PARTE POLITICO-ISTITUZIONALE Flashcards
L’AFRICA E IL PROGETTO NAZIONALE FASCISTA: RIPENSARE LA NAZIONE ATTRAVERSO L’IMPERO.
OBIETTIVO DELL’AUTRICE
In questo saggio, l’autrice intende gettare luce sulla specificità dell’esperienza coloniale fascista.
LA SPECIFICITA’ DELL’ESPERIENZA COLONIALE FASCISTA
L’espansionismo italiano era già iniziato in età liberale per rilanciare il prestigio dell’Italia a livello internazionale (Eritrea, Somalia, Libia)
ma con il fascismo la politica coloniale si intersecò sempre di più con il progetto che Mussolini aveva per la nazione, la cui rigenerazione passava anche attraverso l’esperienza delle colonie prima e dell’impero poi
- CELEBRAZIONI CIVILI: le festività civili istituite dal governo Mussolini (strumenti attraverso cui gli Stati affermano i propri riferimenti valoriali e diffondono ai cittadini il modello di comunità proposto) si caricano sempre di più di riferimenti coloniali
a) 21 aprile: il Natale di Roma sostituisce il 1 maggio, festa dei lavoratori
b) 24 maggio: celebrazione dell’entrata dell’Italia nella 1GM, diventerà la Giornata coloniale, per ricordare le virtù belliche di un popolo destinato all’affermazione internazionale
c) 9 maggio: Giornata dell’Impero - CULTO DELLA ROMANITA’: il popolo italiano aveva una naturale «tendenza all’impero» perché era erede dei fasti dell’antica civiltà romana, e doveva recuperare quindi (le spettava di diritto) i territori del Mare Nostrum –> inaugurazione nel 1932 di Via dei Fori Imperiali per collegare il Vittoriano con il Colosseo
- MUTATO ATTEGGIAMENTO VERSO L’EMIGRAZIONE: emigrati e coloni sono due modelli antropologici distinti. Entrambi hanno a che fare con uno spazio “altro”, ma uno dei due serve meglio la nazione: dietro la figura del colono non c’è solamente la bonifica materiale di terre, ma anche la trasformazione simbolica degli uomini e la creazione dell’uomo nuovo, antiborghese, guerriero, razzista, restauratore del virilismo italiano che si esplica nell’occupazione di una terra donna, vergine (l’Africa) e nello stupro delle donne africane.
Egli è un aiutante della nazione in quanto:
1) contribuisce ad alleggerire la pressione migratoria sulla penisola
2) abbraccia la vita rurale e si preocucpa della valorizzazione agraria del territorio
3) è chiamato a colonizzare demograficamente l’area, soprattutto dopo la sottrazione di territori ai residenti dopo il soffocamento della resisteza in Cirenaica del 1931
- MOBILITATO UN INTERO APPARATO DI PROPAGANDA sia istituzionale che mediatica CON LA GUERRA DI ETIOPIA: MinCulPop, stampa, radio, cinema, scuola per educare anche chi rimaneva in patria a vedere nella colonia la realizzazione di un ideale nazionale e per rappresentare un’italianità immaginata utilizzando l’Etiopia come palcoscenico
La mobilitazione fu capillare e il coinvolgimento della popolazione dietto, come rivela il celebre dono delle fedi alla patria
poco importa, a fini speculativi, il fatto che non ci sia riuscito (il Corno d’Africa non fu mai pacificato, in Etiopia non venne creata un’economia integrata e oltretutto 5 anni di dominio sono pochi per la realizzazione di un piano ambizioso come quello della modifica profonda dell’economia, la colonizzazione demografica fallì perché la Libia non divenne mai una colonia di popolamento vera e propria): però c’erano, sin dagli anni Venti, l’intenzione, il disegno e il progetto, che influenzavano grandemente la mentalità degli italiani con le loro retoriche
C’erano delle progettualità ben precise (colonizzazione demografica, rendere colonie e madrepatria uno spazio unico senza però implicare l’uguaglianza delle popolazioni, ricollocare l’Italia in un nuovo contesto internazionale…) che si scontrarono, è vero, con la realtà dei fatti, ma ci furono comunque delle novità sul piano degli intenti
1) idea di una colonizzazione demografica intensiva da parte di una nazione proletaria rurale era una polemica contro le nazioni plutocratiche che occupavano i territori con i capitali, soprattutto nei territori che vennero espropriati ai residenti dopo la sconfitta della resistenza in Cirenaica del 1931. In realtà la Libia non divenne mai una colonia di popolamento, vi giunsero molti meno cittadini di quanto prospettato dalla propaganda
2) ruolo assegnato alle donne in colonia
3) il regime inizia a tracciare dei confini ben precisi tra gli individui metropolitani e gli indigeni: c’è la condivisione di uno spazio, ma non la commistione: Faccetta Nera (incommensurabile distanza tra donna nera e italianità), vietato il madamato, vietato di riconoscere figli avuti da relazioni interraziali, il territorio nazionale era uno spazio precluso ai colonizzati, impossibilità per le donne italiane sposate con un suddito africano di mantenere la cittadinanza italiana, istituita una cittadinanza speciale per i libici musulmani nel 1939
EVOLUZIONE DELL’ESPERIENZA COLONIALE FASCISTA
1) rafforzamento del controllo su Eritrea, Somalia, Tripolitania e Cirenaica reprimendo le forme di resistenza con maggiore sistematicità e ricorrendo alle armi: repressione della resistenza dei mujaheddin di Omar Al–Mukhtar e sospensione degli statuti libici
2) aggressione all’Etiopia anche utilizzando armi chimiche proibite dalla convenzione di Ginevra: fu uno spartiacque utile a ricollocare l’Italia in un nuovo contesto internazionale: l’Italia aggrediva uno stato membro della SDN e si avvicinava alla Germania
3) verso la fine degli anni Trenta, la nazione lascia posto al sogno di una futura palingenesi rappresentata dall’impero: si approfitta della Seconda guerra mondiale, che si credeva rapida e indolore: guerra all’Albania, alla Grecia e al Regno di Jugoslavia
4) fallimento del progetto di creazione di un’egemonia mediterranea: gli inglesi occuparono l’AOI nella primavera del 1941 e navi bianche di donne, bambini e anziani italiani iniziarono a traghettare verso l’Italia; la Cirenaica fu definitivamente posta sotto controllo britannico all’inizio del 1943, ma non si ebbero rimpatri di massa.
