IL SOGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO Flashcards
Differenza tra soggetto e persona
Le situazioni giuridiche soggettive fanno capo a quelli che vengono definiti come soggetti. L’idoneità ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive, cioè ad essere soggetti, viene definita come capacità giuridica. La capacità giuridica, nel nostro ordinamento, compete non solo alle persone fisiche, ma anche agli enti e addirittura ad altre strutture organizzare che la legge tratta come autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive: si pensi, ad es alla rete iscritta nella sezione ordinaria del registro delle imprese, al condominio, ecc.
All’interno degli enti, occorre poi distinguere fra enti che sono persone giuridiche (ad es. associazioni riconosciute, società di capitali, enti pubblici) ed enti non dotati di personalità (ad es. associazioni non riconosciute, società di persone, ecc.). Entrambi sono soggetti di diritto. I primi, però, hanno autonomia patrimoniale perfetta (ossia, delle obbligazioni dell’ente risponde solo l’ente stesso con il proprio patrimonio), che difetta invece ai secondi.
I concetti di soggetto e di persona, dunque, non coincidono. Le persone - fisiche e giuridiche - sono soggetti, ma non esauriscono quest’ultima categoria, che comprende anche gli enti non dotati di personalità e gli altri centri autonomi di imputazione giuridica.
I diritti degli animali
Sebbene sempre più ricorrente sia, nel linguaggio comune, l’espressione diritti degli animali, come se questi ultimi potessero essere titolari di diritti, la giurisprudenza di legittimità ha ancora di recente avuto occasione di ribadire che - seppure negli ultimi anni il legislatore abbia accentuato le tutele pubblicistiche predisposte a favore degli animali - il diritto civile continua però a considerarli come mere cose mobili, beni giuridici che possono costituire oggetto di diritti reali o di rapporti negoziali, e non già, per quanto siano esseri viventi, come soggetti di diritto dotati della c.d. capacità giuridica.
La capacità giuridica della persona fisica
L’uomo - per il solo fatto della nascita - acquista la capacità giuridica e, conseguentemente, diviene soggetto di diritto.
E la Costituzione repubblicana - all’art. 22 - enuncia solennemente il principio secondo cui nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica.
La capacità giuridica, dunque, compete indifferentemente a tutti gli uomini (per tali intendendosi gli esseri umani, a prescindere da distinzioni di sesso).
Siffatto principio costituisce una conquista relativamente recente della civiltà giuridica occidentale. Senza necessità di risalire all’epoca romana (quando ad es. lo schiavo non era soggetto si diritto, ma oggetto di proprietà da parte del dominus), sarà sufficiente ricordare che ancora nel periodo immediatamente precedente la rivoluzione francese il diritto distingueva tra soggetti di religione cattolica, soggetti di religione protestante e, soprattutto, ebrei; tra soggetti nobili, soggetti borghesi, soggetti appartenenti al clero, soggetti servi; tra soggetti maschi e soggetti femmine: finendo con il delineare, per ciascuno, uno status giuridico differenziato.
È solo con la caduta dell’ancien regime che si affermava il rivoluzionario principio - di derivazione giusnaturalista ed illuminista - secondo cui gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Proprio nel solco della tradizione così inaugurata, l’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana proclama oggi solennemente che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E, in ossequio a detto principio, il legislatore è reiteratamente intervenuto per eliminare quelle limitazioni formali alla capacitò dei cittadini che erano state in passato introdotte nel nostro ordinamento sulla base della razza, del sesso, delle condizioni personali, ecc.
Peraltro, sempre più avvertita anche nella coscienza sociale è l’idea che il superamento delle limitazioni formali della capacità dei cittadini è condizione necessaria, ma non sufficiente per la completa attuazione del principio di eguaglianza. In quest’ottica, l’art. 3, comma 2, Cost. prevede testualmente che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Cos’è il codice delle pari opportunità?
È innegabile che il legislatore ordinario si sia mosso nella direzione indicata dalla Carta costituzionale. Ad es. ha varato il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, che non si limita a vietare atti discriminatori in ragione del sesso, ma prevede altresì azioni positive volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, culturale, sociale e civile o in ogni altro campo.
In un’ottica analoga si muove anche la discussa previsione delle c.d quote rosa che devono essere rispettate nella composizione degli organi amministrativi e di controllo delle società con azioni quotate in mercati regolamentati.
Capacità giuridica dello straniero
Capacità giuridica di diritto privato compete anche allo straniero: peraltro - dispone l’art. 16 preleggi - con il limite del rispetto del c.d. principio di reciprocità. L’applicazione del principio di reciprocità può risolversi in forme di limitazioni, anche pesanti, della capacità dello straniero, non cittadino di Stati membri dell’Unione europea, di godere dei diritti civili in Italia.
Ora, però, il generale riferimento al principio di reciprocità non compare più nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il quale prevede piuttosto che allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. E la giurisprudenza afferma che un’interpretazione dell’art. 16 preleggi, condotta alla luce dei principi di cui gli artt. 2,3,10 Cost (c.d. interpretazione costituzionalmente orientata), induce alla conclusione che i diritti inviolabili della persona umana sono riconosciuti dal nostro ordinamento in favore di chiunque, cittadino o straniero (anche extracomunitario), indipendentemente dal riconoscimento di egual diritto in favore del cittadino italiano nello Stato cui appartiene lo straniero.
Quando si ha la nascita?
Si ha nascita - secondo la scienza medico-legale - con l’acquisizione della piena indipendenza dal corpo materno che si realizza con l’inizio della respirazione polmonare, mentre le funzioni circolatoria e nervosa preesistono. Conseguentemente, nel dubbio se il feto sia nato morto o se la morte sia sopravvenuta dopo la nascita, sarà necessario accertare se i polmoni hanno respirato o meno (facendo ricorso ai criteri medico-legali della c.d. docimasia polmonare).
La nascita è condizione necessaria, ma anche sufficiente per l’acquisto della capacità giuridica. In particolare, non occorre la validità (ossia l’idoneità fisica alla sopravvivenza). Se il neonato è morto subito dopo la nascita, ha acquisito - sia pure per qualche momento soltanto - la capacità giuridica, con quel che ne consegue (ad es. è chiamato alla successione del padre che sia premorto).
Entro dieci giorni, l’evento della nascita deve essere - da uno dei genitori, da un procuratore speciale, o dal medico o dall’ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto - dichiarato all’ufficiale dello stato civile per la formazione dell’atto di nascita. Se la nascita avviene in un ospedale o in una casa di cura, la dichiarazione può essere resa - entro tre giorni - presso la relativa direzione sanitaria, che provvederà alla sua trasmissione all’ufficiale dello stato civile.
Quando si ha la morte?
Si ha morte con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Tale ultima previsione normativa, estranea al codice, è resa necessaria ( anche per fissare l’esatto momento a partire dal quale è possibile procedere al prelievo di organi e tessuti a fini di trapianto terapeutico) per la sempre più accentuata labilità del confine tra la vita e la morte - tradizionalmente fatto coincidere con l’esalazione dell’ultimo respiro e la cessazione del battito cardiaco - in conseguenza dell’evolversi delle tecniche di rianimazione, che consentono di sostenere artificialmente, e per lungo tempo, l’attività respiratoria e circolatoria dell’organismo.
L’accertamento della cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo avviene con le modalità via via definite - tenendo conto delle sempre nuove acquisizioni della scienza medica - con decreto del Ministro della Salute.
