PARTE POLITICO-ISTITUZIONALE Flashcards

1
Q

L’AFRICA E IL PROGETTO NAZIONALE FASCISTA: RIPENSARE LA NAZIONE ATTRAVERSO L’IMPERO.
OBIETTIVO DELL’AUTRICE

A

In questo saggio, l’autrice intende gettare luce sulla specificità dell’esperienza coloniale fascista.

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Q

LA SPECIFICITA’ DELL’ESPERIENZA COLONIALE FASCISTA

A

L’espansionismo italiano era già iniziato in età liberale per rilanciare il prestigio dell’Italia a livello internazionale (Eritrea, Somalia, Libia)

ma con il fascismo la politica coloniale si intersecò sempre di più con il progetto che Mussolini aveva per la nazione, la cui rigenerazione passava anche attraverso l’esperienza delle colonie prima e dell’impero poi

  • CELEBRAZIONI CIVILI: le festività civili istituite dal governo Mussolini (strumenti attraverso cui gli Stati affermano i propri riferimenti valoriali e diffondono ai cittadini il modello di comunità proposto) si caricano sempre di più di riferimenti coloniali
    a) 21 aprile: il Natale di Roma sostituisce il 1 maggio, festa dei lavoratori
    b) 24 maggio: celebrazione dell’entrata dell’Italia nella 1GM, diventerà la Giornata coloniale, per ricordare le virtù belliche di un popolo destinato all’affermazione internazionale
    c) 9 maggio: Giornata dell’Impero
  • CULTO DELLA ROMANITA’: il popolo italiano aveva una naturale «tendenza all’impero» perché era erede dei fasti dell’antica civiltà romana, e doveva recuperare quindi (le spettava di diritto) i territori del Mare Nostrum –> inaugurazione nel 1932 di Via dei Fori Imperiali per collegare il Vittoriano con il Colosseo
  • MUTATO ATTEGGIAMENTO VERSO L’EMIGRAZIONE: emigrati e coloni sono due modelli antropologici distinti. Entrambi hanno a che fare con uno spazio “altro”, ma uno dei due serve meglio la nazione: dietro la figura del colono non c’è solamente la bonifica materiale di terre, ma anche la trasformazione simbolica degli uomini e la creazione dell’uomo nuovo, antiborghese, guerriero, razzista, restauratore del virilismo italiano che si esplica nell’occupazione di una terra donna, vergine (l’Africa) e nello stupro delle donne africane.

Egli è un aiutante della nazione in quanto:
1) contribuisce ad alleggerire la pressione migratoria sulla penisola
2) abbraccia la vita rurale e si preocucpa della valorizzazione agraria del territorio
3) è chiamato a colonizzare demograficamente l’area, soprattutto dopo la sottrazione di territori ai residenti dopo il soffocamento della resisteza in Cirenaica del 1931

  • MOBILITATO UN INTERO APPARATO DI PROPAGANDA sia istituzionale che mediatica CON LA GUERRA DI ETIOPIA: MinCulPop, stampa, radio, cinema, scuola per educare anche chi rimaneva in patria a vedere nella colonia la realizzazione di un ideale nazionale e per rappresentare un’italianità immaginata utilizzando l’Etiopia come palcoscenico

La mobilitazione fu capillare e il coinvolgimento della popolazione dietto, come rivela il celebre dono delle fedi alla patria

poco importa, a fini speculativi, il fatto che non ci sia riuscito (il Corno d’Africa non fu mai pacificato, in Etiopia non venne creata un’economia integrata e oltretutto 5 anni di dominio sono pochi per la realizzazione di un piano ambizioso come quello della modifica profonda dell’economia, la colonizzazione demografica fallì perché la Libia non divenne mai una colonia di popolamento vera e propria): però c’erano, sin dagli anni Venti, l’intenzione, il disegno e il progetto, che influenzavano grandemente la mentalità degli italiani con le loro retoriche
C’erano delle progettualità ben precise (colonizzazione demografica, rendere colonie e madrepatria uno spazio unico senza però implicare l’uguaglianza delle popolazioni, ricollocare l’Italia in un nuovo contesto internazionale…) che si scontrarono, è vero, con la realtà dei fatti, ma ci furono comunque delle novità sul piano degli intenti

1) idea di una colonizzazione demografica intensiva da parte di una nazione proletaria rurale era una polemica contro le nazioni plutocratiche che occupavano i territori con i capitali, soprattutto nei territori che vennero espropriati ai residenti dopo la sconfitta della resistenza in Cirenaica del 1931. In realtà la Libia non divenne mai una colonia di popolamento, vi giunsero molti meno cittadini di quanto prospettato dalla propaganda
2) ruolo assegnato alle donne in colonia
3) il regime inizia a tracciare dei confini ben precisi tra gli individui metropolitani e gli indigeni: c’è la condivisione di uno spazio, ma non la commistione: Faccetta Nera (incommensurabile distanza tra donna nera e italianità), vietato il madamato, vietato di riconoscere figli avuti da relazioni interraziali, il territorio nazionale era uno spazio precluso ai colonizzati, impossibilità per le donne italiane sposate con un suddito africano di mantenere la cittadinanza italiana, istituita una cittadinanza speciale per i libici musulmani nel 1939

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3
Q

EVOLUZIONE DELL’ESPERIENZA COLONIALE FASCISTA

A

1) rafforzamento del controllo su Eritrea, Somalia, Tripolitania e Cirenaica reprimendo le forme di resistenza con maggiore sistematicità e ricorrendo alle armi: repressione della resistenza dei mujaheddin di Omar Al–Mukhtar e sospensione degli statuti libici

2) aggressione all’Etiopia anche utilizzando armi chimiche proibite dalla convenzione di Ginevra: fu uno spartiacque utile a ricollocare l’Italia in un nuovo contesto internazionale: l’Italia aggrediva uno stato membro della SDN e si avvicinava alla Germania

3) verso la fine degli anni Trenta, la nazione lascia posto al sogno di una futura palingenesi rappresentata dall’impero: si approfitta della Seconda guerra mondiale, che si credeva rapida e indolore: guerra all’Albania, alla Grecia e al Regno di Jugoslavia

4) fallimento del progetto di creazione di un’egemonia mediterranea: gli inglesi occuparono l’AOI nella primavera del 1941 e navi bianche di donne, bambini e anziani italiani iniziarono a traghettare verso l’Italia; la Cirenaica fu definitivamente posta sotto controllo britannico all’inizio del 1943, ma non si ebbero rimpatri di massa.

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4
Q

LE CELEBRAZIONI CIVILI

A

Le festività civili istituite dal governo Mussolini (strumenti attraverso cui gli Stati affermano i propri riferimenti valoriali e diffondono ai cittadini il modello di comunità proposto) si caricano sempre di più di riferimenti coloniali
a) 21 aprile: il Natale di Roma sostituisce il 1 maggio, festa dei lavoratori
b) 24 maggio: celebrazione dell’entrata dell’Italia nella 1GM, diventerà la Giornata coloniale, per ricordare le virtù belliche di un popolo destinato all’affermazione internazionale
c) 9 maggio: Giornata dell’Impero

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5
Q

CULTO DELLA ROMANITA’

A

Il popolo italiano aveva una naturale «tendenza all’impero» perché era erede dei fasti dell’antica civiltà romana, e doveva recuperare quindi (le spettava di diritto) i territori del Mare Nostrum –> inaugurazione nel 1932 di Via dei Fori Imperiali per collegare il Vittoriano con il Colosseo

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6
Q

SQUADRISMO E REPRESSIONE: UNA VIA ITALIANA ALLA VIOLENZA.
OBIETTIVO DELL’AUTORE

A

Matteo Millan ha voluto mostrare come l’esercizio della violenza abbia sempre fatto parte del fascismo come un fenomeno strutturale, organico e generativo del suo modo di posizionarsi all’interno dell’arena politica.

Una «via italiana» perché spesso la violenza fascista è stata sottovalutata, per una tendenza a ridurre «ad hitlerium» la violenza, con la conseguenza di deresponsabilizzare il fascismo
Ne ha indagato:
- ORIGINI
- TRASFORMAZIONI NELLE PRATICHE, NELLE ISTITUZIONI e nella DISTRIBUZIONE DELLA VIOLENZA
- CARATTERISTICHE PECULIARI/FORME DELLA VIOLENZA

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7
Q

LE ORIGINI DELLA VIOLENZA SQUADRISTA

A

1) dinamiche di lungo periodo: lotte sociali della fine dell’Ottocento che sconvolgono la Pianura Padana, sintomo anche dell’incapacità dello Stato di farsi mediatore

2) stravolgimenti politici del primo dopoguerra: l’assuefazione alla violenza ha creato una brutalizzazione della politica (G. Mosse), un permanere di istinti bellici anche in tempo di pace

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8
Q

TRASFORMAZIONI DELLA VIOLENZA FASCISTA

A

1) lo squadrismo carica le lotte sociali e civili di una dirompenza tutta nuova, facendo della violenza un potente ascensore sociale per uomini altrimenti destinati all’anonimato, diffondendosi all’inizio in maniera irregolare (prima nell’area del confine orientale, ad esempio a Trieste, dove vengono devastati alcuni centri di cultura slovena come l’Hotel Balkan e la sede di un periodico socialista e di uno sloveno, quindi identificando nemico interno con nemico esterno), poi in Emilia-Romagna e in Toscana, dove c’è una tradizione radicata di conflittualità sociale originata dai processi di democratizzazione politica e sociale e dall’allargamento della partecipazione popolare da fine Ottocento: contro leghe e associazioni lavorative, contro amministrazioni comunali socialiste)

2) La marcia su Roma rappresenta uno spartiacque: la violenza fascista rimane non come strano residuo, ma come progetto razionale, come controrivoluzione, strumento di disciplinamento interno, violenza statalizzata

3) alla metà degli anni Trenta la violenza diventa strategia di umiliazione e sterminio rivolta verso l’esterno (Guerra d’Etiopia, Guerra civile spagnola, Guerra civile italiana del 1943-45), quindi anche contro nemici intesi come alterità razziali non assimilabili al corpo nazionale.
Inoltre, è anche un progetto di ingegneria antropologica, basato sulla convinzione dell’efficacia della coercizione come strumento di creazione di omogeneità nazionale, che investe settori come la cultura, la società, l’economia. Vengono eliminate le impurità dal terreno sociale (ebrei, dissidenti rligiosi, vagabondi, alcolizzati, omosessuali)

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9
Q

LE FORME DELLA VIOLENZA

A

Accanto all’eliminazione fisica dell’avversario ci sono state pratiche di violenza a minore intensità, violenze parallele e non letali, che consentono di non utilizzare solamente l’approccio quantitativo per misurare il grado di brutalità del regime. Erano funzionali a redimere il nemico (percorso di espiazione), reintegrandolo nella comunità nazionale. Hanno un altissimo effetto perfomativo, una grande connotazione rituale e un valore simbolico elevatissimo

a) strumenti raccogliticci che rivelano il carattere paramilitare dello squadrismo, come il manganello (le cui bastonature hanno una funzione pedagogica perché non sono letali ma demoralizzano coloro che temono di poterne essere vittime), olio di ricino, con funzione pedagogica, simbolica e performativa = umiliazione
b) violenze che insistono sulla sottrazione di mascolinità operata ai danni del nemico (evirazioni, abusi sessuali)

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10
Q

IL FALLIMENTO MILITARE DEL REGIME: OBIETTIVO DELL’AUTRICE

A

Claudia Baldoli ha voluto evidenziare i nessi tra il fallimento militare del regime - perché l’Italia entrò in guerra e affrontò il secondo conflitto mondiale in maniera del tutto inadeguata dal punto di vista del potenziale bellico - e la storia dei bombardamenti in Italia, che riflette anche il fallimento generale del regime fascista, anticipato da una graduale crisi verticale del rapporto tra regime e popolazione, già evidente dall’autunno del 1942 e accelerata anche dalla circolazione della propaganda angloamericana

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11
Q

L’ESPERIENZA MILITARE ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE PER CLAUDIA BALDOLI

A

Viste le premesse, l’entrata in guerra dell’Italia era inevitabile: stretto legame tra politica interna e politica estera, campagne demografiche volte all’espansione coloniale, campagna ideologica contro gli imperi francese e britannico, costruzione dell’uomo nuovo (colono e cittadino-soldato obbediente allo stato fascista).
Era già in guerra in maniera ininterrotta dal 1935, sul fronte coloniale. Anche qui, il fascismo registrò un grave fallimento, perché terminò di esistere.