LE CELEBRAZIONI CIVILI
Le festività civili istituite dal governo Mussolini (strumenti attraverso cui gli Stati affermano i propri riferimenti valoriali e diffondono ai cittadini il modello di comunità proposto) si caricano sempre di più di riferimenti coloniali
a) 21 aprile: il Natale di Roma sostituisce il 1 maggio, festa dei lavoratori
b) 24 maggio: celebrazione dell’entrata dell’Italia nella 1GM, diventerà la Giornata coloniale, per ricordare le virtù belliche di un popolo destinato all’affermazione internazionale
c) 9 maggio: Giornata dell’Impero
CULTO DELLA ROMANITA’
Il popolo italiano aveva una naturale «tendenza all’impero» perché era erede dei fasti dell’antica civiltà romana, e doveva recuperare quindi (le spettava di diritto) i territori del Mare Nostrum –> inaugurazione nel 1932 di Via dei Fori Imperiali per collegare il Vittoriano con il Colosseo
SQUADRISMO E REPRESSIONE: UNA VIA ITALIANA ALLA VIOLENZA.
OBIETTIVO DELL’AUTORE
Matteo Millan ha voluto mostrare come l’esercizio della violenza abbia sempre fatto parte del fascismo come un fenomeno strutturale, organico e generativo del suo modo di posizionarsi all’interno dell’arena politica.
Una «via italiana» perché spesso la violenza fascista è stata sottovalutata, per una tendenza a ridurre «ad hitlerium» la violenza, con la conseguenza di deresponsabilizzare il fascismo
Ne ha indagato:
- ORIGINI
- TRASFORMAZIONI NELLE PRATICHE, NELLE ISTITUZIONI e nella DISTRIBUZIONE DELLA VIOLENZA
- CARATTERISTICHE PECULIARI/FORME DELLA VIOLENZA
LE ORIGINI DELLA VIOLENZA SQUADRISTA
1) dinamiche di lungo periodo: lotte sociali della fine dell’Ottocento che sconvolgono la Pianura Padana, sintomo anche dell’incapacità dello Stato di farsi mediatore
2) stravolgimenti politici del primo dopoguerra: l’assuefazione alla violenza ha creato una brutalizzazione della politica (G. Mosse), un permanere di istinti bellici anche in tempo di pace
TRASFORMAZIONI DELLA VIOLENZA FASCISTA
1) lo squadrismo carica le lotte sociali e civili di una dirompenza tutta nuova, facendo della violenza un potente ascensore sociale per uomini altrimenti destinati all’anonimato, diffondendosi all’inizio in maniera irregolare (prima nell’area del confine orientale, ad esempio a Trieste, dove vengono devastati alcuni centri di cultura slovena come l’Hotel Balkan e la sede di un periodico socialista e di uno sloveno, quindi identificando nemico interno con nemico esterno), poi in Emilia-Romagna e in Toscana, dove c’è una tradizione radicata di conflittualità sociale originata dai processi di democratizzazione politica e sociale e dall’allargamento della partecipazione popolare da fine Ottocento: contro leghe e associazioni lavorative, contro amministrazioni comunali socialiste)
2) La marcia su Roma rappresenta uno spartiacque: la violenza fascista rimane non come strano residuo, ma come progetto razionale, come controrivoluzione, strumento di disciplinamento interno, violenza statalizzata
3) alla metà degli anni Trenta la violenza diventa strategia di umiliazione e sterminio rivolta verso l’esterno (Guerra d’Etiopia, Guerra civile spagnola, Guerra civile italiana del 1943-45), quindi anche contro nemici intesi come alterità razziali non assimilabili al corpo nazionale.
Inoltre, è anche un progetto di ingegneria antropologica, basato sulla convinzione dell’efficacia della coercizione come strumento di creazione di omogeneità nazionale, che investe settori come la cultura, la società, l’economia. Vengono eliminate le impurità dal terreno sociale (ebrei, dissidenti rligiosi, vagabondi, alcolizzati, omosessuali)
LE FORME DELLA VIOLENZA
Accanto all’eliminazione fisica dell’avversario ci sono state pratiche di violenza a minore intensità, violenze parallele e non letali, che consentono di non utilizzare solamente l’approccio quantitativo per misurare il grado di brutalità del regime. Erano funzionali a redimere il nemico (percorso di espiazione), reintegrandolo nella comunità nazionale. Hanno un altissimo effetto perfomativo, una grande connotazione rituale e un valore simbolico elevatissimo
a) strumenti raccogliticci che rivelano il carattere paramilitare dello squadrismo, come il manganello (le cui bastonature hanno una funzione pedagogica perché non sono letali ma demoralizzano coloro che temono di poterne essere vittime), olio di ricino, con funzione pedagogica, simbolica e performativa = umiliazione
b) violenze che insistono sulla sottrazione di mascolinità operata ai danni del nemico (evirazioni, abusi sessuali)
IL FALLIMENTO MILITARE DEL REGIME: OBIETTIVO DELL’AUTRICE
Claudia Baldoli ha voluto evidenziare i nessi tra il fallimento militare del regime - perché l’Italia entrò in guerra e affrontò il secondo conflitto mondiale in maniera del tutto inadeguata dal punto di vista del potenziale bellico - e la storia dei bombardamenti in Italia, che riflette anche il fallimento generale del regime fascista, anticipato da una graduale crisi verticale del rapporto tra regime e popolazione, già evidente dall’autunno del 1942 e accelerata anche dalla circolazione della propaganda angloamericana
L’ESPERIENZA MILITARE ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE PER CLAUDIA BALDOLI
Viste le premesse, l’entrata in guerra dell’Italia era inevitabile: stretto legame tra politica interna e politica estera, campagne demografiche volte all’espansione coloniale, campagna ideologica contro gli imperi francese e britannico, costruzione dell’uomo nuovo (colono e cittadino-soldato obbediente allo stato fascista).
Era già in guerra in maniera ininterrotta dal 1935, sul fronte coloniale. Anche qui, il fascismo registrò un grave fallimento, perché terminò di esistere.
Nella storia dei bombardamenti aerei, gli italiani sono stati sia VITTIME che PERPETRATORI DI VIOLENZE (Etiopia e in Spagna).
a) L’Italia da un punto di vista legislativo era preparata ad affrontare eventuali attacchi aerei, ma le leggi promulgate (sulla mobilitazione civile, sulla protezione degli stabilimenti industriali, sulla creazione di istituzioni dedicate alla difesa e sulla creazione di rifugi antiaerei) non furono mai davvero attuate, anche per il mancato accentramento fascista, che spesso doveva scendere a continue mediazioni e negoziati con le realtà locali.
b) La realtà triste dei bombardamenti era ben visibile a occhio nudo anche dalla popolazione: le difese, soprattutto all’inizio della guerra, erano estremamente primitive, soprattutto per mancanza di fondi
Diversi erano i nodi problematici […] ed è chiaro come, davanti all’evidenza dei fatti, assieme all’apparato di difesa militare fallì anche la propaganda fascista, perché molti italiani - che avevano la realtà dei fatti sotto i loro occhi - non credevano sempre alle notizie di eroismo raccontate dai giornali, già nel 1941.