Entro le ventiquattro ore dal decesso, la morte è - da uno dei congiunti o da una persona convivente con il defunto o da un loro delegato o, in mancanza, da persona informata del decesso; o, se la morte è avvenuta in un ospedale, casa di cura o riposo, ecc., dal relativo direttore - dichiarata all’ufficiale di stato civile per la formazione dell’atto di morte.
Allorquando vi sia incertezza in ordine alla sopravvivenza di una persona rispetto ad un’altra - in genere, perché le stesse sono perite in un unico contesto (ad es., sinistro stradale, crollo di una casa, incendio, terremoto, ecc.) - la legge presume, fino a prova contraria (che può essere fornita con qualunque mezzo), che le stesse siano morte contestualmente; cioè, che nessuna sia sopravvissuta all’altra: c.d. presunzione di commorienza.
Con la morte, alcuni rapporti facenti capo al defunto si estinguono (ad es. il matrimonio; l’unione civile tra persone dello stesso sesso; il contratto di convivenza); altri possono essere sciolti ad iniziativa degli eredi del defunto e/o ad iniziativa dell’altra parte. I diritti patrimoniali si trasmettono, di norma, secondo le regole del codice dettate per la successione a causa di morte. La tutela degli interessi non patrimoniali (ad es. quelli legati alle spoglie mortali, all’integrità morale, al nome, alla riservatezza, all’immagine, all’identità personale) è di regola affidata - in difetto di manifestazione di volontà espressa al riguardo, in vita, dal diretto interessato - al coniuge superstite e/o ai prossimi congiunti.
Le incapacità speciali
La nascita è condizione sufficiente per far acquisire alla persona fisica la capacità giuridica generale: ossia, la capacità di essere titolare di tendenzialmente tutte le situazioni giuridiche soggettive connesse alla tutela dei propri interessi.
Peraltro, per l’accesso a taluni rapporti, non è sufficiente la nascita, ma è richiesto il concorso di altri presupposti (così, ad es., la capacità matrimoniale si acquista al momento del compimento del sedicesimo anni d’età): se detti presupposti non sussistono, il soggetto non può essere parte di quel determinato rapporto o atto
Dette incapacità si distinguono, tradizionalmente in:
a) assolute, se al soggetto è precluso quel dato tipo di rapporto o di atto;
b) relative, se al soggetto è precluso quel dato tipo di rapporto o di atto, ma solo con determinate persone o solo in determinate circostanze;
In tutti questi casi, tradizionalmente, si ravvisa una limitazione della capacità giuridica - c.d. incapacità speciali - in quanto, da un lato, il rapporto non è accessibile al soggetto neppure attraverso l’intervento di un rappresentante e, dall’altro lato, l’atto eventualmente compiuto in violazione del divieto è nullo e non già semplicemente annullabile (come dovrebbe invece essere, se si trattasse di incapacità di agire).
All’ipotesi di incapacità fa oggi sempre più ampio ricorso il legislatore penale, a titolo di pena accessoria per chi si sia macchiato di determinati reati. Si pensi all’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ( che priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore) comminata a chi sia stato condannato alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazioni dei doveri inerenti all’ufficio; all’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (che importa il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio) comminata a chi sia stato condannato per uno dei delitti di cui all’art. 32- quarter c.p.)
La capacità giuridica del nascituro
La nascita è condizione necessaria per far acquisire alla persona fisica la capacità giuridica generale.
Indiscussa e indiscutibile è la rilevanza, nel nostro ordinamento, anche di chi, seppure non ancora nato, sia però concepito. Già nell’ormai lontano 1975 la Corte costituzionale aveva evidenziato come la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale: infatti l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito.
Quanto alla legislazione ordinaria, si può utilmente ricordare che la L. 18 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), enuncia testualmente - al suo art. 1, comma 1 - il principio secondo cui vengono assicurati i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il nascituro; che la L. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) statuisce testualmente - al suo art. 1, comma 1 - che lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio, cioè fin dal momento del concepimento; che la L. 29 luglio 1975, n. 405 (Istituzione dei consultori familiari) - al suo art. 1, lett. c) - indica, tra gli scopi dei consultori familiari, quello della tutela della salute del prodotto del concepimento.
Peraltro, già lo stesso codice civile attribuisce al concepito:
a) la capacità di succedere per causa di morte, sia per legge che per testamento (così, ad es., se il padre muore dopo il concepimento, ma prima della nascita del figlio, l’eredità si devolve anche a favore di quest’ultimo, seppure non ancora nato all’epoca dell’apertura della successione);
b) la capacità di ricevere per donazione (cos’, ad es., il nonno può effettuare una donazione a favore del nipote, quando ancora è nel ventre materno);
i) la risarcibilità del danno alla salute ed all’integrità fisica eventualmente cagionato al nascituro (ad es,. dalla condotta imperita dell’ostetrico) prima o durante il parto;
ii) la risarcibilità del danno sofferto a seguito dell’uccisione del padre ad opera di un terzo (ad es., in un incidente stradale causato dall’imprudenza di quest’ultimo), quando ancora la gestazione era in corso.
La Suprema Corte ha altresì affermato che la presenza di nascituri concepiti - non diversamente dalla presenza di figli minori - osta alla cessazione del fondo patrimoniale.
Ovviamente, i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita: potranno, cioè, essere fatti valere solo se e quando avvenga la nascita; altrimenti dovranno considerarsi come mai entrati nella sua sfera giuridica.
Alla luce di ciò, si discute se il concepito abbia una propria capacità giuridica, sia pure parziale e condizionata (c.d. capacità giuridica prenatale) - o, comunque, una sua autonoma soggettività giuridica - o se lo stesso sia semplicemente oggetto di tutela.
La capacità di succedere per testamento e di ricevere per donazione è riconosciuta anche a chi non sia stato neppure ancora concepito, ma sia figlio di una determinata persona fisica vivente al momento dell’apertura della successione del testatore o al momento della donazione.
In cosa consiste la capacità di agire?
Con la nascita la persona fisica acquista la capacità giuridica generale (ossia, l’idoneità ad essere titolare di diritti, doveri, ecc.). Siffatta idoneità si concretizza immediatamente, sempre all’atto della nascita, con l’acquisto - automatico e necessario - dei c.d. diritti della personalità (ad es., i diritti alla vita, all’integrità fisica, all’integrità morale, ecc.). Solo eventuale è invece l’acquisto, con la nascita, dei diritti patrimoniali (ad es., per successione mortis causa in ipotesi del decesso del padre durante il periodo di gestazione del figlio).
Peraltro, non sempre la persona fisica è in grado - per giovane età, per malattia, per decadimento delle facoltà intellettive e/o volitive in conseguenza dell’età, ecc. - di gestire in prima persona le situazioni giuridiche che alla stessa pur fanno capo (così, ad es., un bimbo di tre anni non è materialmente in grado di rivolgersi ad un giudice per reagire alla pubblicazione abusiva della propria immagine nell’ambito di una campagna pubblicitaria di prodotti per la prima infanzia).
Ecco perché la legge richiede, affinché possa compiere personalmente e autonomamente atti di amministrazione dei propri interessi, che il soggetto abbia - oltre che la capacità giuridica - anche la c.d. capacità di agire: per tale intendendosi l’idoneità a porre in essere in proprio atti negoziali destinati a produrre effetti nella sua sfera giuridica (c.d. capacità negoziale).