Nella storia dei bombardamenti aerei, gli italiani sono stati sia VITTIME che PERPETRATORI DI VIOLENZE (Etiopia e in Spagna).

a) L’Italia da un punto di vista legislativo era preparata ad affrontare eventuali attacchi aerei, ma le leggi promulgate (sulla mobilitazione civile, sulla protezione degli stabilimenti industriali, sulla creazione di istituzioni dedicate alla difesa e sulla creazione di rifugi antiaerei) non furono mai davvero attuate, anche per il mancato accentramento fascista, che spesso doveva scendere a continue mediazioni e negoziati con le realtà locali.

b) La realtà triste dei bombardamenti era ben visibile a occhio nudo anche dalla popolazione: le difese, soprattutto all’inizio della guerra, erano estremamente primitive, soprattutto per mancanza di fondi
Diversi erano i nodi problematici […] ed è chiaro come, davanti all’evidenza dei fatti, assieme all’apparato di difesa militare fallì anche la propaganda fascista, perché molti italiani - che avevano la realtà dei fatti sotto i loro occhi - non credevano sempre alle notizie di eroismo raccontate dai giornali, già nel 1941.
I giornali dovettero cambiare tiro dopo i bombardamenti degli alleati, perché oramai si colpivano anche obiettivi civili ed era impossibile nascondere le conseguenze delle incursioni.
Iniziò a funzionare, dall’autunno del 1942, la propaganda anglo-americana, diretta contro una popolazione che per decenni aveva assorbito una campagna ideologica antibritannica, per convincere gli italiani che non c’era nulla di disonorevole nell’abbandonare il conflitto, visto che la sconfitta era inevitabile. Le destinatarie erano soprattutto le donne.

Si ebbe un crollo nella fiducia nella propaganda del regime, nelle sue istituzioni, nel sistema degli allarmi, nella contraerea, e il culto del duce ebbe alcuni segnali di cedimento.

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12
Q

I BOMBARDAMENTI

A

Claudia Baldoli affronta il tema perché la storia dei bombardamenti riflette anche il fallimento generale del regime fascista, che spinse l’Italia ad entrare nel secondo conflitto mondiale in maniera del tutto inadeguata.

Nella storia dei bombardamenti aerei, gli italiani sono stati sia VITTIME che PERPETRATORI DI VIOLENZE (Etiopia e in Spagna).

a) L’Italia da un punto di vista legislativo era preparata ad affrontare eventuali attacchi aerei, ma le leggi promulgate non furono mai davvero attuate, anche per il mancato accentramento fascista, che spesso doveva scendere a continue mediazioni e negoziati con le realtà locali.

b) La realtà triste dei bombardamenti era ben visibile a occhio nudo anche dalla popolazione: le difese, soprattutto all’inizio della guerra, erano estremamente primitive, soprattutto per mancanza di fondi
Diversi erano i nodi problematici […] ed è chiaro come, davanti all’evidenza dei fatti, assieme all’apparato di difesa militare fallì anche la propaganda fascista, perché molti italiani - che avevano la realtà dei fatti sotto i loro occhi - non credevano sempre alle notizie di eroismo raccontate dai giornali, già nel 1941.
I giornali dovettero cambiare tiro dopo i bombardamenti degli alleati, perché oramai si colpivano anche obiettivi civili ed era impossibile nascondere le conseguenze delle incursioni.
Iniziò a funzionare, dall’autunno del 1942, la propaganda anglo-americana, diretta contro una popolazione che per decenni aveva assorbito una campagna ideologica antibritannica, per convincere gli italiani che non c’era nulla di disonorevole nell’abbandonare il conflitto, visto che la sconfitta era inevitabile. Le destinatarie erano soprattutto le donne.

Si ebbe un crollo nella fiducia nella propaganda del regime, nelle sue istituzioni, nel sistema degli allarmi, nella contraerea, e il culto del duce ebbe alcuni segnali di cedimento.

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13
Q

LA CITTADINANZA SOTTO IL FASCISMO: obiettivo dell’autrice

A

In questo saggio, Roberta Pergher ha voluto mostrare come, nonostante possa sembrare un ossimoro il binomio fascismo-cittadinanza, il regime si è interrogato molto sulla questione della cittadinanza, su che cosa significasse essere italiano e chi poteva legittimamente affermare di esserlo. Ripensare l’Italia significava anche chiedersi che cosa fosse la comunità nazionale in rapporto allo Stato

anche se non approvò mai una legislazione complessiva sulla cittadinanza, ma ovunque stabilirono una nuova relazione tra gli individui e lo Stato, riformulando i diritti e i doveri dei cittadini. Svuotarono la cittadinanza italiana di quel significato che la contraddistingueva dalla sudditanza con le leggi fascistissime: ad esempio, la cittadinanza fu mantenuta per gli ebrei come solo diritto di protezione, di dimora entro i confini dello Stato, mentre in contemporanea le leggi antisemite del 1938 rendevano la loro vita impossibile.
I fascisti si allontanarono da una concezione egualitaria e universalistica della cittadinanza legando la loro concezione del mondo all’idea di nazionalità, di razza, di religione

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14
Q

COS’E’ LA CITTADINANZA?

A

La cittadinanza è una lente analitica flessibile che aiuta a riflettere sui cambiamenti sociali, politici e culturali del XIX e del XX secolo, e a considerare la condizione dei migranti, degli apolidi al termine della 1GM e i processi di democratizzazione e partecipazione dei cittadini alle questioni di interesse pubblico. Non è più una semplice definizione giuridica, ma un concetto interdisciplinare che rappresenta un insieme di pratiche, non solo uno status legale.
Due furono le strette accezioni di cittadinanza sotto il fascismo.
inoltre, consente di esplorare il modo in cui sotto il fascismo lo Stato rivendicava per sé l’individuo, privandolo al contempo di potere politico e di diritti, svuotando di significato il concetto stesso di cittadinanza

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15
Q

LE DUE STRETTE ACCEZIONI DI CITTADINANZA SOTTO IL FASCISMO

A
  • cittadinanza come indice di appartenenza in un mondo di confini ridisegnati
  • energica incarnazione di un’attiva sovranità popolare
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16
Q

EVOLUZIONE DELLA CITTADINANZA

A

LEGGE SULLA CITTADINANZA DEL 1912:

1) ribadiva lo ius sanguinis come determinante principale della cittadinanza italiana: questa ossessione transterritoriale rendeva anche molti emigrati italiani all’estero cittadini italiani, creando delle tensioni con i paesi stranieri di immigrazione, come USA, che contendevano all’Italia i nati sul suolo americano discendenti da italiani, che reclamavano per la leva militare;

2) Le donne straniere potevano diventare italiane se sposavano un italiano (ius matrimonii), così come gli stranieri che vivevano in Italia da diversi anni (ius soli) o che avevano reso dei servizi particolari alla nazione

3) Veniva abolita la piccola cittadinanza, uno status limitato senza diritti politici o obblighi militari. Quindi si operava una saldatura tra cittadinanza e diritti politici, anche perché due settimane dopo entrò in vigore il provvedimento che rese il suffragio maschile quasi universale

PRESENTATI DUE DISEGNI LEGGE SOTTO IL FASCISMO IN TEMA DI CITTADINANZA, che mostrano come la forza fosse intesa come numero/bacino demografico, e andava quindi difesa (personalità delle nazioni).

Ma non furono approvati, forse a causa delle pressioni internazionali.

1) 1930, DECRETO-LEGGE DI ALFREDO ROCCO:

  • ripristino della piccola cittadinanza per tutti gli abitanti del Dodecaneso, che però poteva diventare piena dopo 3 anni
  • la cittadinanza italiana non poteva essere persa senza il consenso del governo. Inoltre, sarebbe stato più semplice riceverla per tutti coloro che avessero preso la residenza in Italia, oppure se un ex cittadino italiano fosse tornato in patria, oppure se una donna italiana, che l’aveva persa per via del matrimonio con uno straniero, fosse ritornata in Italia dopo la separazione o la morte del marito; ma se era il marito ad assumere una nazionalità diversa, la moglie non avrebbe perso la cittadinanza italiana.

2) 1933, DECRETO LEGGE molto simile: anche qui, ripristino della cittadinanza limitata che poteva diventare piena, perché chiunque - se avesse avuto lo spirito e la tempra di un italiano - aveva il diritto di diventare cittadino in forma piena, e anche qui, limitata la possibilità di perdere la cittadinanza: solo il Governo poteva prendere atto della rinuncia per rendere tutto ciò possibile (es: la donna doveva seguire la cittadinanza del marito (ius matrimonii), ma se questi avesse optato per una cittadinanza diversa, la moglie sarebbe rimasta italiana

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17
Q

I CONFINI DELLA CITTADINANZA SOTTO IL FASCISMO

A

I fascisti si allontanarono da una concezione egualitaria e universalistica della cittadinanza legando la loro concezione del mondo all’idea di nazionalità, di razza, di religione

  • POPOLAZIONI NON ITALIANE CHE VIVEVANO AI CONFINI DELLO STATO-NAZIONE: ma che dovevano diventare cittadini italiani (non residenti compresi) dopo la riconfigurazione dei confini dopo la Prima guerra mondiale.

Ma se non avevano le credenziali necessarie (lingua e “sentimento”) avevano poche speranze di ottenere la cittadinanza. Qualora l’avessero ricevuta, non erano concessi loro i diritti spettanti alle minoranze, quindi non potevano parlare la propria lingua in pubblico o conservare le proprie associazioni e tradizioni culturali. Il regime proibì l’insegnamento pubblico in lingua non italiana nel 1923 e vietò associazioni ed eventi non italiani.

  • Nel 1926 venne approvata una LEGGE CONTRO I NEMICI DELLA NAZIONE, minacciando la revoca della cittadinanza italiana in caso di indegnità politica, cattiva condotta, poca affidabilità, e contro GLI OPPOSITORI POLITICI ALL’ESTERO, rei di aver commesso un qualsiasi atto, non necessariamente reato, che danneggiasse gli interessi del paese
  • LO STATUS GIURIDICO DEI LIBICI SUBI’ DELLE FLUTTUAZIONI, che portarono a delle categorie giuridiche designate formalmente come cittadinanza, ma prive di molti dei diritti e degli obblighi convenzionalmente associati a questo termine, e che nascondevano uno status di sudditanza de facto.
    Si poteva esercitare un dominio sugli altri in un’era in cui l’impero e l’imposizione della sudditanza coloniale non apparivano più una modalità di governo legittima?

Diversi italiani si lamentavano del riconoscimento della cittadinanza italiana agli “indigeni” o agli abitanti delle province settentrionali che parlano tedesco. Tracciavano una distinzione tra la nazionalità in quanto attribuzione legale e la nazionalità come sentimento

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18
Q

LO STATO SOCIALE DEL FASCISMO: OBIETTIVO DELL’AUTRICE

A

In questo saggio, Ilaria Pavan si chiede se la “modernità del fascismo” sia un tratto che si attaglia anche all’esperienza del suo Stato sociale. Si è inserito nel panorama politico italiano con nuove iniziative o ha solamente cambiato il nome alle cose liberali senza che ne fosse toccata la sostanza? Chi ha beneficiato dello stato sociale fascista?

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19
Q

LO STATO SOCIALE FASCISTA

A

Lo Stato sociale fascista si mosse nel solco tracciato dai governi liberali, marginalizzando precisi segmenti della società, come il mondo delle campagne, che fu debolmente e tardivamente integrato nel sistema previdenziale.

I due principali istituti previdenziali (INFAIL e INFPS, istituiti già nel 1898 ma ribattezzati dal governo fascista nel 1933) e alcuni enti assistenziali nati a cavallo della guerra, come l’Opera nazionale combattenti, invalidi e orfani di guerra furono eredità del mondo liberale

L’iniziativa sociale fascista provocò anche numerose fratture, a volte confermando e approfondendo spaccature presenti già in epoca liberale, altre volte creandone di nuove: faglie territoriali (città–campagna), fratture di genere, fratture razziali, fratture fra settore pubblico e settore privato

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20
Q

FRATTURE TERRITORIALI DELLO STATO SOCIALE FASCISTA

A

Quella fra campagna e città

Il povero universo contadino delle campagne fu punito dall’aggiornamento delle norme sociali operato dal regime poco dopo il suo arrivo al governo; a beneficiare dell’azione del nuovo esecutivo furono i proprietari terrieri che si mostravano riottosi a ogni tipo di ingerenza previdenziale a favore delle classi lavoratrici agricole

A)
* innalzato il grado di invalidità necessario per ottenere il risarcimento in caso di infortunio sul lavoro per i lavoratori delle campagne
* parte dei contributi era ora messa a carico anche di mezzadri e coloni
* cancellato l’obbligo assicurativo (per pensioni di invalidità e vecchiaia) per fittavoli, mezzadri e coloni
* mutilata l’ultima riforma sociale del 1919 che estendeva l’indennità di disoccupazione anche ai lavoratori delle campagne: anzi, i proprietari terrieri potevano sospendere il pagamento dei contributi per la copertura del sussidio di disoccupazione

B)
I provvedimenti presi con la Carta del lavoro del 1927 non si estesero alle campagne

1) si precisava che la previdenza sociale fascista si poneva l’obiettivo dell’introduzione dell’assicurazione delle malattie professionali e della tubercolosi come premessa all’ASSICURAZIONE OBBLIGATORIA CONTRO TUTTE LE MALATTIE, fino ad ora assente, e che rimase lettera morta
(non fu mai introdotta, anche se si discusse fin dentro al Consiglio superiore dell’Economia nazionale, che però non riuscì a trovare una soluzione che mettesse tutti d’accordo. Mussolini era tra i favorevoli)

2) iniziò a nascere il MUTUALISMO SINDACALE SANITARIO, quando nei futuri contratti di lavoro si sarebbe stabilita la costituzione di casse mutue per malattia col contributo dei datori di lavoro e dei lavoratori: il sindacato fu chiamato a intervenire anche in merito alla salute dei lavoratori. In realtà il sindacato fascista non agì mai come ente coordinatore, perché di casse mutua malattia ne sorsero a bizzeffe, in maniera autonoa e semianarchica e molti erano gli aspetti che le differenziavano le une dalle altre (entità dei contributi versati da datori e lavoratori, valore e durata di sussidi giornalieri in caso di malattia, natura delle prestazioni sanitarie erogate).
Molte funzioni furono delegate al sindacato anche con la nascita nel 1925 del PATRONATO NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SOCIALE, organo di mediazione che coinvolgeva i lavoratori, le loro famiglie, i datori, gli istituti previdenziali, il partito e il sindacato: forniva un aiuto medico–legale ai lavoratori che vi si rivolgevano ogni qualvolta sorgevano controversie nelle prestazioni previdenziali, aiutando ad ottenere o meno sussidi di disoccupazione, indennità per infortunio, assegni di maternità, visite mediche, pensioni di invalidità.