I giornali dovettero cambiare tiro dopo i bombardamenti degli alleati, perché oramai si colpivano anche obiettivi civili ed era impossibile nascondere le conseguenze delle incursioni.
Iniziò a funzionare, dall’autunno del 1942, la propaganda anglo-americana, diretta contro una popolazione che per decenni aveva assorbito una campagna ideologica antibritannica, per convincere gli italiani che non c’era nulla di disonorevole nell’abbandonare il conflitto, visto che la sconfitta era inevitabile. Le destinatarie erano soprattutto le donne.
Si ebbe un crollo nella fiducia nella propaganda del regime, nelle sue istituzioni, nel sistema degli allarmi, nella contraerea, e il culto del duce ebbe alcuni segnali di cedimento.
I BOMBARDAMENTI
Claudia Baldoli affronta il tema perché la storia dei bombardamenti riflette anche il fallimento generale del regime fascista, che spinse l’Italia ad entrare nel secondo conflitto mondiale in maniera del tutto inadeguata.
Nella storia dei bombardamenti aerei, gli italiani sono stati sia VITTIME che PERPETRATORI DI VIOLENZE (Etiopia e in Spagna).
a) L’Italia da un punto di vista legislativo era preparata ad affrontare eventuali attacchi aerei, ma le leggi promulgate non furono mai davvero attuate, anche per il mancato accentramento fascista, che spesso doveva scendere a continue mediazioni e negoziati con le realtà locali.
b) La realtà triste dei bombardamenti era ben visibile a occhio nudo anche dalla popolazione: le difese, soprattutto all’inizio della guerra, erano estremamente primitive, soprattutto per mancanza di fondi
Diversi erano i nodi problematici […] ed è chiaro come, davanti all’evidenza dei fatti, assieme all’apparato di difesa militare fallì anche la propaganda fascista, perché molti italiani - che avevano la realtà dei fatti sotto i loro occhi - non credevano sempre alle notizie di eroismo raccontate dai giornali, già nel 1941.
I giornali dovettero cambiare tiro dopo i bombardamenti degli alleati, perché oramai si colpivano anche obiettivi civili ed era impossibile nascondere le conseguenze delle incursioni.
Iniziò a funzionare, dall’autunno del 1942, la propaganda anglo-americana, diretta contro una popolazione che per decenni aveva assorbito una campagna ideologica antibritannica, per convincere gli italiani che non c’era nulla di disonorevole nell’abbandonare il conflitto, visto che la sconfitta era inevitabile. Le destinatarie erano soprattutto le donne.
Si ebbe un crollo nella fiducia nella propaganda del regime, nelle sue istituzioni, nel sistema degli allarmi, nella contraerea, e il culto del duce ebbe alcuni segnali di cedimento.
LA CITTADINANZA SOTTO IL FASCISMO: obiettivo dell’autrice
In questo saggio, Roberta Pergher ha voluto mostrare come, nonostante possa sembrare un ossimoro il binomio fascismo-cittadinanza, il regime si è interrogato molto sulla questione della cittadinanza, su che cosa significasse essere italiano e chi poteva legittimamente affermare di esserlo. Ripensare l’Italia significava anche chiedersi che cosa fosse la comunità nazionale in rapporto allo Stato
anche se non approvò mai una legislazione complessiva sulla cittadinanza, ma ovunque stabilirono una nuova relazione tra gli individui e lo Stato, riformulando i diritti e i doveri dei cittadini. Svuotarono la cittadinanza italiana di quel significato che la contraddistingueva dalla sudditanza con le leggi fascistissime: ad esempio, la cittadinanza fu mantenuta per gli ebrei come solo diritto di protezione, di dimora entro i confini dello Stato, mentre in contemporanea le leggi antisemite del 1938 rendevano la loro vita impossibile.
I fascisti si allontanarono da una concezione egualitaria e universalistica della cittadinanza legando la loro concezione del mondo all’idea di nazionalità, di razza, di religione
COS’E’ LA CITTADINANZA?
La cittadinanza è una lente analitica flessibile che aiuta a riflettere sui cambiamenti sociali, politici e culturali del XIX e del XX secolo, e a considerare la condizione dei migranti, degli apolidi al termine della 1GM e i processi di democratizzazione e partecipazione dei cittadini alle questioni di interesse pubblico. Non è più una semplice definizione giuridica, ma un concetto interdisciplinare che rappresenta un insieme di pratiche, non solo uno status legale.
Due furono le strette accezioni di cittadinanza sotto il fascismo.
inoltre, consente di esplorare il modo in cui sotto il fascismo lo Stato rivendicava per sé l’individuo, privandolo al contempo di potere politico e di diritti, svuotando di significato il concetto stesso di cittadinanza
LE DUE STRETTE ACCEZIONI DI CITTADINANZA SOTTO IL FASCISMO
- cittadinanza come indice di appartenenza in un mondo di confini ridisegnati
- energica incarnazione di un’attiva sovranità popolare
EVOLUZIONE DELLA CITTADINANZA
LEGGE SULLA CITTADINANZA DEL 1912:
1) ribadiva lo ius sanguinis come determinante principale della cittadinanza italiana: questa ossessione transterritoriale rendeva anche molti emigrati italiani all’estero cittadini italiani, creando delle tensioni con i paesi stranieri di immigrazione, come USA, che contendevano all’Italia i nati sul suolo americano discendenti da italiani, che reclamavano per la leva militare;
2) Le donne straniere potevano diventare italiane se sposavano un italiano (ius matrimonii), così come gli stranieri che vivevano in Italia da diversi anni (ius soli) o che avevano reso dei servizi particolari alla nazione
3) Veniva abolita la piccola cittadinanza, uno status limitato senza diritti politici o obblighi militari. Quindi si operava una saldatura tra cittadinanza e diritti politici, anche perché due settimane dopo entrò in vigore il provvedimento che rese il suffragio maschile quasi universale
PRESENTATI DUE DISEGNI LEGGE SOTTO IL FASCISMO IN TEMA DI CITTADINANZA, che mostrano come la forza fosse intesa come numero/bacino demografico, e andava quindi difesa (personalità delle nazioni).
Ma non furono approvati, forse a causa delle pressioni internazionali.