La capacità d’agire presuppone la capacità giuridica, ma non si confonde con essa: anche quando difetta di capacità d’agire, il soggetto è pur sempre dotato di capacità giuridica.
La capacità d’agire si acquista, come regola generale, al raggiungimento della maggiore età, cioè al compimento del diciottesimo anno.
Può peraltro accadere che, nonostante la maggiore età, la persona fisica si ritrovi - per le ragioni più varie (ad es., malattia fisica o mentale, situazioni di disagio psichico, ubriachezza, assunzione di sostanze stupefacenti, ecc.) - a non avere quella capacità di discernimento che è invece normale attendersi in un individuo adulto e maturo. Di qui la necessità di apprestare - a protezione di detti soggetti - strumenti di salvaguardia contro il rischio che gli stessi possano porre in essere atti negoziali destinati ad incidere negativamente sui loro interessi (ad es., svendere la propria casa, fare acquisti sconsiderati, prestare denaro senza garanzie, ecc.).
A protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, il codice civile prevede gli istituti:
a) della minore età;
b) dell’interdizione giudiziale;
c) dell’inabilitazione;
d) dell’emancipazione;
e) dell’amministrazione di sostegno;
f) dell’incapacità di intendere e di volere (c.d. incapacità naturale).
Ad una logica non già di protezione, bensì ad una logica sanzionatoria risponde invece l’istituto dell’interdizione legale. Da non confondere con la capacità negoziale sono:
- da un lato, la capacità extracontrattuale: mentre la prima riguarda l’idoneità del soggetto a compiere personalmente atti di autonomia negoziale (ad es., vendere, comprare, dare in locazione, prendere o dare a mutuo, ecc.), la seconda riguarda l’idoneitò del soggetto a rispondere delle conseguenze dannose degli atti dallo stesso posti in essere (ad es., delle lesioni cagionate a terzi investiti sulle strisce pedonali);
- dall’altro alto, la capacità di porre in essere ( o ricevere) atti giuridici in senso stretto (ad es., la richiesta di risarcimento dal danneggiato rivolta al danneggiante), che - secondo la giurisprudenza di legittimità - possono essere validamente compiuti anche dall’incapace, sempre che dagli stessi non possano derivargli effetti sfavorevoli (ad es. la perdita di un diritto o l’assunzione di un obbligo): si pensi alla richiesta di riparazione del danno sofferto, che varrà ad interrompere la prescrizione del diritto risarcitorio dell’incapace.
La minore età
La capacità di agire presuppone che il soggetto sia in grado di curare autonomamente i propri interessi e che, a tal fine, abbia raggiunto la necessaria maturità. Sarebbe peraltro fonte di infinite incertezze e contestazioni se si dovesse andare a verificare, caso per caso, a quale età il singolo è concretamente pervenuto ad un grado di avvedutezza sufficiente per gestire direttamente i propri affari. La legge fissa perciò, con criterio generale, un’età, eguale per tutti, al cui raggiungimento reputa che la persona fisica abbia acquisito la capacità e l’esperienza necessarie per assumere validamente ogni decisione che la riguarda: la maggiore età - statuisce infatti l’art. 2 c.c. - è fissata al compimento del diciottesimo anno.
Prima di quel momento, il soggetto è legalmente incapace, quand’anche dovesse aver acquisito un elevato grado di maturità; dopo quel momento, il soggetto è legalmente capace, quand’anche, per una qualsiasi ragione, dovesse non aver raggiunto i livelli di maturità normali per la sua età.
Con la maggiore età, la persona acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia richiesta un’età diversa.
A quest’ultimo proposito, si ricordi - ad es. - che:
- il minore ultrasedicenne è ammesso a stipulare in proprio il contratto di lavoro ed è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono da detto contratto;
- il minore ultrasedicenne, giudizialmente ammesso al matrimonio, è chiamato a prestare in prima persona il consenso alle nozze;
- il minore ultrasedicenne - e se autorizzato dal giudice anche prima del compimento dei sedici anni - effettua direttamente il riconoscimento del figlio naturale;
- l’autore di un’opera dell’ignegno che abbia compiuto i sedici anni ha la capacità di compiere tutti gli atti giuridici relativi alle opere dallo stesso creare e di esercitare le azioni che ne derivano;
- il minore è ammesso a richiedere personalmente la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile;
- il minore che faccia uso di sostanze stupefacenti e di sostante psicotrope può chiedere personalmente di essere sottoposto ad accertamenti diagnostici e di eseguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo;
- il minore ultraquattordicenne può esprimere personalmente il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione.
Di regola, invece il minore non solo non può stipulare direttamente gli atti negoziali destinati ad incidere sulla propria sfera giuridica, ma neppure può decidere il loro compimento.
Gli atti eventualmente posti in essere dal minore sono annullabili. Non importa se, nel caso concreto, il minore abbia raggiunto una maturità che gli consenta di apprezzare utilità e rischi dell’atto: esso è comunque annullabile per il solo fatto di essere stipulato da un minore, salvo che quest’ultimo non abbia, con radici idonei a trarre in inganno il terzo, occultato la propria minore età.
L’atto posto in essere dal minore può essere impugnato entro cinque anni dal raggiungimento, da parte del minore stesso, della maggiore età. L’imoegnativa può, però, essere proposta solo dal rappresentante legale del minore o direttamente da quest’ultimo, una volta divenuto maggiorenne; non dalla controparte: si parla, al riguardo, di negozi claudicanti. Ciò, in quanto la legge intende tutelare il minore contro rischi di un atto improvvidamente assunto, non da chi - maggiorenne, e quindi dalla legge ritenuto legalmente capace - abbia stipulato con il minore. La scelta di mantenere o meno in vita l’atto stipulato dal minore è, quindi, rimessa ad una valutazione di convenienza fatta, prima, dal legale rappresentante del minore, poi, dal minore stesso, una volta raggiunta la maggiore età.
Se l’atto è annullato per sua incapacità legale, il minore ha diritto alla restituzione di quanto prestato in esecuzione di esso, mentre è tenuto a restituire la prestazione ricevuta solo nei limiti in cui essa è stata rivolta a suo vantaggio.
L’art. 1425, comma 1, c.c. statuisce - senza operare distinzioni di sorta - che il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare. Peraltro, nella quotidianità i minori vengono normalmente ammessi a stipulare tutta una serie di contratti, senza che nessuno si sogni di imputare detti atti.
In realtà - essendo l’istituto della minore età funzionale alla protezione del minore contro il rischio che lo stesso ponga in essere atti pregiudizievoli alla propria persona o al proprio patrimonio - devono ritenersi a quest’ultimo accessibili tutti quegli atti che siano necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana in relazione all’età raggiunta: diversamente, l’istituto della minore età finirebbe con il trasformarsi da istituto di protezione in strumento di emarginazione del minore dal consorzio sociale.
La gestione del patrimonio del minore (c.d. potere di amministrazione) ed il compimento di ogni atto relativo (c.d. potere di rappresentanza) competono in via esclusiva ai genitori :
a) disgiuntamente, per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione (per tali intendendosi quelli che non comportano rischi per l’integrità del patrimonio);
b) congiuntamente - di comune accordo - per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione (per tali intendendosi quelli suscettibili di incidere in termini significativi sulla struttura e/o sulla consistenza del patrimonio), nonché gli atti con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento.
Peraltro - al fine di controllare preventivamente che gli atti maggiormente rischiosi per il patrimonio del minore siano effettivamente funzionali ai suoi interessi - la legge richiede che, per il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, i genitori si muniscano della preventiva autorizzazione del giudice tutelare.
