendo modelli che danno origine a particolari tradizioni di ricerca) e l’accettazione di questo da parte della comunità scientifica segna il passaggio a una scienza matura: da una fase iniziale pre-paradigmatica, in cui diverse scuole di pensiero competono tra loro, proponendo spiegazioni alternative per i fenomeni naturali, si passa alla fase di scienza normale, in cui gli scienziati accettano incondizionatamente il paradigma, lo sviluppano ed estendono, rendendolo più completo e ampliando il suo campo di applicazione.

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Quello che intendo dire risulterà più chiaro se ora chiedo che cosa l’esistenza di un paradigma lasci da fare alla comunità scientifica. La risposta […] è che gli scienziati, dato un paradigma, lottano con tutta la loro forza e con tutta la loro abilità per portarlo a un accordo sempre più stretto con la natura. Gran parte dei loro sforzi, particolarmente nelle prime fasi dello sviluppo di un paradigma, è diretta a sviluppare li paradigma stesso, a renderlo più preciso nelle aree dove la formulazione originaria era stata inevitabilmente vaga. Per esempio, sapendo che l’elettricità è un fluido le cui particelle individuali agiscono le une sulle altre a distanza, gli studiosi di fenomeni elettrici dopo Franklin potevano tentare di determinare la legge quantitativa che regola al forza tra le particelle di elettricità. Altri potevano cercare l’interdipendenza reciproca fra la lunghezza della scintilla, la deflessione osservata grazie all’elettroscopio, la quantità di elettricità e la configurazione del conduttore. Questi erano i generi di problemi su cui Coulomb, Cavendish e Volta lavorarono negli ultimi decenni del XVI secolo; ed essi hanno molti paralleli nello sviluppo di ogni altra scienza matura. I tentativi contemporanei di determinare el forze quantomeccaniche che governano el interazioni dei nucleoni cadono precisamente in questa stessa categoria, l’articolazione del paradigma.

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Nella fase di scienza normale, gli scienziati lavorano all’interno di un paradigma condiviso per svilupparlo, rendendolo più preciso e risolvendo le aree di vaghezza nella formulazione originale, per chiarire e ampliare il suo campo di applicazione, utilizzando la teoria per spiegare nuovi fenomeni, fare previsioni, e conducono esperimenti per testarne la validità e risolverne le problematiche interne, in cerca di una concordanza/corrispondenza tra teoria e natura. Lo sviluppo della meccanica classica dopo la rivoluzione scientifica di Galileo e Newton rappresenta un esempio di scienza normale. Gli scienziati come Coulomb, Cavendish e Volta lavorarono per determinare le leggi quantitative che governano l’elettricità e il magnetismo, all’interno del paradigma della meccanica classica.