1) 1930, DECRETO-LEGGE DI ALFREDO ROCCO:
- ripristino della piccola cittadinanza per tutti gli abitanti del Dodecaneso, che però poteva diventare piena dopo 3 anni
- la cittadinanza italiana non poteva essere persa senza il consenso del governo. Inoltre, sarebbe stato più semplice riceverla per tutti coloro che avessero preso la residenza in Italia, oppure se un ex cittadino italiano fosse tornato in patria, oppure se una donna italiana, che l’aveva persa per via del matrimonio con uno straniero, fosse ritornata in Italia dopo la separazione o la morte del marito; ma se era il marito ad assumere una nazionalità diversa, la moglie non avrebbe perso la cittadinanza italiana.
2) 1933, DECRETO LEGGE molto simile: anche qui, ripristino della cittadinanza limitata che poteva diventare piena, perché chiunque - se avesse avuto lo spirito e la tempra di un italiano - aveva il diritto di diventare cittadino in forma piena, e anche qui, limitata la possibilità di perdere la cittadinanza: solo il Governo poteva prendere atto della rinuncia per rendere tutto ciò possibile (es: la donna doveva seguire la cittadinanza del marito (ius matrimonii), ma se questi avesse optato per una cittadinanza diversa, la moglie sarebbe rimasta italiana
I CONFINI DELLA CITTADINANZA SOTTO IL FASCISMO
I fascisti si allontanarono da una concezione egualitaria e universalistica della cittadinanza legando la loro concezione del mondo all’idea di nazionalità, di razza, di religione
- POPOLAZIONI NON ITALIANE CHE VIVEVANO AI CONFINI DELLO STATO-NAZIONE: ma che dovevano diventare cittadini italiani (non residenti compresi) dopo la riconfigurazione dei confini dopo la Prima guerra mondiale.
Ma se non avevano le credenziali necessarie (lingua e “sentimento”) avevano poche speranze di ottenere la cittadinanza. Qualora l’avessero ricevuta, non erano concessi loro i diritti spettanti alle minoranze, quindi non potevano parlare la propria lingua in pubblico o conservare le proprie associazioni e tradizioni culturali. Il regime proibì l’insegnamento pubblico in lingua non italiana nel 1923 e vietò associazioni ed eventi non italiani.
- Nel 1926 venne approvata una LEGGE CONTRO I NEMICI DELLA NAZIONE, minacciando la revoca della cittadinanza italiana in caso di indegnità politica, cattiva condotta, poca affidabilità, e contro GLI OPPOSITORI POLITICI ALL’ESTERO, rei di aver commesso un qualsiasi atto, non necessariamente reato, che danneggiasse gli interessi del paese
- LO STATUS GIURIDICO DEI LIBICI SUBI’ DELLE FLUTTUAZIONI, che portarono a delle categorie giuridiche designate formalmente come cittadinanza, ma prive di molti dei diritti e degli obblighi convenzionalmente associati a questo termine, e che nascondevano uno status di sudditanza de facto.
Si poteva esercitare un dominio sugli altri in un’era in cui l’impero e l’imposizione della sudditanza coloniale non apparivano più una modalità di governo legittima?
Diversi italiani si lamentavano del riconoscimento della cittadinanza italiana agli “indigeni” o agli abitanti delle province settentrionali che parlano tedesco. Tracciavano una distinzione tra la nazionalità in quanto attribuzione legale e la nazionalità come sentimento
LO STATO SOCIALE DEL FASCISMO: OBIETTIVO DELL’AUTRICE
In questo saggio, Ilaria Pavan si chiede se la “modernità del fascismo” sia un tratto che si attaglia anche all’esperienza del suo Stato sociale. Si è inserito nel panorama politico italiano con nuove iniziative o ha solamente cambiato il nome alle cose liberali senza che ne fosse toccata la sostanza? Chi ha beneficiato dello stato sociale fascista?
LO STATO SOCIALE FASCISTA
Lo Stato sociale fascista si mosse nel solco tracciato dai governi liberali, marginalizzando precisi segmenti della società, come il mondo delle campagne, che fu debolmente e tardivamente integrato nel sistema previdenziale.
I due principali istituti previdenziali (INFAIL e INFPS, istituiti già nel 1898 ma ribattezzati dal governo fascista nel 1933) e alcuni enti assistenziali nati a cavallo della guerra, come l’Opera nazionale combattenti, invalidi e orfani di guerra furono eredità del mondo liberale
L’iniziativa sociale fascista provocò anche numerose fratture, a volte confermando e approfondendo spaccature presenti già in epoca liberale, altre volte creandone di nuove: faglie territoriali (città–campagna), fratture di genere, fratture razziali, fratture fra settore pubblico e settore privato
FRATTURE TERRITORIALI DELLO STATO SOCIALE FASCISTA
Quella fra campagna e città
Il povero universo contadino delle campagne fu punito dall’aggiornamento delle norme sociali operato dal regime poco dopo il suo arrivo al governo; a beneficiare dell’azione del nuovo esecutivo furono i proprietari terrieri che si mostravano riottosi a ogni tipo di ingerenza previdenziale a favore delle classi lavoratrici agricole
A)
* innalzato il grado di invalidità necessario per ottenere il risarcimento in caso di infortunio sul lavoro per i lavoratori delle campagne
* parte dei contributi era ora messa a carico anche di mezzadri e coloni
* cancellato l’obbligo assicurativo (per pensioni di invalidità e vecchiaia) per fittavoli, mezzadri e coloni
* mutilata l’ultima riforma sociale del 1919 che estendeva l’indennità di disoccupazione anche ai lavoratori delle campagne: anzi, i proprietari terrieri potevano sospendere il pagamento dei contributi per la copertura del sussidio di disoccupazione
B)
I provvedimenti presi con la Carta del lavoro del 1927 non si estesero alle campagne
1) si precisava che la previdenza sociale fascista si poneva l’obiettivo dell’introduzione dell’assicurazione delle malattie professionali e della tubercolosi come premessa all’ASSICURAZIONE OBBLIGATORIA CONTRO TUTTE LE MALATTIE, fino ad ora assente, e che rimase lettera morta
(non fu mai introdotta, anche se si discusse fin dentro al Consiglio superiore dell’Economia nazionale, che però non riuscì a trovare una soluzione che mettesse tutti d’accordo. Mussolini era tra i favorevoli)
2) iniziò a nascere il MUTUALISMO SINDACALE SANITARIO, quando nei futuri contratti di lavoro si sarebbe stabilita la costituzione di casse mutue per malattia col contributo dei datori di lavoro e dei lavoratori: il sindacato fu chiamato a intervenire anche in merito alla salute dei lavoratori. In realtà il sindacato fascista non agì mai come ente coordinatore, perché di casse mutua malattia ne sorsero a bizzeffe, in maniera autonoa e semianarchica e molti erano gli aspetti che le differenziavano le une dalle altre (entità dei contributi versati da datori e lavoratori, valore e durata di sussidi giornalieri in caso di malattia, natura delle prestazioni sanitarie erogate).