Gli atti posti in essere dai genitori in assenza della richiesta autorizzazione sono annullabili su istanza dei genitori stessi o del figlio, una volta divenuto maggiorenne.
Se uno dei genitori è morto o impossibilitato ad esercitare la responsabilità genitoriale sul figlio, l’amministrazione del suo patrimonio e la relativa rappresentanza competono, in via esclusiva, all’altro genitore.
Se entrambi i genitori sono morti o per altra causa non possono esercitare la responsabilità genitoriale, la gestione del patrimonio del minore e la relativa rappresentanza competono ad un tutore nominato dal giudice tutelare.
Offrendo il tutore minori garanzie, rispetto ai genitori, in ordine all’esclusivo perseguimento degli interessi del minore, la legge richiede che lo stesso debba munirsi della preventiva autorizzazione del giudice tutelare per il compimento degli atti indicati dall’art. 374 c.c. e - addirittura - della preventiva autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti di cui all’art. 375 c.c.
In sintonia con indicazioni in tal senso provenienti da fonti extrastatuali con sempre maggior frequenza il legislatore nazionale espressamente prevede che, ove capace di discernimento, il minore abbia diritto di essere ascoltato nell’ambito di procedimenti giudiziari e amministrativi, nei quali debbono essere adottati provvedimenti che lo riguardano.
Per taluni atti che lo riguardano è talora chiesto il consenso del minore: così, ad es., il riconoscimento del figlio che ha compiuto quattordici anni non produce effetto senza il suo consenso; l’azione per ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità non può essere promossa o perseguita senza il consenso del figlio che abbia compito i quattordici anni; l’adozione non può essere pronunciata se il minore che abbia compito quattordici anni non presta personalmente il proprio consenso.
L’interdizione giudiziale
L’interdizione è pronunciata con sentenza dal tribunale, allorquando ricorrono congiuntamente i seguenti presupposti:
a) infermità mentale, per tale intendendosi una malattia che mini profondamente il soggetto nella sua sfera intellettiva e/o volitiva, sì da non consentirgli di esprimere una volontà liberamente e consapevolmente maturata;
b) abitualità di detta infermità, per tale intendendosi un’infermità non transitoria (non sarebbe sufficiente, ad es., un esaurimento nervoso destinato a risolversi in un breve arco di tempo); non si richiede, tuttavia, né che la malattia sia irreversibile e/o incurabile, né che privi continuativamente il soggetto della capacità di intendere e di volere, senza lasciargli lucidi intervalli;
c) incapacità del soggetto, a causa di detta infermità, di provvedere ai propri interessi: poiché, ai fini dell’interdizione, l’infermità di mente rileva non già in sé, ma per il fanno che la stessa incide sull’attitudine del soggetto a gestire autonomamente i propri affari, una medesima malattia può giustificare l’interdizione di chi abbia cospicui e complessi interessi e non invece l’interdizione di chi non abbia interessi che richiedano significativi atti di gestione; si tenga peraltro presente che gli interessi rilevanti ai fini dell’interdizione sono non sono quelli economici, ma anche quelli extrapatrimoniali;
d) necessità di assicurare al soggetto un’adeguata protezione: sicché di potrà procedere all’interdizione solo allorquando risultino non idonei e/o non sufficienti gli altri - meno drastici ed invasivi - strumenti di protezione dell’incapace pur previsti dall’ordinamento: c.d. carattere residuale della misura dell’interdizione.
L’interdizione può essere pronunciata solo a carico del maggiore di età, essendo il minorenne già legalmente incapace - e, quindi, tutelato dall’ordinamento - in quanto tale. Peraltro, onde evitare soluzioni di continuità nella protezione, il soggetto può essere interdetto nell’ultimo anno della sua minore età, seppure l’interdizione sia comunque destinata ad avere effetto solo dal giorno in cui il minore raggiunge l’età maggiore.
Il procedimento di interdizione può essere promosso, di regola, dallo stesso interdicendo, dal coniuge, dal partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, o dal pubblico ministero.
Fase centrale del procedimento di interdizione è l’esame diretto dell’interdicendo da parte del giudice, che peraltro può farsi assistere da un consulente tecnico.
Dopo detto esame, il giudice può nominare, ove lo ritenga opportuno, un tutore provvisorio dell’interdicendo. In quest’ultimo caso, nelle more del giudizio di interdizione, l’interdicendo è legalmente rappresentato dal tutore provvisorio e, in caso di successiva interdizione, gli atti eventualmente compiuti in prima persona dall’interdicendo dopo la nomina del tutore provvisorio sono annullabili.
Gli effetti dell’interdizione decorrono al momento della pubblicazione della sentenza di primo grado, ancorché non passata in giudicato, che pronuncia l’interdizione stessa. La sentenza viene annotata dal cancelliere nel registro delle tutele e comunicata, entro dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile per essere annotata a margine dell’atto di nascita.
L’interdetto si trova in una condizione per molti versi non dissimile da quella in cui si trova il minore: non può compiere direttamente alcun atto negoziale, se non quello necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana; se compie atti negoziali, gli stessi sono annullabili ed il relativo procedimento può essere promosso - dal tutore o dallo stesso interdetti, una volta revocata l’interdizione - entro cinque anni dalla cessazione dello stato di interdizione. La gestione del patrimonio dell’interdetto e gli atti negoziali ad esso relativi sono compiuti, nell’interesse ed in vece dello stesso interdetto, da un tutore nominato dal giudice, ferma restando l’esigenza dell’autorizzazione da parte del giudice e del tribunale per il compimento degli atti di cui, rispettivamente, agli artt. 374 e 375 c.c. Il tutore può altresì compiere - in nome proprio e per conto dell’interdetto, e sempre che ne sia accertata la necessità per un’adeguata protezione degli interessi di quest’ultimo - anche gli atti personalissimi, che non siano espressamente preclusi all’interdetto.
Peraltro il giudice - con la sentenza che pronuncia l’interdizione o con un successivo autonomo provvedimento - può prevedere che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti autonomamente dall’interdetto, o da quest’ultimo con l’assistenza del tutore.
In ogni caso, l’interdizione preclude al soggetto il matrimonio, l’unione civile fra persone dello stesso sesso, l’amministrazione dei cespiti oggetto di comunione legale tra coniugi o uniti civilmente, il riconoscimento dei figli naturali, la possibilità di fare testamento o di donare, l’assunzione della carica di amministratore o di sindaco di società per azioni. Legittima la richiesta, in danno dell’interdetto, della separazione giudiziale dei beni, estintiva del regime di comunione legale tra coniugi o uniti civilmente, così come la richiesta di esclusione dalla società di persone e dalla società cooperativa. Le eredità devolute all’interdetto non si possono accettare, se non con il beneficio d’inventario. Il contratto d’affitto si scioglie per interdizione dell’affittuario; il contratto di mandato di scioglie per interdizione del mandante così come del mandatario.
L’interdetto non può stare in giudizio, se non rappresentato dal tutore.
Se e quando dovessero venir meno i presupposti che hanno condotto all’interdizione, quest’ultima può essere revocata - su istanza del coniuge, del partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado, del tutore o del pubblico ministero - con sentenza del tribunale. Detta sentenza produce i suoi effetti solo con il passaggio in giudicato.