C)
Anche le Società di mutuo soccorso - che continuarono a operare durante il fascismo - e le casse mutua malattia aziendali erano diffuse soprattutto al nord e nel settore industriale; ma c’erano anche mutua malattia aziendali indipendenti regolate solo da accordi interni alla fabbrica (avevano i propri medici, ambulatori dentro la struttura = permanere di poteri privati).

Solo con il CONTRATTO COLLETTIVO del settembre 1936 dalle organizzazioni padronali e dai sindacati dell’agricoltura fu decisa la costituzione in ogni provincia di casse mutua malattia per i salariati del settore, che nel 1937 si estese a coloni e mezzadri, lasciando esclusi i proprietari coltivatori diretti

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21
Q

FRATTURE DI GENERE DELLO STATO SOCIALE FASCISTA

A

Che lasciarono la donna lavoratrice in balìa di un rapporto ambivalente tra elementi di tradizione e di modernità: furono misure contraddistinte dall’alternarsi di iniziative di tutela e altre volte a espellere la donna dal mondo del lavoro, un mondo in cui il suo lavoro era valutato solamente come pari al 60% di quello maschile (coefficiente Serperi): erano meno produttive e dovevano tornare a fare le “operaie della specie”.

A beneficiare delle politiche sociali fasciste furono le donne urbane, ma solamente il 12% dei contributi riscossi fu restituito alle lavoratrici come indennità di maternità, il resto fu usato in maniera impropria (dove erano andati a finire i contributi versati dalle donne?)
- Per le industriali rimase attiva la Cassa maternità (presente sin dal 1910) e l’indennità di parto (per le 6 settimane in cui si allontanava dal lavoro e perdeva il salario), sebbene il costo della vita fosse aumentato del 20%
- Una RIFORMA DEL 1929 stabilì che le lavoratrici avrebbero mantenuto il loro posto di lavoro in caso di gravidanza; la sospensione dal lavoro fu aumentata di 2 settimane (da 6 a 8); fu estesa l’indennità di parto anche alle impiegate del commercio che aumentò di 50 lire (da 100 a 150, comprensivo dell’indennità giornaliera di disoccupazione) solo per coloro che avessero versato almeno due anni di contributi, quindi le lavoratrici giovani o con un percorso precario erano penalizzate

–> L’indennità di parto o aborto fu estera all’universo contadino delle braccianti, delle mezzadre e delle colone solamente nel 1936, pur valendo 1/3 di quello che era invece destinato alle colleghe dell’industria e del commercio. Non avevano però ancora alcun supporto igienico-sanitario che nelle grandi città era organizzato attraverso i consultori, ad esempio dell’ONMI, che però si concentravano solo nelle realtà urbane settentrionali.
Non avevano diritto a un periodo di sospensione dal lavoro come le donne urbane. Ma ci fu un’altra categoria esclusa, quella delle lavoratrici domestiche

Molte annacquature erano presenti dietro le NORME DEL 1934, difatti incomplete
- TUTELA DEL LAVORO DELLE DONNE IN GENERALE: divieto per donne e minori di compiere una serie di lavori pericolosi. Solamente due anni dopo furono specificate quali fossero tali mansioni, prevedendo peraltro lunghe serie di deroghe secondo le quali, in “particolari condizioni” queste attività continuavano a essere permesse, facendo della salute delle donne la principale vittima di un tasso di faticosità molto elevato
- TUTELA ALLE LAVORATRICI MADRI: la sospensione dal lavoro fu portata a 10 settimane, l’indennità portata a 300 lire, ma fu poi eliminata l’integrazione legata all’indennità di disoccupazione precedentemente conteggiata, quindi l’aumento effettivo fu di sole 45 lire.
Inoltre, il sussidio non veniva concesso in caso di aborto spontaneo se questo avveniva nei primi tre mesi di gravidanza, quando era provato che erano proprio quelle le settimane in cui erano più frequenti.

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FRATTURE RAZZIALI (“LA LINEA DEL COLORE”) DELLO STATO SOCIALE FASCISTA

A

Molti temi furono declinati in chiave apertamente razziale dalla propaganda, e lemmi come “razza” e “stirpe” emersero precocemente nell’ambito della produzione riguardante previdenza, assistenza, sanità e medicina del lavoro.
La mancata estensione delle misure previdenziali ai lavoratori nativi rappresentò una premessa alla svolta razzista che il regime adottò partendo proprio alle colonie.

Il fascismo proseguì secondo coordinate che solo parzialmente si allontanarono da quanto intrapreso dai predecessori.

1) Mantenuta una GERARCHIA tra COLONIE DI PRIMO E DI SECONDO LIVELLO, con la Libia in una posizione di relativo riguardo sin dall’epoca liberale

  • Giolitti aveva fatto estendere l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni ai lavoratori musulmani ed ebrei di Cirenaica e Tripolitania
  • Essendo la manodopera libica la maggioranza all’avvio dei lavori pubblici e infrastrutturali, alla fine degli anni Venti fu estesa agli operai indigeni la legislazione vigente per i cittadini italiani e nel 1937 anche quella a protezione del lavoro di donne e fanciulli riformata nel 1934. Anzi, addirittura la gestione del lavoro notturno doveva rispettare le loro festività religiose e il loro statuto personale.

2) Ma quando molti italiani iniziarono a migrare in colonia il processo riprese vigore, per incoraggiare i protagonisti della colonizzazione demografica: come potevano servire all’obiettivo fascista se non vedevano il loro lavoro tutelato qui come in patria?

  • quando fu estesa alle colonie la legislazione sociale già esistente in patria (disoccupazione involontaria, pensioni, mutualità sanitaria) fu sempre precisato che i beneficiari erano i soli cittadini italiani metropolitani: la tutela della popolazione indigena non poteva intaccare la superiorità della razza bianca.

Nell’VIII Congresso Volta a Roma che ebbe come tema l’Africa si ribadì che gli interventi sociali per i nativi sarebbero stati limitati alle sole iniziative di natura assistenziale-sanitaria, perché tra le forme di politica sociale quella previdenziale era quella più elevata e presupponeva un intervento dello Stato in collaborazione con le stesse classi cui era dedicata

3) Anche le politiche sociali furono oggetto della legislazione antiebraica
- minimo di pensione dopo il licenziamento garantita solamente a chi avesse svolto almeno dieci anni di servizio

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COSA FU L’ANTIFASCISMO ITALIANO?

A
  • Non fu mai un fenomeno unitario, ma fu composto da una costellazione di culture e pratiche di diverse forze politiche italiane, da esperienze di emigrazioni e di cospirazioni all’interno di contesti internazionalI.
    Pratiche di rinnovamento emergevano anche all’interno delle pieghe della società italiana non politicizzate, come gli ambienti universitari, che non erano dichiaratamente antifascisti (Bruno Zevi, Pietro Ingrao, Eugenio Curiel)
    L’antifascismo politico era invece uno spettro di atteggiamenti che andava dalla rassegnazione passiva all’accettazione disciplinata, dalla collaborazione attiva alla partecipazione entusiasta, dall’opposizione silente a quella militante. Nelle campagne affioravano forme di indifferenza
  • Era un insieme di esperienze che cercava di dare risposte ai problemi già posti dalla cultura antigiolittiana: la volontà di selezionare e ricambiare la classe dirigente, la disponibilità a definire un nuovo senso dell’impegno intellettuale.
  • Sebbene la storia dell’antifascismo sia stata congelata all’interno di identità nazionali ricostruite dopo il 1945, come foro di una grande narrazione nazionale, di recente si è applicata all’antifascismo una prospettiva transnazionale, attenta alla circolazione di culture e pratiche attraverso i confini
  • Ha conteso al fascismo l’appropriazione dell’identità nazionale, ha proposto le proprie idee di nazione e ha ambito a strappare al fascismo il monopolio della narrazione risorgimentale, muovendosi all’interno di discorsi nazional–patriottici ed esprimendosi pubblicamente come se si rappresentasse la voce del popolo, come fece Togliatti nel 1936.
    Nel 1935 sorse un nuovo dibattito: si può recuperare il Risorgimento in chiave antifascista?
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EVOLUZIONI DELL’ANTIFASCISMO ITALIANO

A

1) Bisogna proiettare la storia dell’antifascismo anche sulla lunga diacronia che trascende la storia stessa del fascismo, radicandola nell’ITALIA GIOLITTIANA, epoca in cui si sentì l’esigenza (antigiolittiana) di rinnovare moralmente e intellettualmente la classe dirigente nazionale, da una riflessione critica sui limiti del processo di costruzione nazionale

2) la stessa SINISTRA che avrebbe potuto frenare l’ascesa di Mussolini ERA LACERATA, e queste divisioni provocarono dello sconcerto tra le organizzazioni operaie e contadine, che si trovarono a fronteggiare con mezzi improvvisati e scarsi le violente offensive squadriste.
Il fatto è che il fascismo fu un movimento a lungo incompreso e frainteso dalla classe dirigente liberale e fino all’estate del 1920 non fu percepito come un problema e un progetto politico autonomo, che mirava alla conquista del potere attraverso la violenza e la mobilitazione antisocialista. Spesso si aveva un atteggiamento di rassegnata condiscendenza: quando Pio XI invitò nel 1931 i professori universitari ad aderire al giuramento “con riserva interiore”.

  • PARTITO SOCIALISTA: ulteriormente diviso al suo interno in un’ana riformista e una maggioranza massimalista guidata da Giacinto Serrati, che alimenò una serie di rivolte e di agitazioni sociali, intendendo seguire l’esempio russo.
    Vedevano nel fascismo una guardia bianca assoldata da imprenditori e agrari, come se si fosse ripetuto il consueto copione della lotta di classe.
  • PARTITO COMUNISTA: nacque a Livorno nel gennaio 1921, da una scissione all’interno del partito socialista.
    Cercava un modello centralizzato, autoritario e settario simile a quello del partito bolscevico. Erano più giovani, dogmatici e violenti dei socialisti. Per loro, il fascismo era un “dominio borghese”.