Molte funzioni furono delegate al sindacato anche con la nascita nel 1925 del PATRONATO NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SOCIALE, organo di mediazione che coinvolgeva i lavoratori, le loro famiglie, i datori, gli istituti previdenziali, il partito e il sindacato: forniva un aiuto medico–legale ai lavoratori che vi si rivolgevano ogni qualvolta sorgevano controversie nelle prestazioni previdenziali, aiutando ad ottenere o meno sussidi di disoccupazione, indennità per infortunio, assegni di maternità, visite mediche, pensioni di invalidità.
C)
Anche le Società di mutuo soccorso - che continuarono a operare durante il fascismo - e le casse mutua malattia aziendali erano diffuse soprattutto al nord e nel settore industriale; ma c’erano anche mutua malattia aziendali indipendenti regolate solo da accordi interni alla fabbrica (avevano i propri medici, ambulatori dentro la struttura = permanere di poteri privati).
Solo con il CONTRATTO COLLETTIVO del settembre 1936 dalle organizzazioni padronali e dai sindacati dell’agricoltura fu decisa la costituzione in ogni provincia di casse mutua malattia per i salariati del settore, che nel 1937 si estese a coloni e mezzadri, lasciando esclusi i proprietari coltivatori diretti
FRATTURE DI GENERE DELLO STATO SOCIALE FASCISTA
Che lasciarono la donna lavoratrice in balìa di un rapporto ambivalente tra elementi di tradizione e di modernità: furono misure contraddistinte dall’alternarsi di iniziative di tutela e altre volte a espellere la donna dal mondo del lavoro, un mondo in cui il suo lavoro era valutato solamente come pari al 60% di quello maschile (coefficiente Serperi): erano meno produttive e dovevano tornare a fare le “operaie della specie”.
A beneficiare delle politiche sociali fasciste furono le donne urbane, ma solamente il 12% dei contributi riscossi fu restituito alle lavoratrici come indennità di maternità, il resto fu usato in maniera impropria (dove erano andati a finire i contributi versati dalle donne?)
- Per le industriali rimase attiva la Cassa maternità (presente sin dal 1910) e l’indennità di parto (per le 6 settimane in cui si allontanava dal lavoro e perdeva il salario), sebbene il costo della vita fosse aumentato del 20%
- Una RIFORMA DEL 1929 stabilì che le lavoratrici avrebbero mantenuto il loro posto di lavoro in caso di gravidanza; la sospensione dal lavoro fu aumentata di 2 settimane (da 6 a 8); fu estesa l’indennità di parto anche alle impiegate del commercio che aumentò di 50 lire (da 100 a 150, comprensivo dell’indennità giornaliera di disoccupazione) solo per coloro che avessero versato almeno due anni di contributi, quindi le lavoratrici giovani o con un percorso precario erano penalizzate
–> L’indennità di parto o aborto fu estera all’universo contadino delle braccianti, delle mezzadre e delle colone solamente nel 1936, pur valendo 1/3 di quello che era invece destinato alle colleghe dell’industria e del commercio. Non avevano però ancora alcun supporto igienico-sanitario che nelle grandi città era organizzato attraverso i consultori, ad esempio dell’ONMI, che però si concentravano solo nelle realtà urbane settentrionali.
Non avevano diritto a un periodo di sospensione dal lavoro come le donne urbane. Ma ci fu un’altra categoria esclusa, quella delle lavoratrici domestiche
Molte annacquature erano presenti dietro le NORME DEL 1934, difatti incomplete
- TUTELA DEL LAVORO DELLE DONNE IN GENERALE: divieto per donne e minori di compiere una serie di lavori pericolosi. Solamente due anni dopo furono specificate quali fossero tali mansioni, prevedendo peraltro lunghe serie di deroghe secondo le quali, in “particolari condizioni” queste attività continuavano a essere permesse, facendo della salute delle donne la principale vittima di un tasso di faticosità molto elevato
- TUTELA ALLE LAVORATRICI MADRI: la sospensione dal lavoro fu portata a 10 settimane, l’indennità portata a 300 lire, ma fu poi eliminata l’integrazione legata all’indennità di disoccupazione precedentemente conteggiata, quindi l’aumento effettivo fu di sole 45 lire.
Inoltre, il sussidio non veniva concesso in caso di aborto spontaneo se questo avveniva nei primi tre mesi di gravidanza, quando era provato che erano proprio quelle le settimane in cui erano più frequenti.
FRATTURE RAZZIALI (“LA LINEA DEL COLORE”) DELLO STATO SOCIALE FASCISTA
Molti temi furono declinati in chiave apertamente razziale dalla propaganda, e lemmi come “razza” e “stirpe” emersero precocemente nell’ambito della produzione riguardante previdenza, assistenza, sanità e medicina del lavoro.
La mancata estensione delle misure previdenziali ai lavoratori nativi rappresentò una premessa alla svolta razzista che il regime adottò partendo proprio alle colonie.
Il fascismo proseguì secondo coordinate che solo parzialmente si allontanarono da quanto intrapreso dai predecessori.
1) Mantenuta una GERARCHIA tra COLONIE DI PRIMO E DI SECONDO LIVELLO, con la Libia in una posizione di relativo riguardo sin dall’epoca liberale
- Giolitti aveva fatto estendere l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni ai lavoratori musulmani ed ebrei di Cirenaica e Tripolitania
- Essendo la manodopera libica la maggioranza all’avvio dei lavori pubblici e infrastrutturali, alla fine degli anni Venti fu estesa agli operai indigeni la legislazione vigente per i cittadini italiani e nel 1937 anche quella a protezione del lavoro di donne e fanciulli riformata nel 1934. Anzi, addirittura la gestione del lavoro notturno doveva rispettare le loro festività religiose e il loro statuto personale.
2) Ma quando molti italiani iniziarono a migrare in colonia il processo riprese vigore, per incoraggiare i protagonisti della colonizzazione demografica: come potevano servire all’obiettivo fascista se non vedevano il loro lavoro tutelato qui come in patria?
- quando fu estesa alle colonie la legislazione sociale già esistente in patria (disoccupazione involontaria, pensioni, mutualità sanitaria) fu sempre precisato che i beneficiari erano i soli cittadini italiani metropolitani: la tutela della popolazione indigena non poteva intaccare la superiorità della razza bianca.