Il tribunale, in sede di revoca dell’interdizione, può - ove ne ricorrano i presupposti - dichiarare il soggetto inabilitato, o trasmettere gli atti al giudice tutelare perché apra una procedura di amministrazione di sostegno.
L’interdizione legale
Il codice penale prevede come pena accessoria ad una condanna definitiva all’ergastolo o alla reclusione, per reati non colposi, per un tempo non inferiore a cinque anni - la c.d. interdizione legale.
L’stituto ha, dunque, funzione sanzionatoria (tant’è che viene a colpire soggetti di norma perfettamente in grado di intendere e di volere).
Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, l’interdetto legale si trova, durante la pena, nella medesima condizione in cui si trova l’interdetto giudiziale: non potrà, perciò, compiere atti dispositivi del proprio patrimonio; gli atti che avesse a compiere sarebbero annullabili; l’amministrazione del suo patrimonio e la rappresentanza per il compimento dei relativi atti competeranno ad un tutore, ecc. Con una differenza, però: l’annullabilità degli atti compiuti dall’interdetto legale può essere fatta valere non solo dall’interdetto stesso e/o dal suo tutore; bensì da chiunque vi abbia interesse: c.d. annullabilità assoluta. La diversità di regola si giustifica per il fatto che - mentre l’annullabilità relativa degli atti dell’incapace è dal legislatore preordinata alla tutela dell’incapace stesso, onde evitare che quest’ultimo possa trovarsi vincolato da negozi che ha posto in essere senza la necessaria lucidità e consapevolezza - l’annullabilità assoluta degli atti dell’interdetto legale è prevista come sanzione, a tutela di un interesse generale: conseguentemente, può essere fatta valere da chiunque.
Per quanto riguarda, invece, gli atti a carattere personale (ad es., matrimonio, testamento, riconoscimento del figlio naturale, ecc.) nessuna incapacità consegue all’interdizione legale.
L’inabilitazione
L’inabilitazione è pronunciata con sentenza dal tribunale, allorquando ricorra - alternativamente - uno dei seguenti presupposti:
a) infermità di mente non talmente grave da far luogo all’interdizione (per tale intendendosi quella che incida negativamente sulla capacità del soggetto di attendere personalmente ai propri affari, senza però privarlo completamente della capacità di intendere o di volere);
b) prodigalità (per tale intendendosi un impulso patologico che incida negativamente sulla capacità del soggetto di valutare la rilevanza economica dei propri atti, sì da spingerlo allo sperpero), sempre che lo induca ad esporre sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici; ovviamente non rileva, ai fini dell’inabilitazione, una consapevole e matura scelta di vita che comporti il distacco dai beni terreni, così come una ponderata volontà di procedere alla distribuzione in vita di una parte dei propri averi a persone vicine e/o a cui si deve gratitudine;
c) abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, sempre che induca il soggetto ad esporre sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici;
d) sordità o cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, sempre che il soggetto non abbia ricevuto un’educazione sufficiente a fargli acquisire la capacità necessaria per attendere personalmente ai propri affari.
Il procedimento di inabilitazione ricalca quello dell’interdizione. Del pari. il procedimento di revoca dell’inabilitazione ricalca quello di revoca dell’interdizione.
L’inabilitato può autonomamente compiere gli atti di ordinaria amministrazione. Per gli atti di straordinaria amministrazione, necessita invece dell’assistenza di un curatore nominato da giudice: deve cioè compiere l’atto unitamente al curatore. Il curatore non si sostituisce - come accade invece per i genitori, in caso di minore età, e per il tutore in caso di interdizione - all’incapace, ma integra la volontà di quest’ultimo, previo ottenimento dell’autorizzazione giudiziale.
L’assistenza del curatore è altresì sempre necessaria perché l’inabilitato possa stare in giudizio.
Peraltro il giudice - con la sentenza che pronuncia l’inabilitazione o con un successivo provvedimento - può prevedere che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere autonomamente compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore.
L’emancipazione
Il minore ultrasedicenne, autorizzato dal tribunale a contrarre matrimonio, con le nozze acquista autonomamente l’emancipazione, così sottraendosi alla disciplina della minore età.
L’istituto dell’emancipazione ha oggi un’applicazione pratica del tutto marginale, posto che i tribunali adottano una linea progressivamente sempre più restrittiva in ordine all’ammissione al matrimonio dell’infradiciottenne.
La condizione giuridica dell’emancipato è analoga a quella dell’inabilitato: può compiere autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione necessita l’assistenza di un curator, munito di previa autorizzazione dell’autorià giudiziaria. Gli atti di straordinaria amministrazione eventualmente compiuti dall’emancipato senza l’assisrenza del curatore sono annullabili.
Se l’emancipato è sposato con persona di maggiore età, quest’ultima ne è il curatore; se è invece sposato con persona anch’essa minore di età, il giudice tutelare può nominare ad entrambi un unico curatore, scegliendo preferibilmente tra i genitori.
L’annullamento del matrimonio per causa diversa dal difetto di età, così come l’eventuale scioglimento del matrimonio, non fa venir meno l’emancipazione.
Lo stato di emancipazione cessa - ovviamente - con il raggiungimento della maggiore età.
L’amministrazione di sostegno
L’amministrazione di sostegno si apre con decreto motivato del giudice tutelare, allorquando ricorrano - congiuntamente - i seguenti presupposti:
a) infermità o menomazione fisica o psichica della persona: c.d. presupposto oggettivo;
b) impossibilità per il soggetto, a causa di detta infermità o menomazione, di provvedere ai propri interessi: c.d. presupposto soggettivo.
Analogamente a quanto si è visto con riferimento all’interdizione, l’infermità o menomazione psichica o fisica rilevano, ai fini dell’apertura dell’amministrazione di sostegno, non già in sé, ma per il fatto che si traducano, per il soggetto, nell’impossibilità, anche solo parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, anche non patrimoniali. Ciò comporta, ad es., che una medesima infermità psichica - che può legittimare l’interdizione di chi abbia vasti e complessi interessi - può giustificare invece solo l’amministrazione di sostegno del soggetto cui facciano capo interessi semplici e circoscritti.
Occorre osservare che - rispetto ai presupposti per la pronuncia di interdizione - ai fini dell’apertura della procedura di amministrazione di sostegno:
- rileva non solo una infermità di mente, ma anche una semplice menomazione psichica (per tale intendendosi quella situazione di disagio che non si traduce in una vera e propria malattia: si pensi, ad es., all’anziano non affetto da demenza senile, ma che veda però affievolite le proprie facoltà intellettive o la memoria);
- rileva non solo una infermità o menomazione psichica, ma anche un’infermità o menomazione fisica (per tale intendendosi quella che, pur senza colpire la sfera intellettiva o volitiva, preclude però al soggetto, in tutto ad anche solo in parte, l’autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana (si pensi, ad es., al soggetto che, seppure psichicamente capace, sia portatore di handicap);
- rileva non solo una infermità o menomazione abituale, ma anche un’infermità o menomazione temporanea: tant’è che l’amministratore di sostegno può essere nominato a tempo determinato;
- rileva non solo una infermità o menomazione che coinvolga integralmente la sfera psichica o fisica del soggetto, sì da privarlo della complessiva capacità di gestire i propri interessi, ma anche un’infermità o menomazione che incida su taluni profili soltanto della sua personalità (si pensi, ad es., al soggetto che, pur dotato di capacità di gestire i propri affari superiore alla media, sia però irresistibilmente schiavo del demone del gioco d’azzardo);
- rileva - esattamente come per l’interdizione - anche l’abituale infermità di mente, con l’avvertenza però che, di fronte ad una patologia che legittimerebbe sia una pronuncia di interdizione sia l’apertura di un’amministrazione di sostegno, la prima alternativa è praticabile solo allorquando lo strumento di protezione costituito dall’amministrazione di sostegno risulti inidoneo ad assicurare adeguata protezione agli interessi dell’incapace: c.d. carattere residuale dell’interdizione.