Ma Bordiga, primo segretario, e Terracini, con le Tesi di Roma rifiutarono il dibattito con il fronte socialista e la costituzione di un fronte unico davanti alla relativa stabilizzazione capitalista, progetto invece ratificato dal Comintern.
Anche per Gramsci e Togliatti, che assursero a figure chiave dopo l’emarginazione di Bordiga, il fascismo mirava a creare un’organizzazione politica per la borghesia, in antitesi al fronte bolscevico

3) Solo dal 1923/1924 (e soprattutto dopo l’omicidio Matteotti) cominciò a coagularsi una forma di antifascismo che contendeva al fascismo la pretesa di monopolio nella rappresentanza della nazione
- ITALIA LIBERA, 1924
- UNIONE NAZIONALE, di Giovanni Amendola, 1924
- La stessa secessione dell’Aventino unì molte forze politiche (PPI, partito repubblicano, il PSI, il Partito sardo d’Azione e la Democrazia sociale, ma non il PCI)
- MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI di B. Croce, in risposta all’analogo manifesto di Gentile: polemizzava contro un partito che negava il carattere di italiani agli altri partiti ed evocava l’ombra di un conflitto civile e delineò un tema caldo su cui si sarebbero arrovellati fascisti e antifascisti: il senso stesso di “Risorgimento”
- PARRI
- CARLO ROSSELLI dichiarò che il fascismo avrebbe lasciato profondi solchi nella vita italiana e costituì (a Parigi) il gruppo Giustizia e Libertà, una piattaforma antifascista rivoluzionaria che puntava all’avvento di una Repubblica democratica.
Vedeva nel fascismo un condensato di elementi caratteristici del carattere degli italiani (conformismo, cattolicesimo, unanimismo) e vedeva nella violenza e in una provvisoria dittatura uno strumento utile per sopperire al passaggio traumatico tra fascismo e nuova democrazia (protesta clamorosa, del terrorismo dimostrativo, della propaganda armata, del tirannicidio, dell’azione eroica futurista)
- La linea d’azione del Partito comunista d’Italia era più dettata dagli imperativi del Comintern, che sancì la strategia di bolscevizzazione, burocratizzazione e centralizzazione dei partiti comunisti. Si articolava in un centro interno e in un centro estero (prima a Basilea e poi a Parigi), ma le attività clandestine del primo furono arrestate dalle operazioni della polizia fascista

4) Dal 1926 la Francia divenne un luogo di emigrazione e riorganizzazione degli oppositori antifascisti e di esiliati, che spesso avevano l’illusione che il regime fascista fosse effimero e destinato a un rapido crollo. Gli esuli politici furono denigrati come “traditori della patria fascista” e ai fuoriusciti fu negata la cittadinanza
- qui si rifugiò Togliatti,
- venne costituita la Lega italiana dei diritti dell’uomo (1922),
- costituita nel 1927 la Concentrazione d’azione antifascista per una “rivoluzione italiana” da socialisti, repubblicani e democratici (per trasformare in alleanza stabile la collaborazione tra forze antifasciste)
- a Parigi esponente di spicco fu Pietro Nenni, che si batteva per superare la dicotomia tra riformismo e massimalismo e conciliare classismo e democrazia. Massimalismo e riformismo furono poi riunificati nel PSI del 1930 guidato da Nenni e Saragat
- a Parigi fu fondata Giustizia e Libertà nel 1929 da Carlo Rosselli

5) Con l’ASCESA DI HITLER l’antifascismo si convertì da insieme di esperienze nazionali a orizzonte di lotte europee: furono subito evidenti gli errori di una strategia comunista che individuava il nemico principale nel social–fascismo. Non era più sufficiente la strategia del “classe contro classe” e la soluzione doveva essere inquadrata in una prospettiva europea. Togliatti stesso disse che si era sottovalutata l’influenza sulle masse esercitata dal fascismo, che non era una semplice guardia della borghesia. Il comunismo aveva troppo atteso.

  • LA STRATEGIA DEL FRONTE POPOLARE di STALIN: intendeva contrastare l’espansione del fascismo inserendo la propria strategia all’interno dell’orizzonte della guerra contro le “potenze capitaliste”, quindi democrazia borghese e fascismo coincidevano ancora (ma in questo modo era impossibile distinguere Italia e Germania dagli altri Stati)
  • PATTO TRA COMUNISTI E SOCIALISTI siglato nel 1934 grazie a Luigi Longo e Pietro Nenni: era comunque un grande ritardo nell’affrontare la questione del fascismo
  • In occasione del VII CONGRESSO DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA si iniziò a distinguere diverse forme statuali e regimi politici, senza semplificare più la complessità delle formazioni politiche dentro il gruppo capitalista da combattere in maniera indifferenziata e si aprì alla possibilità di accordi politici tra comunisti, socialisti, radicali e democratici in chiave antifascista, mentre prima, nel VI Congresso dell’Internazionale Comunista la formula settaria consacrata era il socialfasicsmo.
  • In occasione della GUERRA CIVILE SPAGNOLA ci fu un primo contatto militare fra fascismo e antifascismo su scala transnazionale europea. È nella penisola iberica che l’antifascismo trovò il suo campo di sperimentazione della lotta armata.
    Qui c’erano forme di volontariato internazionale, c’erano le Brigate internazionali organizzate dal Comintern (antifascismo = fare gli interessi dello Stato sovietico, presunto paladino della pace internazionale, proprio nel momento in cui in Russia dominava il terrore di Stalin), c’erano narrazioni radicali che invitavano a convertire la guerra civile in guerra sociale europea (Rosselli)

anche se c’erano altre spinte, come quelle dello storico Elie Halévy, che invitava a notare le contraddizioni di un socialismo lacerato tra spinta organizzatrice e autoritaria e pulsione liberatrice e democratica, invitando a considerare il fascismo all’interno delle varie correnti socialiste

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25
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ECONOMIA E FASCISMO: LE PUBBLICAZIONI SU “LO STATO MUSSOLINIANO E LE REALIZZAZIONI DEL FASCISMO NELLA NAZIONE”

A

Il fascismo fu molto attento a veicolare un’immagine positiva delle sue realizzazioni, tacendo spesso invece su ciò che non funzionava.

Ne “Lo Stato mussoliniano e le realizzazioni del fascismo nella nazione” veniva data voce a molti esponenti del governo e delle istituzioni, così come a molti rappresentanti dell’imprenditoria privata, che descrivevano il rapporto delle loro imprese con il fascismo in termini estremamente positivi
- unità d’intenti del fascismo
- obiettivi della diplomazia finanziaria internazionale
- successi dello sviluppo interno che avrebbero portato il fascismo verso la modernità industriale
(aveva placato la riottosità dei lavoratori, liberato l’attività economica, arrestando l’invadenza delle leggi e degli enti pubblici (ad esempio, aveva abolito il monopolio dell’INA sulle assicurazioni a vita, liberalizzando il settore assicurativo), avviato dei lavori pubblici, trasformato l’economia dello stato e progettando una terza via, quella del corporativismo, liquidato l’ordinamento liberale). Si evinceva quindi un rapporto di compenetrazione tra imprese e Stato, tra economia e politica, che più in avanti acquisì una forma ancora più coerente.
- alcuni punti programmatici del piano fascista: politica protezionistica, diminuzione delle importazioni, difesa delle esportazioni, aumento della produttività, difesa delle riserve nazionali, assorbimento del sindacalismo nello Stato (Patto Vidoni)

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IL FASCISMO DAVANTI ALLA CRISI ECONOMICA

A

Sembravano non spaventare i venti di crisi che alcuni fiutavano: il fascismo li avrebbe arrestati

  • CRISI DELL’AGRICOLTURA? risolta con l’aumento della produttività e con l’amministrazione centralizzata del settore primario: il fascismo attuò un intensivo controllo statale sull’agricoltura
  • CRISI ECONOMICA? era solo il segnale del fallimento del capitalismo liberale, che avrebbe inaugurato una fase di delicato trapasso verso una nuova epoca di civiltà, in cui il fascismo avrebbe presentato la rivoluzionaria ricetta dell’esperimento corporativo.
    Il regime aveva nobili intenti: si presentava come moderno e modernizzatore, in grado di portare l’Italia all’altezza dei paesi industriali più avanzati, continuando però a rifugiarsi nell’ode alla vita semplice.

Alcuni studiosi hanno preferito però parlare di “dittatura sviluppista”, che mobilità masse e risorse nella transizione alla società di massa e all’economia industriale, e di “modernità politica”, nella sua capacità di interpretare e controllare la novità novecentesca della società di massa, rivolgendosi a questa con i nuovi mezzi di comunicazione.
Nel suo programma emersero le annacquature: irrigidite le divisioni tra classi e tra generi, frenato il lavoro femminile, compressione salariale, invito a fare affidamento su manodopera a basso costo, squilibrio tra mondo urbano e rurale, cristallizzata la questione meridionale

Nonostante la retorica nazionalista e la politica del bastare a se stessi, il fascismo ebbe una posizione ambivalente davanti alla crisi.
Si lanciò in una campagna per limitare la dipendenza dalle importazioni in determinati settori, ma rimase ferma nella linea di liberalizzazione davanti alla crisi almeno fino al 1934, quando prese corpo la svolta protezionistica, che portò a intensificare gli strumenti tradizionali del nazionalismo economico: spesso nei suoi discorsi Mussolini richiamava la dimensione internazionale; presenti rimanevano le imprese multinazionali

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RAPPORTO DEL FASCISMO CON GLI INDUSTRIALI

A

1) dopo la Prima guerra mondiale si completò la formazione dei settori caratterizzanti la seconda rivoluzione industriale (elettrico, chimico, meccanico, siderurgico, automobilistico e aeronautico); crebbe la figura del tecnico con funzioni manageriali (speo era un capitalista proprietario, come Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta); si diffuse la meccanicizzazione e la tendenza alla specializzazioni per fasi nelle industrie, l’organizzazione scientifica del lavoro (l’Italia introdusse il sistema Bedaux), e crebbe il confronto tra interessi organizzati attraverso la nascita di associazioni degli imprenditori che premevano sul settore politico, come Confindustria e Confagricoltura, ma questa dinamica corporativa non contribuì alla stabilizzazione: il fascismo quindi si presentò come colui che avrebbe potuto correggere i rapporti che agrari e industriali percepivano come troppo favorevoli ai lavoratori con il patto di Palazzo Vidoni

2) L’intreccio indistricabile tra impresa, imprenditori e regime richiede di scartare l’immagine di politica assoluta che il fascismo dava di sé. Non fu mai un fenomeno integralmente politico, né gli industriali furono solo dei fiancheggiatori fascistizzati: la dialettica tra sovversivismo e difesa dell’ordine fu sostenuta in collaborazione con i ceti dirigenti economici –> gli agrari si rivolsero alle squadre fasciste contro il socialismo riformista; gli antifascisti della prima ora, sia socialisti che comunisti, già vedevano nel fascismo un orientamento politico della borghesia, la guardia bianca assoldata dalla borghesia. Per le riforme economiche non si rivolse tanto al PNF, quanto a tecnici (=burocrazia parallela) come Serpieri per le bonifiche e Beneduce per l’IRI

  • si presentava come amico della borghesia produttrice, con l’obiettivo di rinsaldare la solidarietà tra datori di lavoro e lavoratori correggendo i rapporti che secondo i primi erano troppo favorevoli ai secondi ponendosi come mediatore con il Patto di Palazzo Vidoni
  • dava agli industriali mano libera nel governo della forza lavoro: consentiva alle imprese di organizzare anche la vita pubblica e sociale del regime attraverso il Dopolavoro
  • i sindaci e i podestà erano spesso parte di élite imprenditoriali, ma anche i ministri (Volpi fu nominato ministro ma proveniva dal settore elettrico)
  • la dialettica tra economia e politica deve essere valutata anche alla luce del ruolo dell’elettrico, che fu caratterizzato fin dai suoi esordi dall’alleanza tra banca e industria, dalla nomina di personalità provenienti dal settore a ministri (come accadde con Volpi), ma molti seguirono anche un percorso inverso, passando dall’amm. pubblica all’impresa (Beneduce).
    Il ventennio vide incrementi dell’energia elettrica e la diffusione di elettrodomestici, che minacciavano i modelli di vita domestica proposti dal regime, basati su una rigida divisione di genere e bassi consumi
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28
Q

IL CORPORATIVISMO

A

Fu la terza via fascista, che si presentò come risposta autoritaria alla domanda di rappresentanza dei soggetti economici.
Fu il principale prodotto da esportazione del fascismo (argomento che va forte nella propaganda verso l’estero, tantoché Chabod scrisse che tutti gli intellettuali scrivono di corporativismo): in classe abbiamo detto che anche l’OIL aveva una forma di rappresentanza corporativa.

ORIGINI:

(Matteo Pasetti) E’ un concetto ostico che ha un’origine lontana nel tempo. Nell’Europa basso medioevale un’organizzazioe sociale che raggruppa i lavoratori di un settore dell’economia, che utilizzano la corporazione per trasmettere conoscenze professionali di generazione in generazione e per difendere i propri interessi, ad esempio monopolistici. Viene spazzato via dalla Rivoluzione francese e dalla Rivoluzione industriale, ma rimane in alcuni ambienti, come quello dell’Ottocento cattolico, per risolvere conflitti e conciliare gli interessi. L’ambiente cattolico vede nel corporativismo una forma di antistatalismo e di organizzazione pre-industriale, riconosciuta dall’enciclica di papa Leone XIII del 1893. Quindi il fascismo si appropria di idee già diffuse e le rinnova.

  • Con il fascismo c’è un CORPORATIVISMO SOCIALE: le corporazioni sono nuove strutture create per 1) raccogliere lavoratori e datori di lavoro, in omaggio alla VISIONE ORGANICISTICA E COLLABORATIVA con cui il fascismo intendeva sostituire l’impostazione pluralista e conflittuale dello Stato liberale (porre fine ai conflitti di classe anche per evitare la rivoluzione socialista); 2) come organi dello Stato con funzioni di coordinamento, conciliazione ed organizzazione della produzione al cui interno erano inquadrati tutti i sindacati.

2) CORPORATIVISMO POLITICO: il fascismo intende creare un governo dell’economia, con un sistema istituzionale e rappresentativo alternativo al parlamentarismo liberale in crisi: l’economia entrava nello stato nel momento in cui si dava voce a interessi di categorie lavorative per orientare la politica economica dello Stato.
Ma in questo modo vengono abolite le elezioni plebiscitarie e gli individui non eleggono liberamente i propri rappresentanti.

Sul piano pratico per molto tempo fu considerata un bluff perché la sua attuazione fu molto lenta.
Con la legge sindacale del 3 aprile 1926, a completamento del patto di Palazzo Vidoni, veniva eiminato il pluralismo sindacale e ogni forma di sciopero. Per ogni categoria lavorativa sarebbe esistito un solo sindacato, fascista.
Nel 1930 viene creato il Consiglio nazionale delle corporazioni, ma solo nel 1934 le corporazioni vere e proprie, e nel 1939 viene creata la Camera corporativa a sostituire quella dei deputati.