Nell’VIII Congresso Volta a Roma che ebbe come tema l’Africa si ribadì che gli interventi sociali per i nativi sarebbero stati limitati alle sole iniziative di natura assistenziale-sanitaria, perché tra le forme di politica sociale quella previdenziale era quella più elevata e presupponeva un intervento dello Stato in collaborazione con le stesse classi cui era dedicata
3) Anche le politiche sociali furono oggetto della legislazione antiebraica
- minimo di pensione dopo il licenziamento garantita solamente a chi avesse svolto almeno dieci anni di servizio
COSA FU L’ANTIFASCISMO ITALIANO?
- Non fu mai un fenomeno unitario, ma fu composto da una costellazione di culture e pratiche di diverse forze politiche italiane, da esperienze di emigrazioni e di cospirazioni all’interno di contesti internazionalI.
Pratiche di rinnovamento emergevano anche all’interno delle pieghe della società italiana non politicizzate, come gli ambienti universitari, che non erano dichiaratamente antifascisti (Bruno Zevi, Pietro Ingrao, Eugenio Curiel)
L’antifascismo politico era invece uno spettro di atteggiamenti che andava dalla rassegnazione passiva all’accettazione disciplinata, dalla collaborazione attiva alla partecipazione entusiasta, dall’opposizione silente a quella militante. Nelle campagne affioravano forme di indifferenza - Era un insieme di esperienze che cercava di dare risposte ai problemi già posti dalla cultura antigiolittiana: la volontà di selezionare e ricambiare la classe dirigente, la disponibilità a definire un nuovo senso dell’impegno intellettuale.
- Sebbene la storia dell’antifascismo sia stata congelata all’interno di identità nazionali ricostruite dopo il 1945, come foro di una grande narrazione nazionale, di recente si è applicata all’antifascismo una prospettiva transnazionale, attenta alla circolazione di culture e pratiche attraverso i confini
- Ha conteso al fascismo l’appropriazione dell’identità nazionale, ha proposto le proprie idee di nazione e ha ambito a strappare al fascismo il monopolio della narrazione risorgimentale, muovendosi all’interno di discorsi nazional–patriottici ed esprimendosi pubblicamente come se si rappresentasse la voce del popolo, come fece Togliatti nel 1936.
Nel 1935 sorse un nuovo dibattito: si può recuperare il Risorgimento in chiave antifascista?
EVOLUZIONI DELL’ANTIFASCISMO ITALIANO
1) Bisogna proiettare la storia dell’antifascismo anche sulla lunga diacronia che trascende la storia stessa del fascismo, radicandola nell’ITALIA GIOLITTIANA, epoca in cui si sentì l’esigenza (antigiolittiana) di rinnovare moralmente e intellettualmente la classe dirigente nazionale, da una riflessione critica sui limiti del processo di costruzione nazionale
2) la stessa SINISTRA che avrebbe potuto frenare l’ascesa di Mussolini ERA LACERATA, e queste divisioni provocarono dello sconcerto tra le organizzazioni operaie e contadine, che si trovarono a fronteggiare con mezzi improvvisati e scarsi le violente offensive squadriste.
Il fatto è che il fascismo fu un movimento a lungo incompreso e frainteso dalla classe dirigente liberale e fino all’estate del 1920 non fu percepito come un problema e un progetto politico autonomo, che mirava alla conquista del potere attraverso la violenza e la mobilitazione antisocialista. Spesso si aveva un atteggiamento di rassegnata condiscendenza: quando Pio XI invitò nel 1931 i professori universitari ad aderire al giuramento “con riserva interiore”.
- PARTITO SOCIALISTA: ulteriormente diviso al suo interno in un’ana riformista e una maggioranza massimalista guidata da Giacinto Serrati, che alimenò una serie di rivolte e di agitazioni sociali, intendendo seguire l’esempio russo.
Vedevano nel fascismo una guardia bianca assoldata da imprenditori e agrari, come se si fosse ripetuto il consueto copione della lotta di classe. - PARTITO COMUNISTA: nacque a Livorno nel gennaio 1921, da una scissione all’interno del partito socialista.
Cercava un modello centralizzato, autoritario e settario simile a quello del partito bolscevico. Erano più giovani, dogmatici e violenti dei socialisti. Per loro, il fascismo era un “dominio borghese”.
Ma Bordiga, primo segretario, e Terracini, con le Tesi di Roma rifiutarono il dibattito con il fronte socialista e la costituzione di un fronte unico davanti alla relativa stabilizzazione capitalista, progetto invece ratificato dal Comintern.
Anche per Gramsci e Togliatti, che assursero a figure chiave dopo l’emarginazione di Bordiga, il fascismo mirava a creare un’organizzazione politica per la borghesia, in antitesi al fronte bolscevico
3) Solo dal 1923/1924 (e soprattutto dopo l’omicidio Matteotti) cominciò a coagularsi una forma di antifascismo che contendeva al fascismo la pretesa di monopolio nella rappresentanza della nazione
- ITALIA LIBERA, 1924
- UNIONE NAZIONALE, di Giovanni Amendola, 1924
- La stessa secessione dell’Aventino unì molte forze politiche (PPI, partito repubblicano, il PSI, il Partito sardo d’Azione e la Democrazia sociale, ma non il PCI)
- MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI di B. Croce, in risposta all’analogo manifesto di Gentile: polemizzava contro un partito che negava il carattere di italiani agli altri partiti ed evocava l’ombra di un conflitto civile e delineò un tema caldo su cui si sarebbero arrovellati fascisti e antifascisti: il senso stesso di “Risorgimento”
- PARRI
- CARLO ROSSELLI dichiarò che il fascismo avrebbe lasciato profondi solchi nella vita italiana e costituì (a Parigi) il gruppo Giustizia e Libertà, una piattaforma antifascista rivoluzionaria che puntava all’avvento di una Repubblica democratica.