L’amministrazione di sostegno può essere aperta, di regola, solo nei confronti del maggiore età, essendo il minorenne già tutelato in quanto tale. Peraltro, onde evitare soluzioni di continuità con tale ultima misura di protezione, il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno può essere emesso nell’ultimo anno della minore età dell’interessato, pur divenendo esecutivo solo nel momento in cui lo stesso compia il diciottesimo anno.
Il procedimento di amministrazione di sostegno può essere promosso dallo stesso beneficiario (anche se minore, interdetto o inabilitato), dal coniuge, dal partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o dal curatore, dal pubblico ministero, nonché dai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura della persona. Fase centrale del procedimento di amministrazione di sostegno è l’audizione personale dell’interessato da parte del giudice, che a tal fine deve recarsi, ove occorra, nel luogo in cui questo si trova: la legge stabilisce infatti che, nel definire il contenuto del proprio provvedimento, il giudice deve tener conto - compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona - non solo dei bisogni, ma anche delle richieste di questa.
In ogni caso - ove necessario - il giudice tutelare adotta, anche d’ufficio, i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e/o per la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio (ad es., procedendo alla nomina di un amministratore di sostegno provvisorio, con l’indicazione degli atti che quest’ultimo è autorizzato a compiere).
Gli effetti dell’amministrazione di sostegno decorrono dal deposito del relativo decreto di apertura, emesso dal giudice tutelare. Tale ultimo provvedimento è immediatamente annotato dal cancelliere nel registro delle amministrazioni di sostegno e comunicato, entro dieci giorni, all’ufficiale di stato civile per essere annotato in margine all’atto di nascita.
Mentre gli effetti dell’interdizione e dell’inabilitazione sono sostanzialmente predeterminati dalla legge e, quindi, standardizzati, gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono determinati volta a volta dal provvedimento del giudice tutelare; che, per di più, può in ogni momento modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte: c.d. flessibilità o duttilità di sostegno.
Il giudice tutelare nomina all’interessato un amministratore di sostegno nella persona eventualmente designata - mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata - dallo stesso interessato, in previsione della propria possibile futura incapacità; o, in mancanza di tale designazione o in presenza di gravi motivi, scegliendolo preferibilmente nella persona del coniuge non legalmente separato, del partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, della persona stabilmente convivente, del padre, della madre, del figlio, del fratello, della sorella, dei parenti entro i quarto grado, ecc.: tenendo conto peraltro che in ogni caso la scelta dell’amministratore di sostegno deve avvenire con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona del beneficiario.
All’atto della nomina dell’amministratore di sostegno, il giudice tutelare, in relazione alla specificità della situazione e alle esigenze del singolo soggetto amministrativo, indica:
a) gli atti che l’amministratore di sostegno ha - non diversamente da quel che accade per la figura del tutore - il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, che correlativamente perde la capacità di porli in essere personalmente, con conseguente annullabilità degli atti che quest’ultimo avesse eventualmente a compiere in proprio;
b) gli atti cui l’amministratore di sostegno - non diversamente da quanto accade per la figura del curatore dell’inabilitato, relativamente agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione - deve dare il proprio assenso, prestando così assistenza al beneficiario, che correlativamente perde la capacità di porli in essere da solo, con conseguente annullabilità di quelli che lo stesso avesse a compiere autonomamente.
Nello svolgimento dei propri compiti l’amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario, tempestivamente informandolo circa gli atti da compiere.
Il giudice tutelare può altresì disporre che determinati effetti che conseguono ex lege all’interdizione o all’inabilitazione -ad es., la perdita della capacità di donare o di testare o di contrarre matrimonio - si estendano anche al beneficiario dell’amministrazione di sostegno.
Relativamente agli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana, nonché relativamente a tutti gli altri atti che il giudice non abbia espressamente indicato debbano essere posti in essere dall’amministratore di sostegno, o con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, il beneficiario conserva integra la propria capacità di agire: c.d. principio della generale capacità del soggetto amministrato, salve le limitazioni espressamente previste.
Nel determinare gli atti per cui è richiesta la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore di sostegno o che non possono essere compiuti - e, di riflesso, gli atti che il beneficiario può compiere, da solo, in prima persona - il giudice deve perseguire l’obiettivo della minore limitazione possibile della capacità di agire dell’interessato: principio della massima salvaguardia dell’autodeterminazione del soggetto amministrativo.
Gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge o in eccesso rispetto ai poteri conferitigli dal giudice sono annullabili, su istanza dello stesso amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi o aventi causa.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno - introdotto nel nostro ordinamento nel 2004 (con L. 9 gennaio 2004, n. 6) per affiancarsi a quelli codicistici dell’interdizione e dell’inabilitazione - ha fatto registrare, negli anni, una crescente diffusione, cui ha fatto da contraltare ad una drastica riduzione del ricorso a quello dell’interdizione ed un sostanziale abbandono di quello dell’inabilitazione. Tant’è che da più parti si sollecita autorevolmente un intervento normativo volto, da un lato, a potenziare il primo e , dall’altro lato, ad abrogare i secondi.
L’incapacità naturale
Può accadere che un soggetto - pur legalmente capace di compiere un determinato atto - in concreto si trovi, nel momento in cui lo pone in essere, in una situazione di incapacità di volere e/o di intendere per, per una causa permanente (si pensi, ad es., al soggetto che, pur essendo affetto da sindrome di Down o da una grave forma di demenza senile, non sia stato assoggettato ad alcuna misura di protezione); o transitoria (si pensi, ad es., al soggetto che, normalmente di singolare avvedutezza, abbia ecceduto nell’uso dell’alcool o sia sotto shock perché coinvolto in un pauroso incidente stradale).
Perché si abbia incapacità di volere e/o di intendere - c.d. incapacità naturale - non è sufficiente una qualsiasi anomalia o alterazione delle facoltà psichiche e/o intellettive, occorrendo che il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento del compimento del negozio, della capacità di autodeterminarsi o della coscienza dei propri atti o, quantomeno, che le stesse siano a tal punto menomate da impedire la formazione di una volontà cosciente.
In ipotesi tal fatta, la legge non può - solo perché si tratta di persona legalmente capace di compiere quel determinato atto - disinteressarsi della protezione dei suoi interessi: nell’ipotesi in esame, si verifica infatti uno scollamento tra situazione giudica di capacità legale e situazione di fatto di incapacità naturale.
Ecco perché il soggetto - legalmente capace di compiere un determinato atto - è comunque ammesso ad impugnarlo, se prova che, nel momento in cui l’ha compiuto, versava in uno stato di incapacità di intendere e/o di volere. Prova evidentemente abbastanza agevole se il soggetto è affetto da una malattia che offusca stabilmente la sua sfera intellettiva e/o volitiva; ben più difficile nell’ipotesi in cui l’offuscamento dipenda da una causa transitoria di cui non sempre è facile dimostrare ex post l’esistenza e l’impatto sulla sfera psichica della persona.