Le corporazioni svolsero funzioni importanti: producevano norme e legislazione economica, permettevano mediazione e contrattazione, regolavano i rapporti orizzontali tra categorie, offrivano agli industriali un regime vincolistico da svolgere a proprio favore, agivano in quelle aree in cui il sindacato a la lega non avevano mai attecchito

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29
Q

INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA

A

Si sviluppò in continuità con quello della guerra. Qui l’evoluzione degli enti pubblici non può essere disgiunta dagli obiettivi del regime
- Istituto di liquidazione
- AGIP
- IMI
- IRI

Legò lo sviluppo economico alle scelte belliche che si rivelarono fallimentari (espansione coloniale e invasione d’Etiopia), tantoché né impresa privata né pubblica sarebbero state in grado di riconvertirsi alla produzione di pace

30
Q

ECONOMIA E FASCISMO: OBIETTIVO DI BRUNO SETTIS

A

Bruno Settis intende gettare luce sul rapporto complesso e assolutamente non lineare che si è instaurato tra fascismo ed economia.

Il fascismo fu molto attento a veicolare un’immagine positiva delle sue realizzazioni, tacendo spesso invece su ciò che non funzionava: lo fece nelle pubblicazioni all’interno dello “Stato mussoliniano e le realizzazioni del fascismo nella nazione”.

Indaga anche il modo in cui il fascismo si pose davanti ai segnali di crisi economica dei tardi anni Venti: aveva spesso un’attitudine rassicurante.

3 nodi:
- RAPPORTO DEL FASCISMO CON GLI INDUSTRIALI
- IL CORPORATIVISMO
- INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA

31
Q

PATTO DI PALAZZO VIDONI: IL RAGGIUNGIMENTO DELL’ACCENTRAMENTO E VERTICALIZZAZIONE FASCISTA

A

La Confindustria riconosce nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici.
La Confederazione delle corporazioni fasciste riconosce nella Confederazione generale dell’industria e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli industriali.
Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell’industria e quelle dipendenti della confederazione delle corporazioni.
In conseguenza le commissioni interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente Organizzazione industriale.
Entro dieci giorni saranno iniziate le discussioni delle norme generali da inserirsi nei regolamenti.

32
Q

I PRINCIPI ESPRESSI NELLA CARTA DEL LAVORO

A
  • collaborazione di classe e solidarietà
  • aggiornamento delle leggi protettive del lavoro (assicurazione obbligatoria per malattie professionali e tubercolosi)
  • norme generali sui contratti (costituzione di casse mutua per malattie da finanziarsi con il contributo sia di datori di lavoro che di prestatori d’opera)
33
Q

IL MODELLO FASCISTA ALL’ESTERO: OBIETTIVO DELL’AUTRICE

A

In questo saggio, Giulia Albanese ha voluto riflettere sulla compenetrazione tra attività di propaganda, politica estera e ricezione del fascismo nell’Europa occidentale, nel periodo che va dalla marcia su Roma (1922) al tentativo di costruzione di un’Internazionale fascista (1935).

quanto impatto ha avuto l’esperienza fascista italiana all’estero sui partiti e i movimenti sviluppatisi precedentemente e autonomamente in Europa? Si può parlare di “universalismo fascista”?
Sì, se ne può parlare perché al di là delle effettive realizzazioni del fascismo in politica estera, c’erano delle progettualità, degli intenti.
Il fascismo, soprattutto dalla fine degli anni Venti, rivolse lo sguardo oltre la frontiera, anche se a piccoli passi.

L’impatto fu evidente nello sviluppo di pulsioni dittatoriali e autoritarie in Portogallo (dittatura 1926), in Austria (attenzione alla propaganda e a una stampa irregimentata), e nelle riforme ispirate dal corporativismo avviate in Grecia, Polonia, Spagna e Francia.
Eppure la dimensione transnazionale del fascismo è stata poco valorizzata dalla storiografia (sebbene ci siano degli sviluppi in quella direzione) e poco integrata con il più comune asse di ricerca tradizionale, incentrato sul radicamento nazionale dell’esperienza fascista.

La stessa analisi del fascismo italiano - delle sue colpe e delle sue responsabilità - è stata spesso oscurata dall’impatto europeo dell’esperienza nazista

34
Q

PERCHE’ LA DIMENSIONE TRANSNAZIONALE DEL FASCISMO E’ STATA POCO VALORIZZATA DALLA STORIOGRAFIA?

A

La dimensione transnazionale del fascismo è stata poco valorizzata dalla storiografia (sebbene ci siano degli sviluppi in quella direzione) e poco integrata con il più comune asse di ricerca tradizionale, incentrato sul radicamento nazionale dell’esperienza fascista, perché la stessa analisi del fascismo italiano - delle sue colpe e delle sue responsabilità - è stata spesso oscurata dall’impatto europeo dell’esperienza nazista

35
Q

DOVE FU EVIDENTE L’IMPATTO DELL’ESPORTAZIONE DEL MODELLO FASCISTA ALL’ESTERO?

A

Fu evidente nello sviluppo di pulsioni dittatoriali e autoritarie in Portogallo (dittatura 1926), in Austria (attenzione alla propaganda e a una stampa irregimentata), e nelle riforme ispirate dal corporativismo avviate in Grecia, Polonia, Spagna e Francia

36
Q

L’EVOLUZIONE DEL RAPPORTO TRA IL FASCISMO E IL PROGETTO DI CREARE UN’UNIVERSALITA’ FASCISTA/ESPORTARE IL MODELLO FASCISTA ALL’ESTERO

A

Il fascismo portò avanti in maniera ambigua la rilessione sulla funzione internazionale del fascismo, spesso mettendo in piedi diverse retoriche - anche contraddittorie - per svariati pubblici, ed ebbe anche delle difficoltà a legittimarsi nell’arena internazionale.

ANNI VENTI

1) la MARCIA SU ROMA cattura immediatamente l’attenzione dei governi, della stampa e dell’opinione pubblica in Europa e altrove. Fa apparire il regime come un movimento rivoluzionario capace di rimettere ordine in un paese attraversato dai conflitti sociali e di fermare l’avanzata socialista
- FRANCIA e GRAN BRETAGNA: guardavano con sottile pregiudizio alla natura teatrale dell’azione politica italiana ed erano preoccupate dell’attitudine revisionista di Mussolini in politica estera e la sua richiesta di trasformazione degli accordi di pace
- in AUSTRIA, GERMANIA e PENISOLA IBERICA la fascinazione per il fascismo fu molto più forte, perché qui le istituzioni liberali erano molto più deboli

2) Il regime inizia presto a curare l’opinione straniera, per legittimare la propria posizione all’interno dell’arena internazionale
- ruolo chiave giocato dalla STAMPA: traduzione e pubblicazione di testi di autori fidati (canale non ufficiale e parallelo rispetto alla diplomazia di Stato) e di biografie di Mussolini, in cui questi appare come un personaggio titanico e in grado di competere con i grandi nomi della storia –> ma si continua ancora a ribadire l’italianità dell’esperienza fascista, non completamente replicabile all’estero, in maniera da rafforzare il legame tra gli italiani in madrepatria e all’estero. L’impronta inedita e originale del regime fascista non poteva essere replicata troppo facilmente da ambizioni e troppo ottimisti epigoni.

2) ANNI 25/26

E’ con la svolta autoritaria segnata dalle leggi fascistissime/torsione decisa verso la dittatura che il fascismo si apre a una prospettiva universale/ipotesi universalista, ma è l’Italia, secondo Camillo Pellizzi (intellettuale fascista a Londra) a dover promuovere un’Internazionale fascista e a porsi come guida del fascismo europeo, sbarrando la strada a tutte quelle flaccide e meschine imitazioni circolanti. Si rende esplicita la convergenza tra la prospettiva universalistica e il desiderio di porsi come forza trainante di riferimento
- incline a COSTRUIRE RELAZIONI anche non ufficiali con MOVIMENTI FILOFASCISTI ALL’ESTERO (HEIMWEHR austriaca e il CINEF)
- esplode, dal 1928, la TRADUZIONE DI OPERE SUL FASCISMO (testi di Bottai e Turati) con cui il regime propaganda le proprie realizzazioni alle élite politiche e intellettuali straniere, e il CULTO DEL DUCE, utile a contrastare l’ascesa dell’interesse antropologico neri confronti di Hitler
- anche nel DISCORSO PUBBLICO UFFICIALE IN ITALIA si rinforza la linea universalista: ne parlano articoli sul Popolo d’Italia, riviste come “Antieuropa”, “Universalità fascista, “Universalità romana”, “Ottobre”
- vengono organizzati CONVEGNI e RIUNIONI in cui discutere del tema (Congresso Volta a Roma del 1932 che ebbe come tema l’Europa, in cui Mussolini voleva promuovere il ruolo dell’Italia come guida di un’Europa fascista scontrandosi invece con i sogni di Aristide Briand di creare degli Stati Uniti d’Europa) ed EVENTI CELEBRATIVI di carattere internazionale (come la Mostra della rivoluzione fascista e una mostra di arte italiana a Parigi che nel 1935 fu preceduta da un ampio movimento di propaganda politica con le vetrine delle librerie dedicate a Mussolini) in cui consolidare la consapevolezza del ruolo di guida ideologica assunto dal fascismo sia all’interno del Paese che all’estero

3) ANNI TRENTA

  • con l’entrata in scena di Hitler, l’attitudine del regime verso la dimensione universale del regime cambiò: ora più che mai Mussolini intendeva valorizzare il ruolo primario dell’Italia all’estero, coordinando le forze fasciste e filofasciste internazionali e riaffermando la centralità del fascismo come guida dell’Internazionale fascista, in risposta all’attivismo tedesco
  • furono fondati i CAUR nel 1933, Comitati di azione per l’universalità di Roma, un ente di propaganda per l’estero e gli stranieri residenti in Italia che aveva come obiettivo quello di gettare le basi per una Internazionale fascista, mettendo in piedi una struttura fatta di ispettori itineranti, attività di propaganda e ai limiti della cospirazione, per aggregare i movimenti e gli intellettuali fascisti europei attorno al fascismo italiano –> nell’incontro di Montreaux organizzato dai CAUR nel 1934, l’Italia stessa si dimostrò disponibile a incorporare una linea antisemita, che fu quindi il prodotto di una evoluzione interna del regime.
    Nel settembre 1938, durante un messaggio volto all’Internazionale di Erfurt, Eugenio Coselschi sottolineò la saggezza del Corano, in contrasto con la tirannia del Talmud
  • venne rafforzato e rafforzato il sistema di propaganda con la creazione della Sezione propaganda dell’Ufficio stampa del capo del governo nel 1934, diventata poi la Direzione generale per la propaganda. Era un organo cui era affidata la diffusione di notizie sull’Italia all’estero attraverso stampa, opuscoli, libri, conferenze e film
  • con l’attacco in Etiopia, che trasformò il posizionamento dell’Italia in Europa, i Fasci italiani all’estero, i CAUR e i singoli propagandisti fascisti sostennero la politica bellicista italiana, spingendo le opinioni pubbliche mondiali a simpatizzare con la svolta imperialista
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Q

ALLA FINE DI TUTTO, QUALI ERANO I PROBLEMI INCONTRATI DAL REGIME NEL SUO PROGETTO DI ESPORTAZIONE DEL FASCISMO ALL’ESTERO?

A

Il fascismo portò avanti in maniera ambigua la rilessione sulla funzione internazionale del fascismo, spesso mettendo in piedi diverse retoriche - anche contraddittorie - per svariati pubblici, ed ebbe anche delle difficoltà a legittimarsi nell’arena internazionale

1) era però rischioso mettersi poi a capo di un’accozzaglia di movimenti minoritari ed eversivi. Ecco perché sebbene le pressioni provenienti dai Fasci italiani all’estero, i primi a maturare un primo progetto di Internazionale fascista, la classe dirigente nazionale si dimostrò scettica nell’assumerlo fino in fondo
2) c’era un altro problema di fondo: che cos’era davvero il fascismo? Mancava una definizione univoca, un definizione dottrinaria compiuta e ufficiale. Quali erano i criteri per identificare gli altrI movimenti come fascisti?

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO SULLA VIOLENZA (MATTEO MILLAN)

A

Sceglie di indagare un elemento fondamentale per la definizione e l’interpretazione del fascismo. E’ una trattazione generale, ma per sviscerarlo a fondo, come tutti gli altri autori dei saggi, parte da un caso specifico.