Vedeva nel fascismo un condensato di elementi caratteristici del carattere degli italiani (conformismo, cattolicesimo, unanimismo) e vedeva nella violenza e in una provvisoria dittatura uno strumento utile per sopperire al passaggio traumatico tra fascismo e nuova democrazia (protesta clamorosa, del terrorismo dimostrativo, della propaganda armata, del tirannicidio, dell’azione eroica futurista)
- La linea d’azione del Partito comunista d’Italia era più dettata dagli imperativi del Comintern, che sancì la strategia di bolscevizzazione, burocratizzazione e centralizzazione dei partiti comunisti. Si articolava in un centro interno e in un centro estero (prima a Basilea e poi a Parigi), ma le attività clandestine del primo furono arrestate dalle operazioni della polizia fascista
4) Dal 1926 la Francia divenne un luogo di emigrazione e riorganizzazione degli oppositori antifascisti e di esiliati, che spesso avevano l’illusione che il regime fascista fosse effimero e destinato a un rapido crollo. Gli esuli politici furono denigrati come “traditori della patria fascista” e ai fuoriusciti fu negata la cittadinanza
- qui si rifugiò Togliatti,
- venne costituita la Lega italiana dei diritti dell’uomo (1922),
- costituita nel 1927 la Concentrazione d’azione antifascista per una “rivoluzione italiana” da socialisti, repubblicani e democratici (per trasformare in alleanza stabile la collaborazione tra forze antifasciste)
- a Parigi esponente di spicco fu Pietro Nenni, che si batteva per superare la dicotomia tra riformismo e massimalismo e conciliare classismo e democrazia. Massimalismo e riformismo furono poi riunificati nel PSI del 1930 guidato da Nenni e Saragat
- a Parigi fu fondata Giustizia e Libertà nel 1929 da Carlo Rosselli
5) Con l’ASCESA DI HITLER l’antifascismo si convertì da insieme di esperienze nazionali a orizzonte di lotte europee: furono subito evidenti gli errori di una strategia comunista che individuava il nemico principale nel social–fascismo. Non era più sufficiente la strategia del “classe contro classe” e la soluzione doveva essere inquadrata in una prospettiva europea. Togliatti stesso disse che si era sottovalutata l’influenza sulle masse esercitata dal fascismo, che non era una semplice guardia della borghesia. Il comunismo aveva troppo atteso.
- LA STRATEGIA DEL FRONTE POPOLARE di STALIN: intendeva contrastare l’espansione del fascismo inserendo la propria strategia all’interno dell’orizzonte della guerra contro le “potenze capitaliste”, quindi democrazia borghese e fascismo coincidevano ancora (ma in questo modo era impossibile distinguere Italia e Germania dagli altri Stati)
- PATTO TRA COMUNISTI E SOCIALISTI siglato nel 1934 grazie a Luigi Longo e Pietro Nenni: era comunque un grande ritardo nell’affrontare la questione del fascismo
- In occasione del VII CONGRESSO DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA si iniziò a distinguere diverse forme statuali e regimi politici, senza semplificare più la complessità delle formazioni politiche dentro il gruppo capitalista da combattere in maniera indifferenziata e si aprì alla possibilità di accordi politici tra comunisti, socialisti, radicali e democratici in chiave antifascista, mentre prima, nel VI Congresso dell’Internazionale Comunista la formula settaria consacrata era il socialfasicsmo.
- In occasione della GUERRA CIVILE SPAGNOLA ci fu un primo contatto militare fra fascismo e antifascismo su scala transnazionale europea. È nella penisola iberica che l’antifascismo trovò il suo campo di sperimentazione della lotta armata.
Qui c’erano forme di volontariato internazionale, c’erano le Brigate internazionali organizzate dal Comintern (antifascismo = fare gli interessi dello Stato sovietico, presunto paladino della pace internazionale, proprio nel momento in cui in Russia dominava il terrore di Stalin), c’erano narrazioni radicali che invitavano a convertire la guerra civile in guerra sociale europea (Rosselli)
anche se c’erano altre spinte, come quelle dello storico Elie Halévy, che invitava a notare le contraddizioni di un socialismo lacerato tra spinta organizzatrice e autoritaria e pulsione liberatrice e democratica, invitando a considerare il fascismo all’interno delle varie correnti socialiste
ECONOMIA E FASCISMO: LE PUBBLICAZIONI SU “LO STATO MUSSOLINIANO E LE REALIZZAZIONI DEL FASCISMO NELLA NAZIONE”
Il fascismo fu molto attento a veicolare un’immagine positiva delle sue realizzazioni, tacendo spesso invece su ciò che non funzionava.
Ne “Lo Stato mussoliniano e le realizzazioni del fascismo nella nazione” veniva data voce a molti esponenti del governo e delle istituzioni, così come a molti rappresentanti dell’imprenditoria privata, che descrivevano il rapporto delle loro imprese con il fascismo in termini estremamente positivi
- unità d’intenti del fascismo
- obiettivi della diplomazia finanziaria internazionale
- successi dello sviluppo interno che avrebbero portato il fascismo verso la modernità industriale
(aveva placato la riottosità dei lavoratori, liberato l’attività economica, arrestando l’invadenza delle leggi e degli enti pubblici (ad esempio, aveva abolito il monopolio dell’INA sulle assicurazioni a vita, liberalizzando il settore assicurativo), avviato dei lavori pubblici, trasformato l’economia dello stato e progettando una terza via, quella del corporativismo, liquidato l’ordinamento liberale). Si evinceva quindi un rapporto di compenetrazione tra imprese e Stato, tra economia e politica, che più in avanti acquisì una forma ancora più coerente.
- alcuni punti programmatici del piano fascista: politica protezionistica, diminuzione delle importazioni, difesa delle esportazioni, aumento della produttività, difesa delle riserve nazionali, assorbimento del sindacalismo nello Stato (Patto Vidoni)
IL FASCISMO DAVANTI ALLA CRISI ECONOMICA
Sembravano non spaventare i venti di crisi che alcuni fiutavano: il fascismo li avrebbe arrestati
- CRISI DELL’AGRICOLTURA? risolta con l’aumento della produttività e con l’amministrazione centralizzata del settore primario: il fascismo attuò un intensivo controllo statale sull’agricoltura
- CRISI ECONOMICA? era solo il segnale del fallimento del capitalismo liberale, che avrebbe inaugurato una fase di delicato trapasso verso una nuova epoca di civiltà, in cui il fascismo avrebbe presentato la rivoluzionaria ricetta dell’esperimento corporativo.
Il regime aveva nobili intenti: si presentava come moderno e modernizzatore, in grado di portare l’Italia all’altezza dei paesi industriali più avanzati, continuando però a rifugiarsi nell’ode alla vita semplice.
Alcuni studiosi hanno preferito però parlare di “dittatura sviluppista”, che mobilità masse e risorse nella transizione alla società di massa e all’economia industriale, e di “modernità politica”, nella sua capacità di interpretare e controllare la novità novecentesca della società di massa, rivolgendosi a questa con i nuovi mezzi di comunicazione.
Nel suo programma emersero le annacquature: irrigidite le divisioni tra classi e tra generi, frenato il lavoro femminile, compressione salariale, invito a fare affidamento su manodopera a basso costo, squilibrio tra mondo urbano e rurale, cristallizzata la questione meridionale
Nonostante la retorica nazionalista e la politica del bastare a se stessi, il fascismo ebbe una posizione ambivalente davanti alla crisi.