La controparte non è invece legittimata a proporre domanda di annullamento dell’atto stipulato dall’incapace naturale.
Quanto alla sorte degli atti posti in essere dall’incapace naturale, occorre distinguere:
a) il matrimonio, l’unione civile fra persone dello stesso sesso, il testamento e la donazione sono impugnabili solo che si dimostri che il soggetto era incapace di intendere e di volere nel momento in cui ha compiuto l’atto;
b) gli atti unilaterali sono annullabili se si dimostra - da un lato - che il soggetto era incapace di intendere e o di volere nel momento in cui li ha posti in essere e - dall’altro lato - che da detti atti è derivato un grave pregiudizio per l’incapace stesso;
c) i contratti sono annullabili se si dimostra - da un lato - che il soggetto era incapace di intendere e o di volere nel momento in cui li ha posti in essere e - dall’altro lato - che la controparte contrattuale era in malafede: ossia, si rendeva conto o avrebbe dovuto rendersi conto che stava contraendo con un soggetto incapace. Non è richiesto che il contratto rechi pregiudizio all’incapace: l’eventuale squilibrio delle prestazioni contrattuali in danno dell’incapace può solo costituire elemento sintomatico da cui desumere la malafede della controparte.
L’annullamento degli atti unilaterali e dei contratti posti in essere dall’incapace naturale può essere richiesto da quest’ultimo, una volta riacquistata la capacità naturale, entro cinque anni dal loro compimento.
La legittimazione
Per legittimazione si intende l’idoneità del soggetto ad esercitare e o disporre di un determinato diritto. Per compiere validamente un determinato atto, il soggetto deve trovarsi nella situazione giuridica richiesta dalla legge.
Non sempre la legittimazione coincide con la titolarità del diritto soggettivo.
Peraltro non sempre il difetto di legittimazione produce l’invalidità o l’inefficacia dell’atto: talora infatti l’ordinameno si accontenta dell’apparenza.
La giurisprudenza è incline ad applicare estensivamente il principio dell’apparenza subordinandone però l’attività al ricorso di tre distinti presupposti:
a) una situazione di fatto non corrispondente alla situazione di diritto:
b) il convincimento di terzi che la situazione di fatto rispecchi la situazione di diritto;
c) un comportamento colposo del soggetto effettivamente legittimato che abbia consentito il crearsi della situazione di apparenza.
Peraltro non sembra che nel nostro ordinamento sussista un principio generale in virtù del quale l’apparenza sia in ogni caso tutelata, pur essendo a tale protezione informati vari specifici istituti.
La sede della persona
Il luogo in cui la persona fisica vive e svolge la propria attività ha, per l’ordinamento giuridico, rilievo da diversi punti di vista: specie in ambito processuale, ma anche in ambito sostanziale.
Al riguardo, la legge distingue tra:
- domicilio, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principali dei propri affari ed interessi:
- dimora, per tale intendendosi il luogo in cui la persona attualmente abita;
- residenza, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha volontaria ed abituale dimora.
Sovente domicilio, dimora e residenza si concentrano concretamente in un unico luogo.
Il domicilio si distingue in:
a) legale, se fissato direttamente dalla legge;
b) volontario, se concretamente eletto dall’interessaro a centro della propria vita di relazione.
Per lo più, il domicilio coincide con la residenza, cioè con il luogo in cui il soggetto ha fissato stabilmente l’abitazione sua e della famiglia, poiché è proprio in tale luogo che lo stesso intrattiene principalmente i propri rapporti eco
La sede della persona
Il luogo in cui la persona fisica vive e svolge la propria attività ha, per l’ordinamento giuridico, rilievo da diversi punti di vista: specie in ambito processuale, ma anche in ambito sostanziale.
Al riguardo, la legge distingue tra:
- domicilio, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principali dei propri affari ed interessi:
- dimora, per tale intendendosi il luogo in cui la persona attualmente abita;
- residenza, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha volontaria ed abituale dimora.
Sovente domicilio, dimora e residenza si concentrano concretamente in un unico luogo.
Il domicilio si distingue in:
a) legale, se fissato direttamente dalla legge;
b) volontario, se concretamente eletto dall’interessaro a centro della propria vita di relazione.
Per lo più, il domicilio coincide con la residenza, cioè con il luogo in cui il soggetto ha fissato stabilmente l’abitazione sua e della famiglia, poiché è proprio in tale luogo che lo stesso intrattiene principalmente i propri rapporti economici, personali e sociali. Ciò non esclude, tuttavia, che in molti casi - secondo quella che è la comune valutazione - il domicilio sia distinto dalla residenza. Se il soggetto ha una pluralità di luoghi in cui svolge la propria vita personale o professionale, il domicilio coincide con il luogo in cui intrattiene l’attività principale. Peraltro, non è neppure necessaria la presenza fisica della persona presso il proprio domicilio; è sufficiente che la stessa abbia in quel luogo la sede principale dei suoi affari.
Il domicilio generale - inteso appunto come sede principale degli affari e degli interessi della persona - è unico.
Peraltro la legge consente al soggetto di eleggere un domicilio speciale per determinati atti o affari. Anzi, talora è la stessa legge a prevedere l’onere dell’elezione di un domicilio speciale. L’elezione del domicilio speciale deve essere fatta per iscritto e con dichiarazione espressa. L’elezione di domicilio non ha carattere esclusivo in difetto di un’espressa e chiara volontà in senso contrario.
La residenza dipende dall’elemento oggettivo della permanenza abituale del soggetto in un determinato luogo e dall’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali. L’interessato deve dichiarare all’anagrafe del comune in cui intende fissare la dimora abituale il trasferimento della propria residenza.
Le risultanze anagrafiche hanno valore di presunzione semplice circa la rispondenza della situazione di fato a quella risultante dall’iscrizione anagrafica: presunzione superabile con qualsiasi mezzo di prova idoneo a dimostrare la volontaria ed abituale dimora del soggetto in un luogo diverso.
Cos’è la cittadinanza e come si acquista quella italiana?
La cittadinanza è la situazione di appartenenza di una persona fisica ad un determinato Stato: più rilevante in genere nell’ambito del diritto pubblico che in quello del diritto privato.
La cittadinanza italiana si acquista:
a) iure sanguinis: sono infatti cittadini italiani tutti i figli nati da cittadino italiano, indipendentemente dal luogo di nascita; è sufficiente che italiano sia anche solo uno dei genitori.
b) iure soli: sono infatti cittadini italiani tutti coloro che nascono nel territorio della Repubblica, qualora entrambi i genitori siano ignoti o apolidi, o se non acquisiscono la cittadinanza dei genitori in base alla legge dello Stato di appartenenza di questi ultimi;
c) per iuris communicatio: infatti acquista la cittadinanza italiana il coniuge o il partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso di cittadino italiano, allorché, dopo il matrimonio o la costituzione dell’unione civile, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, o dopo tre anni dalla data del matrimonio o di costituzione dell’unione civile, sempre che non vi sia stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civile del matrimonio stesso e non sia intervenuta separazione legale fra i coniugi o non vi sia stato scioglimento dell’unione civile;
d) per naturalizzazione: infatti in forza del decreto del Presidente della Repubblica può essere concessa la cittadinanza italiana a chi si trovi nelle condizioni previste dall’art. 9 L. n. 91/1992 (ad es., al cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea che risieda legalmente nel territorio nella Repubblica da almeno quattro anni; all’apolide che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni; allo straniero che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno dieci anni, ecc.).