1) mostra come la violenza fascista si situi in CONTINUITA’ con la violenza pre-bellica (origini della violenza fascista: fine Ottocento) e parallelamente in un contesto continentale che vede il fiorire delle squadre paramilitari
2) ma ne sottolinea anche le SPECIFICITA’
3) insiste sull’intreccio tra aspetti simbolici e performativi di questa violenza

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO SULL’ESPERIENZA COLONIALE E L’IMPERO (DEPLANO)

A

Parte da un presupposto: l’Italia aveva già delle colonie, aveva già occupato dei territori (Eritrea, Somalia, Libia) in età liberale.
Ma l’autrice intende insistere sulle discontinuità esistenti tra Italia liberale e Italia fascista: perché è con il fascismo che la politica estera e coloniale si intreccia in una maniera nuova con il progetto totalitario di Mussolini di rifondazione della società italiana/rigenerazione del paese/nascita dell’uomo nuovo deve passare attraverso l’esperienza coloniale.

E’ una specificità che spiega meglio l’impegno profuso dal regime nella mobilitazione capillare di un apparato di propaganda.

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO 3 DI CLAUDIA BALDOLI: L’ESPERIENZA MILITARE DEL REGIME A PARTIRE DAL CASO DEI BOMBARDAMENTI AEREI

A

Claudia Baldoli indaga uno degli elementi costitutivi/strutturali della pratica fascista: la guerra.
Costruisce la sua trattazione partendo da un caso particolare: quello dei bombardamenti

1) una guerra inevitabile per l’Italia: il fascismo aveva già messo in programma sin dagli anni Venti la possibilità di un conflitto (la Prima guerra mondiale rappresenta il retroterra esperenziale del primo gruppo dirigente fascista) è, con la violenza, strumento di legittimazione dell’azione squadrista
(c’erano tutte le premesse: bla bla bla)
2) approfondisce come si dispieghi la preparazione bellica concentrandosi però in modo particolare sul conflitto aereo: la guerra nei cieli, l’aviazione sono metafore della modernità di cui il regime voleva farsi promotore
3) la storia dei bombardamenti però riflette più il fallimento generale del regime

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO SULL’ECONOMIA DI BRUNO SETTIS

A

Qui Bruno Settis vuole dimostrare come il regime fascista non sia stato alieno dal coinvolgimento con il mondo economico, dell’imprenditoria e dell’industria. Anzi, questo intreccio indistricabile richiede di scartare l’immagine di politica assoluta che il fascismo dava di sé.

Parte dalla rappresentazione che il regime fa di sé: fu sempre molto attento a veicolare una certa immagine di sé, anche all’estero. Prendendo in esame il volume curato da Tommaso Sillani nel 1930, Bruno Settis evidenzia come il regime abbia propagandato i propri successi e le proprie realizzazioni spesso tacendo, invece, su cosa non funzionava.

Riflette sul rapporto tra Stato ed economia, sulla risposta del regime alla crisi dell’agricoltura e dell’economia, sul rapporto ambiguo tra retoria nazionalista e retorica liberista, e sul rapporto tra regime il mondo imprenditoriale e industriale, sul modello di economia mista/corporativa e sull’intervento dello Stato nell’economia.

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO SU RAPPORTO TRA STATO E CHIESA DI GABRIELE RIGANO

A

Lui intende gettare luce sul rapporto complesso e non lineare tra due realtà concorrenti, alternative e a loro modo totalizzanti: regime fascista e Chiesa. Che avevano degli obiettivi ben precisi.

Intende offrire una trattazione generale, ma i casi, quelli più esemplificativi, che illustra si radicano nel corso degli anni Trenta. E’ a partire da questi casi che si può seguire l’evoluzione del rapporto tra Stato e Chiesa, un rapporto che si inquina, che si guasta.
Un rapporto che a un certo punto diventa correlato anche all’antisemitismo di Stato.

I problemi emersi da questo rapporto hanno avuto effetto sulla religiosità degli italiani. Il cattolicesimo ha avuto un peso nella crisi dello Stato liberale italiano.

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO SU METEOROLOGIA DI ANGELO M. CAGLIOTI

A

In questo saggio Angelo M. Caglioti affronta un campo attraverso il quale il regime ha deciso di plasmare l’Italia nel corso del ventennio: il campo della cultura scientifica si è trasformato e ridefinito nell’incontro con il fascismo.

La cultura in generale è stata un campo conflittuale in cui il regime ha potuto verificare il suo impatto sulla politica e la società italiana. Però l’indagine degli storici si è rivolta soprattutto alla cultura filosofica e letteraria, alla cultura umanistica. Invece Caglioti riflette sul tema della cultura scientifica, chiedendosi se si può affermare l’esistenza di una scienza fascista.

Sì, la scienza è servita al regime (varie ragioni)

E lo fa partendo dall’esempio della meteorologia, un campo precedentemente attraversato da altri tipi di pratiche, considerato in maniera diversa, ma che con il fascismo viene istituzionalizzato, privilegiato, anche per la sua possibilità di applicazione a fini bellici.

Ma esamina anche l’intreccio tra interessi scientifici, privati e obiettivi di tipo ideologico.

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO 8 SULLA CITTADINANZA

A

La cittadinanza è un campo che Roberta Pergher ha voluto approfondire perché consente di gettare luce sul rapporto tra individui e istituzioni. E’ un tema che si colloca a un incrocio tra la costruzione ideologica fascista (perché nonostante possa sembrare un ossimoro…) e la sua trasformazione istituzionale.

Anche se non ha mai sviluppato una legislazione complessiva, ha più volte ridefinito il rapporto degli individui con lo stato e i confini dell’italianità

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO 9 SULLO STATO SOCIALE (rapporto istituzioni-società)

A

In questo saggio Ilaria Pavan ha voluto analizzare il ruolo delle politiche sociali del fascismo come strumento di trasformazione della società. Il regime ha cercatodi modellare il senso di appartenenza della popolazione attraverso la legislazione sociale: es: il premio di fecondità

Come ha ridefinito il fascismo il suo rapporto con la società attraverso le pratiche di assistenza pubblica? Inoltre, l’etichetta di modernità attribuita spesso al fascismo (“modernità politica”) si può applicare anche al suo stato sociale? Queste politiche sono state efficaci? Chi ha marginalizzato?

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO 10, PROPAGANDA e MASS MEDIA

A

Ha voluto analizzare come il fascismo, nel ridefinire il suo rapporto con la società, e nel tentativo anche di costruire una base di consenso, si sia dovuto confrontare, come tutti gli altri stati totalitari, con un fenomeno oramai inaggirabile.

Ha analizzato anche come i mezzi di comunicazione trasformassero a fondo la comunicazione stessa.

E come la capacità del regime di inviare messaggi diversi a pubblici diversi aha rafforzato la presa fascista sulla società

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO SULL’ANTIFASCISMO

A

Il saggio di Marco Bresciani ha voluto evidenziare come la storia del regime fascista non possa essere disgiunta dalla storia di chi:
- rifiutò il fascismo
- e si costruì in netta opposizione ad esso
- la storia di chi ha avuto un rapporto ambiguo con esso, perché riconobbe nelle istanze sviluppate dal fascismo una risposta a domande che quel momento della storia poneva

Sottolineare le differenze tra le culture politiche della famiglia antifascista

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Q

APPROCCIO STORIOGRAFICO CAPITOLO SULL’ESPERIENZA FASCISTA ALL’ESTERO

A

Visto che è impossibile disgiungere la storia del fascismo da ciò che è successo fuori dai confini italiani (anche se la dimensione transnazionale è stata spesso trascurata dalla storiografia e scarsamente integrata con il più comune asse di ricerca), Giulia Albanese si è chiesta che impatto ha avuto il fascismo su quei movimenti, partiti sorti autonomamente e precedentemente magari al fascismo; capire le potenzialità del progetto dell’innovazione fascista sulle politica europea; si è chiesta anche in che misura il regime sia stato disponibile ad estendere i propri strumenti e le proprie modalità d’azione al di fuori dei confini nazionali (se ha voluto, davvero, creare un’Internazionale fascista).

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Q

APPROCCIO (E OBIETTIVO) STORIOGRAFICO DI MATTEO DI FIGLIA NEL CAPITOLO SUI DIRIGENTI FASCISTI

A
  • Vuole indagare come la classe dirigente politica del paese è cambiata negli anni del fascismo
  • come - attraverso il rinnovamento della propria classe dirigente e il proprio personale amministrativo - il fascismo abbia rafforzato i rapporti tra centro-periferia.

Matteo Di Figlia mette in luce alcune continuità sul lungo periodo (quindi rispetto al periodo liberale), sul medio periodo (quindi quali elementi generativi e costitutivi del fascismo sono rimasti, anche in sordina, per molto tempo) ma anche delle discontinuità: come il regime si è affermato e consolidato nei diversi contesti della penisola? Come le diversità politiche locali, provinciali e regionali hanno reagito all’avvento del fascismo e di sono adattate?

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Q

COME LA VIOLENZA SQUADRISTA DIVENTA STATALIZZATA E SI FA CONTRORIVOLUZIONE?

A
  • individui violenti raggiungono posizioni apicali di potere (le ex camicie nere entrano nella polizia, nelle agenzie di informazione del regime, fanno carriere nella MVSN, entrano nel corpo dello Stato come prefetti)
  • lo squadrismo viene inserito nel corpo dello Stato prima con l’amnistia Oviglio (che cancella tutti i crimini commessi per fine nazionale), poi con la creazione della MVSN, con l’istituzione del confino di polizia e la creazione del Tribunale speciale per la difesa dello stato, le leggi fascistissime che negano la parola ad altri partiti

La violenza fascista ibrida forme legali (creando un apparato repressivo statale) e forme illegali, quindi gli obiettivi politici e quelli squadristi si fanno sovrapponibili (omicidio Matteotti, conquista delle amministrazioni comunali, eliminazione fisica e politica degli avversari)

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LE NOVITA’ SUL PIANO DEGLI INTENTI CHE SOTTOSTANNO AL PROGETTO COLONIALE DEL REGIME

A

1) idea di una colonizzazione demografica intensiva da parte di una nazione proletaria rurale era una polemica contro le nazioni plutocratiche che occupavano i territori con i capitali

2) il ruolo assegnato alla donna

3) il regime inizia a tracciare dei confini ben precisi tra gli individui metropolitani e gli indigeni: c’è la condivisione di uno spazio, ma non la commistione: Faccetta Nera (incommensurabile distanza tra donna nera e italianità), vietato il madamato, vietato di riconoscere figli avuti da relazioni interraziali, il territorio nazionale era uno spazio precluso ai colonizzati, impossibilità per le donne italiane sposate con un suddito africano di mantenere la cittadinanza italiana, istituita una cittadinanza speciale per i libici musulmani nel 1939

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Q

IL COLONO

A

Dietro la figura del colono non c’è solamente la bonifica materiale di terre, ma anche la trasformazione simbolica degli uomini e la creazione dell’uomo nuovo, antiborghese, guerriero, razzista, restauratore del virilismo italiano che si esplica nell’occupazione di una terra donna, vergine (l’Africa) e nello stupro delle donne africane.

Egli è un aiutante della nazione in quanto:
1) contribuisce ad alleggerire la pressione migratoria sulla penisola
2) abbraccia la vita rurale e si preocucpa della valorizzazione agraria del territorio
3) è chiamato a colonizzare demograficamente l’area, soprattutto dopo la sottrazione di territori ai residenti dopo il soffocamento della resisteza in Cirenaica del 1931

Grande sforzo speso dal regime nella missione colonizzatrice (“colonizzazione interna”)
- 1931: Commissariato per la migrazione e la colonizzazione interna, che fu incaricato di organizzare e governare gli spostamenti degli italiani verso aree che dovevano essere bonificate
- 1932: Ente per la colonizzazione della Cirenaica (poi Libia), con cui lo Stato si assumeva formalmente l’onere di acquisire le terre e di crearvi a proprie spese delle lottizzazioni nelle quali si sarebbero insediate le prime famiglie

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Q

ORGANI CHE CREO’ IL REGIME PER IMPLEMENTARE LA SUA MISSIONE COLONIZZATRICE

A
  • 1931: Commissariato per la migrazione e la colonizzazione interna, che fu incaricato di organizzare e governare gli spostamenti degli italiani verso aree che dovevano essere bonificate
  • 1932: Ente per la colonizzazione della Cirenaica (poi Libia), con cui lo Stato si assumeva formalmente l’onere di acquisire le terre e di crearvi a proprie spese delle lottizzazioni nelle quali si sarebbero insediate le prime famiglie
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Q

IL RUOLO DELLE DONNE NELLA COLONIZZAZIONE

A

In AOI e in Libia crebbe il numero delle donne italiane, mogli di uomini già in Africa. Erano stati creati, supportati dall’Istituto fascista dell’Africa italiana, dei corsi di formazione femminile per insegnare alle donne la vita in colonia. C’erano anche dei vademecum, in cui veniva sottolineato il ruolo della conquista intesa come trionfo, una vittoria che risolveva quel disagio e quell’odioso senso di inferiorità che l’Italia avvertiva nel confronto con le altre potenze coloniali europee. Visto che l’Etiopia era un’esperienza nuova, serviva il concorso di tutti gli elementi della nazione, quindi anche delle donne.