Si lanciò in una campagna per limitare la dipendenza dalle importazioni in determinati settori, ma rimase ferma nella linea di liberalizzazione davanti alla crisi almeno fino al 1934, quando prese corpo la svolta protezionistica, che portò a intensificare gli strumenti tradizionali del nazionalismo economico: spesso nei suoi discorsi Mussolini richiamava la dimensione internazionale; presenti rimanevano le imprese multinazionali
RAPPORTO DEL FASCISMO CON GLI INDUSTRIALI
1) dopo la Prima guerra mondiale si completò la formazione dei settori caratterizzanti la seconda rivoluzione industriale (elettrico, chimico, meccanico, siderurgico, automobilistico e aeronautico); crebbe la figura del tecnico con funzioni manageriali (speo era un capitalista proprietario, come Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta); si diffuse la meccanicizzazione e la tendenza alla specializzazioni per fasi nelle industrie, l’organizzazione scientifica del lavoro (l’Italia introdusse il sistema Bedaux), e crebbe il confronto tra interessi organizzati attraverso la nascita di associazioni degli imprenditori che premevano sul settore politico, come Confindustria e Confagricoltura, ma questa dinamica corporativa non contribuì alla stabilizzazione: il fascismo quindi si presentò come colui che avrebbe potuto correggere i rapporti che agrari e industriali percepivano come troppo favorevoli ai lavoratori con il patto di Palazzo Vidoni
2) L’intreccio indistricabile tra impresa, imprenditori e regime richiede di scartare l’immagine di politica assoluta che il fascismo dava di sé. Non fu mai un fenomeno integralmente politico, né gli industriali furono solo dei fiancheggiatori fascistizzati: la dialettica tra sovversivismo e difesa dell’ordine fu sostenuta in collaborazione con i ceti dirigenti economici –> gli agrari si rivolsero alle squadre fasciste contro il socialismo riformista; gli antifascisti della prima ora, sia socialisti che comunisti, già vedevano nel fascismo un orientamento politico della borghesia, la guardia bianca assoldata dalla borghesia. Per le riforme economiche non si rivolse tanto al PNF, quanto a tecnici (=burocrazia parallela) come Serpieri per le bonifiche e Beneduce per l’IRI
- si presentava come amico della borghesia produttrice, con l’obiettivo di rinsaldare la solidarietà tra datori di lavoro e lavoratori correggendo i rapporti che secondo i primi erano troppo favorevoli ai secondi ponendosi come mediatore con il Patto di Palazzo Vidoni
- dava agli industriali mano libera nel governo della forza lavoro: consentiva alle imprese di organizzare anche la vita pubblica e sociale del regime attraverso il Dopolavoro
- i sindaci e i podestà erano spesso parte di élite imprenditoriali, ma anche i ministri (Volpi fu nominato ministro ma proveniva dal settore elettrico)
- la dialettica tra economia e politica deve essere valutata anche alla luce del ruolo dell’elettrico, che fu caratterizzato fin dai suoi esordi dall’alleanza tra banca e industria, dalla nomina di personalità provenienti dal settore a ministri (come accadde con Volpi), ma molti seguirono anche un percorso inverso, passando dall’amm. pubblica all’impresa (Beneduce).
Il ventennio vide incrementi dell’energia elettrica e la diffusione di elettrodomestici, che minacciavano i modelli di vita domestica proposti dal regime, basati su una rigida divisione di genere e bassi consumi
IL CORPORATIVISMO
Fu la terza via fascista, che si presentò come risposta autoritaria alla domanda di rappresentanza dei soggetti economici.
Fu il principale prodotto da esportazione del fascismo (argomento che va forte nella propaganda verso l’estero, tantoché Chabod scrisse che tutti gli intellettuali scrivono di corporativismo): in classe abbiamo detto che anche l’OIL aveva una forma di rappresentanza corporativa.
ORIGINI:
(Matteo Pasetti) E’ un concetto ostico che ha un’origine lontana nel tempo. Nell’Europa basso medioevale un’organizzazioe sociale che raggruppa i lavoratori di un settore dell’economia, che utilizzano la corporazione per trasmettere conoscenze professionali di generazione in generazione e per difendere i propri interessi, ad esempio monopolistici. Viene spazzato via dalla Rivoluzione francese e dalla Rivoluzione industriale, ma rimane in alcuni ambienti, come quello dell’Ottocento cattolico, per risolvere conflitti e conciliare gli interessi. L’ambiente cattolico vede nel corporativismo una forma di antistatalismo e di organizzazione pre-industriale, riconosciuta dall’enciclica di papa Leone XIII del 1893. Quindi il fascismo si appropria di idee già diffuse e le rinnova.
- Con il fascismo c’è un CORPORATIVISMO SOCIALE: le corporazioni sono nuove strutture create per 1) raccogliere lavoratori e datori di lavoro, in omaggio alla VISIONE ORGANICISTICA E COLLABORATIVA con cui il fascismo intendeva sostituire l’impostazione pluralista e conflittuale dello Stato liberale (porre fine ai conflitti di classe anche per evitare la rivoluzione socialista); 2) come organi dello Stato con funzioni di coordinamento, conciliazione ed organizzazione della produzione al cui interno erano inquadrati tutti i sindacati.
2) CORPORATIVISMO POLITICO: il fascismo intende creare un governo dell’economia, con un sistema istituzionale e rappresentativo alternativo al parlamentarismo liberale in crisi: l’economia entrava nello stato nel momento in cui si dava voce a interessi di categorie lavorative per orientare la politica economica dello Stato.
Ma in questo modo vengono abolite le elezioni plebiscitarie e gli individui non eleggono liberamente i propri rappresentanti.
Sul piano pratico per molto tempo fu considerata un bluff perché la sua attuazione fu molto lenta.
Con la legge sindacale del 3 aprile 1926, a completamento del patto di Palazzo Vidoni, veniva eiminato il pluralismo sindacale e ogni forma di sciopero. Per ogni categoria lavorativa sarebbe esistito un solo sindacato, fascista.
Nel 1930 viene creato il Consiglio nazionale delle corporazioni, ma solo nel 1934 le corporazioni vere e proprie, e nel 1939 viene creata la Camera corporativa a sostituire quella dei deputati.
Le corporazioni svolsero funzioni importanti: producevano norme e legislazione economica, permettevano mediazione e contrattazione, regolavano i rapporti orizzontali tra categorie, offrivano agli industriali un regime vincolistico da svolgere a proprio favore, agivano in quelle aree in cui il sindacato a la lega non avevano mai attecchito