3 tipologie di compiti:

  • EDUCATIVO: trasmettere ai figli la fiducia nel disegno grandioso e imperialistico del Fascismo;
  • MATERIALE: compito essenzialmente di tipo demografico, mettere al mondo figli e creare una cornice in cui inserire le nuove generazioni, evitare che uomini maschi e bianchi si accompagnino con donne locali (preservare la bianchezza della nazione)
  • MORALE: devono far sentire l’Italia vicina, ricreare altrove lo stesso nucleo familiare italico, allontanare il senso di alienazione e di nostalgia nei confronti della propria terra d’origine, trasmettere fiducia in chi le sta al fianco.
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Q

IL COLONIALISMO CHE NON FINISCE: DOPO LA CADUTA DI MUSSOLINI

A

Non finì con il Trattato di Parigi del 1947:
- Dall’ONU l’Italia ottenne l’amministrazione fiduciaria della Somalia (1950-1960)
- il governo italiano volle presentare in una luce positiva l’operato dell’Italia in Africa, al fine di mantenere la Repubblica negli ex possedimenti, facendo leva su temi come la missione civilizzatrice, l’emigrazione demografica ecc. Iniziarono a diventare centrali nei discorsi gli italiani che chiedevano di tornare in Africa

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LE LEGGI PROMULGATE PER PREPARARE L’ITALIA A UN CONFLITTO (ANNI ‘20/’30) MA CHE NON FURONO MAI REALMENTE APPLICATE

A
  • organizzare la mobilitazione civile
  • organizzare lo sfollamento in maniera ordinata e disciplinata
  • per la protezione degli stabilimenti industriali
  • per la creazione di istituzioni dedicate alla difesa
  • per la creazione di ricoveri/rifugi antiaerei: la prima legge del 1932 stabiliva la costruzione di nuove gallerie nei centri urbani da utilizzarsi come ricoveri, ricoveri che dovevano essere obbligatoriamente annessi alle case di nuova costruzione a spese del proprietario (legge del 1936)

L’inattuabilità delle leggi evidenziò il più ampio problema dell’accentramento fascita, che spesso doveva scendere a continue mediazioni e negoziati con le realtà locali, ampliando i loro poteri a discapito del tentativo di imporre un controllo totalitario sulla vita italiana dall’alto

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Q

QUALI ERANO I NODI PROBLEMATICI NELLA STORIA DEI BOMBARDAMENTI?

A
  • mancanza di una produzione bellica in serie, di massa (che invece serviva per produrre molti più macchinari moderni come i tre capi di Stato richiedevano). Mussolini preferiva puntare su una produzione artigianale: produrre meno aerei ma utilizzando metodi qualificati, tradizionali.
    Temeva inoltre l’imposizione di una disciplina militare sulla classe operaia e la che la militarizzazione delle industrie potesse fargli perdere consensi
  • armamenti obsoleti, primitivi:
    1) l’Italia non disponeva neppure di radar per avvistare gli aerei nemici, ma di aerofoni, collegati a centri di raccolta informazioni, a loro volta in comunicazione con la DiCaT che dava l’ordine di sparare
    2) contraerea fissa: l’Italia sparava con fucili della Prima guerra mondiale. Erano armi che sarebbero bastate per poco tempo e per un conflitto a bassa intensità
  • i rifugi erano inadatti allo scopo e ne vennero realizzati in numero insufficiente (a Torino dovevano essere costruiti rifugi per 630mila abitanti, ma ne potevano ospitare solo 1/9)
  • non fu mai varato un piano per lo sfollamento obbligatorio. In linea teorica doveva essere ordinato e disciplinato, e per gli sfollati obbligatori dovevano essere organizzati dei mezzi di trasporto nei giorni precedenti la mobilitazione militare (per evitare traffico). Spesso invece ci si spostava di regione in regione.
  • all’UNPA - che doveva coordinare la difesa passiva e disseminare tra la popolazione la conoscenza dei pericoli della guerra aerea raccogliendo donazioni, supervisionando la costruzione di rifugi antiaerei, distribuendo mascherine antigas - non furono mai devoluti fondi in quantità sufficiente
  • mancava l’aiuto delle forze tedesche. Anche Mussolini si rifutava di chiedere troppo alla Germania.
    Goring dichiarò che avrebbe autorizzato il trasferimento di macchinari non strettamente indispensabili alla Germania. L’appoggio tedesco fu decisivo nel conflitto nel Mediterraneo e in Nord Africa. Ma quando la Germania concentrò le proprie energie in Russia, la responsabilità della difesa delle basi in Sicilia ricadde sulla Regia aeronautica italiana e gli attacchi aerei inglesi da Malta aumentarono.
    Gli aiuti diminuirono sempre di più dalla prima metà del 1943
  • gli Alleati (ma anche gli stessi prefetti italiani) facevano notare come non vi fosse una significativa opposizione da parte della popolazione civile, che era in passiva rassegnazione
  • mancavano tantissimi soldati (1 milione addirittura era riuscito inspiegabilmente a ottenere l’esenzione). Musolini rifiutò di militarizzare gli operai perché temeva l’impatto sociale e politico che avrebbe avuto un aumento dell’orario di lavoro
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Q

LA FORMAZIONE DEL CETO POLITICO FASCISTA

A

Secondo Matteo Di Figlia, la formazione del ceto politico fascista si deve leggere anche nei tratti di discontinuità tra le varie fasi del regime, che non conosce solamente la svolta normalizzatrice degli anni Venti.

Sull’esaltazione dello squadrismo convergevano PERSONE DIVERSISSIME, sia rivoluzionari della prima ora che discendenti di nobili casate, coinvolti nella vita del regime attraverso incarichi istituzionali.

Analizza le figure dei
- segretari del PNF
- federali
- prefetti

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Q

CHI ERANO I SEGRETARI DEL PNF?

A

Erano parte di coloro che svolsero un ruolo decisivo nella storia del regime. Un contributo alla marcia su Roma venne dal primo segretario del PNF, Michele Bianchi.
A lui seguirono Francesco Giunta (devastò l’Hotel Balkan), una gestione collegiale, Roberto Farinacci, Augusto Turati, Giovanni Giuriati, Achille Starace, Ettore Muti, Adelchi Serena, Aldo Vidussoni e Carlo Scorza.

Matteo Di Figlia menziona davvero tanti nomi, approfondisce anche molti profili biografici, ma se dovessimo tracciare un quadro d’insieme possiamo dire che erano uomini che:

  • avevano origini politiche disparate;
  • venivano per la maggior parte dal retroterra esperenziale della Grande guerra a causa dell’estrazione generazionale. La guerra rappresentò un momento di convergenza nella stessa area di persone originarie delle più disparate parti del paese. La maggior parte di loro proveniva dalla provincia, anche da centri piccolissimi;
  • ci fu un alto grado di mobilità: molti di loro si spostarono in gioventù dal Mezzogiorno verso il Nord (ma non solo), spesso per partecipare ai trasferimenti dei familiari
  • molti parteciparono alle vicende svoltesi intorno al confine nord–orientale subito dopo la guerra, come Muti, che raggiunse D’Annunzio a Fiume. Il fascismo stava formando le proprie personalità negli spazi ex imperiali dell’Europa centrale, luoghi di formazione delle nuove destre mobilitate in senso paramilitare;
  • entrarono quasi tutti in Parlamenti (tranne Cesare Rossi, che aveva fatto parte della gestione collegiale della segreteria dopo Giunta): c’era una certa porosità dei confini tra incarichi istituzionali e di partito;
  • molti di loro erano laureati (spiccano i giurisperiti) che vissero la loro professione in maniera diversa;
  • generalmente provenivano da ambienti di modeste condizioni economiche molto migliorate durante il regime;
  • alcuni di loro ebbero incarichi non politici, come di rappresentanza in organismi economici e finanziari;
  • molti guidarono il partito nei loro collegi perché attraverso il partito ci si muoveva (alcuni furono commissari straordinari di federazione); la direttrice in cui iniziarono a muoversi fu quella dalla provincia al centro;
  • lo squadrismo per loro era un passato legittimante: la maggior parte di loro aveva aderito al movimento mussoliniano in anni precoci, quando non c’erano differenze sostanziali tra fascisti e squadristi, e lo rivendicarono in libri, memorie, raccolte di articoli. Ecco perché tornarono a condividere gli stessi teatri bellici, come in Etiopia e in Spagna.
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LA POLITICA DELLE EPURAZIONI DI TURATI

A

Fu Turati ad avviare un ciclo di epurazioni consistenti quando sostituì Farinacci, interprete dello squadrismo che diede un impulso notevole alla centralizzazione.
Farinacci allora iniziò a raccogliere ogni tipo di informazione utile a travolgere il suo successore con la fiumana di uno scandalo: convinse l’amante di Turati a rilasciare dichiarazioni compromettenti circa la sua omosessualità. Questo periodo fatto di accanimenti e di calunnie, denunce e scandali che si riproducevano in dossier anonimi è chiamato «beghinismo».

La politica delle epurazioni cercava anche di risolvere il problema della composizione sociale delle nuove leadership locali: bisognava amalgamare la tradizione squadrista (che aveva avuto origine nei ceti medio o piccolo borghesi) con la ricerca di un sostegno tra le compagini notabilari o persino nobiliari.

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ESEMPI DI EPURAZIONE

A

FIRENZE:

  • Fu epurato il fascismo forte di Firenze dopo le violenze commesse nell’ottobre del 1925. Qui Tullio Tamburini, picchiatore, fu mandato in Libia. Fu epurata anche la federazione retta negli ultimi tempi da Dino Perrone Compagni, uno squadrista che si fregiava di un “insussistente” titolo nobiliare. La direzione della federazione fu affidata a un marchese vero, Luigi Ridolfi, che però aveva militato nelle squadre. Anche il federale successivo, Alessandro Pavolini, rampollo di una raffinata borghesia intellettuale, aveva una grande fascinazione per il fascismo squadrista della prima ora.

TORINO
- Qui si erano verificati fatti di sangue nel dicembre 1922, cui seguì un’inchiesta che mise in luce le responsabilità del leader locale Cesare M. De Vecchi, che venne spedito in Somalia. Anche il farinacciano e federale Tuninetti, sotto le epurazioni turatiane, fu mandato in Tripolitania come commissario straordinario per i Fasci dell’area. Si scelse anche qui una stabilizzazione aristocratica. Tuttavia, le origini aristocratiche di Carlo E. Basile, che fu nominato segretario federale di Novara (1926–1928) prima e di Torino poi (1928–1929), per l’allontanamento delle frange più estremiste in seguito alle forzate dimissioni di Farinacci volute da Mussolini, vanno tenute in conto per sottolineare l’enorme distanza che separava questo teorico punto di partenza da quello di arrivo, perché Basile aderì alle stagioni più estreme di un partito rivoluzionario: avviò polemiche contro gli industriali, si fece promotore di opere assistenziali a favore della classe operaia, nella Nazione operante del 1937 si ricordarono le sue «memorabili battaglie» contro i comunisti rossi, fu accusato, dopo la seconda guerra mondiale, fu vari crimini e deportazioni in Germania di migliaia di operai: la violenza era un sostrato ineliminabile per chi aderiva al fascismo.

AL SUD

  • qui il radicalismo diventava uno degli strumenti per difendere il proprio spazio da nuovi elementi esterni. Al sud molti intellettuali avevano creduto che il primo fascismo potesse rompere in maniera rivoluzionaria con il meccanismo di controllo del centro, ma dopo il 1922 lo scontro si spostò all’interno dell’universo fascista. Aurelio Padovani, legato a gruppi squadristici, si attestò su una linea di ferma intransigenza nei confronti dei nazionalisti, che raggiunse l’apice con la fusione tra PNF e Associazione nazionalista italiana del 1923, in seguito alla quale rassegnò le sue dimissioni. Morì nel 1926 in seguito alla caduta da un balcone, ma molto probabilmente fu eliminato.
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CHI ERANO I (SEGRETARI) FEDERALI IN BREVE?

A

Erano coloro che reggevano le federazioni, ovvero quelle articolazioni organizzative del PNF che riunivano più organizzazioni di livello inferiore (sezioni o simili) a un livello provinciale. Inquadravano a livello provinciale i fasci di combattimento.

La figura del federale cambiò nel tempo, sempre più vicina a quella del prefetto. Divenne una figura professionale, parte di un ceto di politici di mestiere, generalmente giovane e istruita che gestiva diverse federazioni e si spostava continuamente per le province della penisola.

1) Più della metà dei componenti del gruppo degli ultimi federali si definivano squadristi, anche se molti di loro erano nati in pieno Novecento. Forse si rifacevano più al mito fondativo del fascismo legato alla memoria dello squadrismo. Nei loro curriculum vitae venivano menzionate le esperienze di interventismo e di violenza, che evidentemente avevano una funzione legittimante.

2) Circa un decimo dei gerarchi di partito ricoprì anche cariche amministrative, soprattutto come podestà. Gli incarichi legali al PNF e quelli svolti presso amministrazioni locali erano interscambiabili (alcuni erano stati prima podestà, poi commissari straordinari o federali), altri erano anche imprenditori, come Italo Gazzano, che era imprenditore edile. Anche molti giovani gerarchi negli anni Trenta, dopo aver gestito i Fasci, evidente trampolino di lancio per carriere amministrative, assumevano il titolo di podestà. Poi magari tornavano a lavorare all’interno del PNF.

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CAMBIAMENTO NELLA FISIONOMIA DELLE FEDERAZIONI

A
  • Le 72 federazioni esistenti dal 1924 vennero rette in media da un numero di federali e commissari straordinari tra 12/13. Il fatto che ci fosse stato un fascismo antico nelle aree settentrionali non sempre comportava maggiore stabilità politica; anzi, poteva essere causa di continui rivolgimenti. Ci furono molti più commissari straordinari al Nord che nel Centro e nel Sud. I numeri cambiarono con la segreteria di Starace, quando il PNF aumentò enormemente i propri ambiti di competenza e gli equilibri delle federazioni si stabilizzarono: tra il 1932 e il 1943 in ogni provincia si arrivò a contare un’alternanza di circa 5 federali.
  • Col passare del tempo, sul finire del regime, le federazioni furono rette in preponderanza da personalità nate nell’Italia del Nord, risentendo delle origini centro–settentrionali del fenomeno fascista. C’è da dire però che il centro, e in particolare la Toscana, fornì al regime circa il 12% dei gerarchi censiti nel 1931 e una quota notevole della classe dirigente: questo perché rispetto al numero degli abitanti, nel centro c’erano molte province (quindi più segretari federali) che riunivano meno abitanti e che diventavano lo spazio che gruppi politici agguerriti potevano facilmente aggredire, proprio per il maggior numero di strutture provinciali del partito da potere e dovere organizzare.
    In proporzione, il Sud ha fornito, contando l’insieme dei gerarchi e dei segretari federali, una quantità di laureati molto maggiore di quella offerta dall’Italia settentrionale e centrale, anche perché qui era pressocché assente un notabilato squadrista cui attingere. Si iniziò a reclutare personale nello stesso modo in cui si reclutava la burocrazia statale, ovvero sulla base dell’istruzione. Però, in concomitanza con l’affievolirsi dell’impronta squadrista anche al Nord, nel gruppo degli utili due segretari federali aumentò di molto il numero di laureati provenienti dal Nord.

Più della metà dei componenti del gruppo degli ultimi federali si definivano squadristi, anche se molti di loro erano nati in pieno Novecento. Forse si rifacevano più al mito fondativo del fascismo legato alla memoria dello squadrismo. Nei loro curriculum vitae venivano menzionate le esperienze di interventismo e di violenza, che evidentemente avevano una funzione legittimante.

Circa un decimo dei gerarchi di partito ricoprì anche cariche amministrative, soprattutto come podestà. Gli incarichi legali al PNF e quelli svolti presso amministrazioni locali erano interscambiabili (alcuni erano stati prima podestà, poi commissari straordinari o federali), altri erano anche imprenditori, come Italo Gazzano, che era imprenditore edile. Anche molti giovani gerarchi negli anni Trenta, dopo aver gestito i Fasci, evidente trampolino di lancio per carriere amministrative, assumevano il titolo di podestà. Poi magari tornavano a lavorare all’interno del PNF.

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PREFETTI POLITICI: CHI ERANO?

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Quelli provienienti dalle fila del partito.

I prefetti furono molto politicizzati negli anni del fascismo, sia quelli politici ma anche quelli di carriera. Furono uno degli strumenti di cui si avvalse Mussolini per la politica di centralizzazione e rafforzamento del potere esecutivo. Una circolare del 1927 di Mussolini aveva stabilito che dovessero considerarsi le prime autorità locali.

I prefetti politici iniziarono a crescere (poco più di 100 a fronte di un numero complessivo di 443 prefetti in carica durante il ventennio). Erano generalmente più giovani di quelli di carriera, rispondevano al sottosegretario del Ministero dell’Interno e spesso erano in tensione con i federali; nel tentativo di gestire i conflitti con questi ultimi spesso scrivevano al segretario del PFNF Starace, rendendo ancora più osmotico il confine tra le catene di comando di Stato e partito.
Nel 1937 si stabilì che almeno i 3/5 delle sedi dovessero essere attribuiti però a prefetti di carriera, con l’intento di arginare le pressioni provenienti dal partito per l’occupazione dei posti prefettizi.
Rispetto agli anni Venti, si assistette a una desettentrionalizzazione del corpo prefettizio e a una sua meridionalizzazione: se nel 1921 35 su 82 prefetti totali provenivano dal Nord, nel 1941 non solo il numero totale dei prefetti aumentò di 20 (82 ––> 102), ma su quest’aggiunta pesò molto l’aumento di prefetti originari delle regioni centrali (da 11 ––> 29), e diminuì quello dei prefetti provenienti dal Nord.

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DISTRIBUZIONE DEI PREFETTI

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NORD: Il loro numero aumentò nelle province del Nord (durante il regime ce ne furono 325, contro i 291 del periodo precedente) e qui la loro carica era instabile (anche qui venivano cambiati più frequentemente i segretari federali).

PIANURA PADANA: Le zone dove il numero dei prefetti invece diminuì furono quelle zone dove era forte la tradizione fascista della prima ora, come Bologna, Cremona, Ferrara, Mantova.

NUOVE PROVINCE: La distribuzione dei prefetti è significativa: nelle province settentrionali di nuova formazione, per più della metà del periodo preso in considerazione (1930–luglio 1943) le province vennero affidate a prefetti politici. Il Mezzogiorno sfuggiva completamente a questo meccanismo. Evidentemente pesava la necessità di fascistizzare aree considerate difficili come quelle acquisite dopo il primo conflitto mondiale.

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PREFETTI DI CARRIERA: CHI ERANO?

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Erano uno degli strumenti di cui si avvalse Mussolini per la politica di centralizzazione e rafforzamento del potere esecutivo. Una circolare del 1927 di Mussolini aveva stabilito che dovessero considerarsi le prime autorità locali.

Il loro numero aumentò nelle province del Nord (durante il regime ce ne furono 325, contro i 291 del periodo precedente) e qui la loro carica era instabile (anche qui venivano cambiati più frequentemente i segretari federali).
Le zone dove il numero dei prefetti invece diminuì furono quelle zone dove era forte la tradizione fascista della prima ora, come Bologna, Cremona, Ferrara, Mantova.

Sebbene la grande rilevanza dei prefetti politici, anche i prefetti di carriera assunsero ruoli importanti, diventando uomini di fiducia di Mussolini, persino chi aveva osteggiato il fascismo, come Cesare Mori, che da prefetto di Bologna tentò di arginare le violenze squadriste. Fu ripescato dal governo fascista quando questi decise di avviare una campagna antimafia. Gli vennero attribuite la prefettura di Trapani e quella di Palermo, ma la sua azione difettava sul piano della fascistizzazione. Così la provincia palermitana fu in seguito affidata a prefetti politici come Umberto Albini e Giovanni Battista Marziali. Quest’ultimo, mentre reggeva, prima di quella di Palermo, la prefettura di Bolzano, si incrociò con un funzionario di pubblica sicurezza che si era formato con Cesare Mori, ovvero Giuseppe Gueli, che pur essendosi formato nel periodo liberale, nittiano e antisquadrista, divenne presto parte di un personale di pubblica sicurezza eccellente nelle operazioni di polizia criminale, di repressione dell’antifascismo e nella fascistizzazione della società.

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IN AUSTRIA, GERMANIA E NELLA PENISOLA IBERICA, DOPO LA MARCIA SU ROMA, A COSA SI GUARDAVA CON ATTENZIONE? (FASCINAZIONE PER IL FASCISMO)

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  • corporativismo: principale prodotto di esportazione
  • trasformazione autoritaria dello Stato
  • all’emulazione di quel doppio movimento legale e illegale della marcia su Roma: il putsch di Monaco e il colpo di Stato di Primo de Rivera
  • allo squadrismo e alla nascita della MVSN, con cui lo squadrismo entra nel corpo dello Stato
  • costruzione di un partito unico di massa (nella Spagna di Primo de Rivera)
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I TESTI DI AUTORI FIDATI E AMICI DEL REGIME E LE BIOGRAFIE SU MUSSOLINI CHE CIRCOLAVANO ALL’ESTERO

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  • Fascismo nella vita italiana di Pietro Gorgolini
  • quella di Margherita Sarfatti, scritta durante l’affaire Matteotti, dove M. viene presentato come una figura titanica in grado di competere con Lenin e come un eroe tranquillizzante. Si raccontano aneddoti significativi della sua vita
  • testi scritti da Mussolini stesso
  • un’autobiografia in realtà scritta da Arnaldo Mussolini
  • Vita di Arnaldo, composta dal duce
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IL CINEF

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Fu fondato a Losanna nel 1927.
Era uno dei primi centri di divulgazione e di propaganda del fascismo internazionale, apparentemente autonomo ma in realtà finanziato dall’Italia.
Era retto dall’olandese Herman de Vries de Heeklingen; segretario il britannico James Strachey Barnes che pubblicò nel 1928 “The Universal Aspects of Fascism”, in cui, pur ribadendo l’italianità del fenomeno, mise in luce al contempo il carattere universale dei suoi postulati dottrinari

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EVOLUZIONE DELLA CITTADINANZA IN LIBIA

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La poitica di espansione della nazione - e quindi della cittadinanza italiana in territori non abitati da italiani - sembrava cozzare con le future leggi razziali del 1938. In realtà no, perché la cittadinanza, coe dimostra l’esempio libico, era una categoria flessibile con cui segnalare la costante evoluzione del rapporto tra individui e Stato.

  • STATUTO 1913: “SUDDITI ITALIANI”. Erano sudditi, però erano designati come italiani, a differenza di eritrei e somali
  • STATUTI LIBICI 1919: “CITTADINI ITALIANI” a pieno titolo, equiparati ai metropolitani residenti in Libia. Godevano di diritti politici (potevano eleggere rappresentanti nei parlamenti locali), le entrate fiscali sarebbero state gestite all’intero del paese, erano esentati dagli obblighi militari, potevano continuare a osservare le leggi islamiche o ebraiche
  • FASCISMO: RITIRO DEGLI STATUTI LIBICI in seguito alle lotte di resistenza: “CITTADINI ITALIANI LIBICI”, senza diritti politici e con uno status nettamente inferiore rispetto alla popolazione metropolitana risiedente in colonia. Potevano ottenere la piena cittadinanza italiana, ma in questo modo avrebbero dovuto rinunciare ai propri statuti religiosi
  • QUANDO LA LIBIA DIVENNE PROVINCIA D’ITALIA NEL 1933: introduzione di una nuova “CITTADINANZA SPECIALE” che avrebbe permesso a libici e musulmani idonei di lavorare nell’amministrazione coloniale e ottenere dei gradi più alti nell’esercito italiano
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COSA C’ERA SCRITTO IN “LO STATO MUSSOLINIANO E LE REALIZZAZIONI DEL REGIME NELLA NAZIONE”?

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Veniva data voce a molti esponenti del governo e delle istituzioni, così come a molti rappresentanti dell’imprenditoria privata, che descrivevano il rapporto delle loro imprese con il fascismo in termini estremamente positivi

  • veniva descritta l’unità d’intenti del fascismo e la presenza di un mondo economico compatto e fedele al governo
  • obiettivi della diplomazia finanziaria internazionale
  • successi dello sviluppo interno che avrebbero portato il fascismo verso la modernità industriale: aveva placato la riottosità dei lavoratori, liberato l’attività economica, arrestando l’invadenza delle leggi e degli enti pubblici (ad esempio, aveva abolito il monopolio dell’INA sulle assicurazioni a vita, liberalizzando il settore assicurativo), avviato dei lavori pubblici, trasformato l’economia dello stato e progettato una terza via, quella del corporativismo, liquidato l’ordinamento liberale –> si evinceva quindi un rapporto di compenetrazione tra imprese e Stato, tra economia e politica, che più in avanti acquisì una forma ancora più coerente
  • alcuni punti programmatici del piano fascista: politica protezionistica, diminuzione delle importazioni, difesa delle esportazioni, aumento della produttività, difesa delle riserve nazionali, assorbimento del sindacalismo nello Stato (Patto Vidoni)
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IL RAPPORTO AMBIGUO DEL REGIME TRA RETORICA NAZIONALISTA E SCELTA LIBERISTA (BRUNO SETTIS)

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nonostante la retorica nazionalista e la politica del bastare a se stessi, il fascismo ebbe una posizione ambivalente davanti alla crisi: sebbene Gramsci nel 1933 descrivesse il sistema economico del regime come contraddittorio (c’era uno iato tra la vita economica, improntata all’internazionalismo e al cosmopolitismo, e la vita statale, sviluppatasi nel senso del nazionalismo)

1) si lanciò in una campagna per limitare la dipendenza dalle importazioni in determinati settori

2) ma rimase fermo nella linea di liberalizzazione davanti alla crisi almeno fino al 1934, quando prese corpo la svolta protezionistica, che portò a intensificare gli strumenti tradizionali del nazionalismo economico: spesso nei suoi discorsi Mussolini richiamava la dimensione internazionale; presenti rimanevano le imprese multinazionali, come la Saint-Gobain e la Siemens)