Nelle ipotesi di cui supra sub c) e sub d), la concessione della cittadinanza italiana è subordinata al possesso da parte dell’interessato di un’adeguata conoscenza della lingua italiana. In ogni caso, il provvedimento di concessione della cittadinanza ha effetto dal momento in cui la persona interessata presta giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato.
È consentito che un cittadino italiano possa avere contemporaneamente un’altra cittadinanza: c.d. doppia cittadinanza.
L’art. 22 Cost. statuisce che nessuno può essere privato della cittadinanza per motivi politici.
L’art. 20 TFUE prevede che è istituita una cittadinanza dell’Unione europea, con la precisazione che è un cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro e che la cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce: i cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati.
La posizione della persona nella famiglia
Il rapporto che lega le persone appartenenti ad una medesima famiglia dà luogo ad una serie di diritti e di doveri: c.d. status familiae.
La parentela è il vincolo che unisce i soggetti che discendono dalla stessa persona - o dallo stesso stipite - non importa se nati all’interno del matrimonio o fuori di esso.
Ai fini della determinazione dell’intensità del vincolo di parentela, occorre considerare le linee e i gradi:
a) la linea retta unisce le persone di cui l’una discende dall’altra;
b) la linea collaterale unisce le persone che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l’una dall’altra;
c) i gradi si contano calcolando le persone e togliendo lo stipite.
Di regola la legge riconosce effetti alla parentela soltanto fino al sesto grado.
L’affinità è il vincolo che unisce un coniuge ed i parenti dell’altro coniuge. Per stabilire il grado di affinità si tiene conto del grado di parentela con cui l’affine è legato al coniuge.
In ogni caso gli affini di un coniuge non sono affini dell’altro coniufe.
Di regola la morte di uno dei coniugi, anche se non vi sia prole, non estingue l’affinità. Questa cessa invece se il matrimonio è dichiarato nullo: rimane in ogni caso fermo il divieto di matrimonio tra gli affini in linea retta.
Tra coniugi non v’è rapporto né di parentela né di affinità: la relazione tra essi esistente si chiama coniugio.
Cosa succede quando si perdono le tracce di una persona?
Per la disciplina dei rapporti facenti capo a detti soggetti, sono previsti gli istituti della scomparsa, dell’assenza e della morte presunta.
- La scomparsa è dichiarata quando concorrono: allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza e la mancanza di sue notizie oltre il lasso di tempo che può essere giustificato dagli ordinari allontanamenti della persona per ragioni di lavoro, svago, ecc.
Avendo l’istituto finalità essenzialmente conservative del patrimonio dello scomparso, il tribunale può dare provvedimenti a ciò necessari (ad es., nominare un curatore che rappresenti la persona in giudizio, compia gli atti di amministrazione dei suoi beni, gestisca l’impresa a lui facente capo, ecc.). Se la persona ritorna, gli effetti della dichiarazione di scomparsa cessano, senza necessità di una nuova pronuncia giudiziale.
- L’assenza è dichiarata con sentenza dal tribunale allorquando concorrano: allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza e mancanza di sue notizie da oltre due anni.
Il tribunale, se richiesto, ordina l’apertura degli eventuali testamenti dell’assente. Coloro che sarebbero stati eredi testamentari o legittimi dell’ssente, se lo stesso fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima sua notizia, possono domandare l’immissione temporanea nel possesso dei beni di lui. Peraltro, chi è immesso nel possesso temporaneo di detti beni non può disporne (ad es. alienarli, sottoporli a pegno o ipoteca, ecc.), se non per necessità o utilità evidente riconosciuta dal tribunale. Ne ha però l’amministrazione ed il godimento, con diritto di far propri frutti e rendite.
La dichiarazione di assenza non scioglie il matrimonio, né l’unione civile dell’interessato, ma determina lo scioglimento della comunione legale.
Gli effetti della dichiarazione di assenza cessano senza necessità di una nuova pronuncia giudiziale se l’assente ritorna o comunque ne è provata l’esistenza. L’assente ha diritto alla restituzione dei suoi beni, pur rimanendo fermi gli atti di gestione e quelli di disposizione, se debitamente autorizzati, compiuti da chi era nel loro legittimo possesso.
- La morte presunta è dichiarata con sentenza dal tribunale allorquando concorrono: allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza e la mancanza di sue notizie da dieci anni. Nei confronti di chi è scomparso per un infortunio, è sufficiente che non si abbiano notizie da due anni.
Gli effetti della pronuncia di morte presunta sono quelli che la legge normalmente ricollega alla morte: così coloro che sarebbero stati suoi eredi testamentari o legittimi, se il soggetto fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima notizia di lui, conseguono la piena titolarità e disponibilità dei suoi beni e diritti, secondo le regole della successione a causa di morte, con la particolarità che è obbligatorio l’inventario dei beni; la comunione legale si scioglie; il coniuge può passare a nuove nozze; l’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso può passare ad una nuova unione civile ovvero a nozze.
Detti effetti cessano retroattivamente in forza di sentenza che accerta il ritorno o, quantomeno, l’esistenza in vita della persona di cui è stata dichiarata la morte presunta. Quest’ultima recupera i propri beni, fermi restando gli atti di gestione e di disposizione fin qui compiuti. Il nuovo matrimonio contratto dal coniuge è nullo, salve gli effetti del c.d. matrimonio putativo; l’unione civile eventualmente costituita dall’altro partner è nulla.
Gli atti dello stato civile
Le vicende più importanti inerenti alla persona fisica sono documentate negli archivi dello stato civile, tenuti presso ogni comune.
In ciascun ufficio dello stato civile sono registrati e conservati in un unico archivio informatico tutti gli atti formati nel comune o comunque relativi a soggetti ivi residenti, riguardanti:
a) la cittadinanza;
b) la nascita;
c) i matrimoni;
d) le unioni civili;
e) la morte.
In via di prima approssimazione, si può dire che negli archivi dello stato civile si iscrivono le dichiarazioni che i i privati rendono all’ufficiale di stato civile in ordine a cittadinanza, nascita, matrimoni, unioni civili, morte di una determinata persona.
Ciò che viene dai comparenti dichiarato all’ufficiale di stato civile si presume, fino a prova contraria, rispondente a verità.
Gli atti dello stato civile sono atti pubblici: con la conseguenza che fanno prova, fino a querela di falso, di ciò che l’ufficiale di stato civile attesta essere avvenuto in sua presenza o da lui compiuto.
Da ciò deriva che gli atti dello stato civile svolgono, innanzitutto, funzione probatoria in ordine a cittadinanza, nascita, matrimoni, unioni civili e morte della persona fisica.
Negli archivi dello stato civile si trascrivono altresì provvedimenti di autorità amministrative e giudiziarie, italiane e straniere, sempre relativi a cittadinanza, nascita, matrimoni, unioni civili e morte della persona fisica.
La rettificazione di un atto dello stato civile inficiato da errori, omissioni od irregolarità, la ricostruzione di un atto andato distrutto o smarrito, la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato possono avvenire soltanto in forza di un decreto motivato del tribunale.
Gli atti dello stato civile sono pubblici: nel senso che chiunque può consultarli e chiederne estratti e certificati. I registri dello stato civile adempiono, dunque, anche ad una funzione di pubblicità-notizia delle principali vicende della persona fisica.
I diritti della personalità
L’art. 2 Cost. proclama solennemente che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali.
La formula nella norma costituzionale riecheggia l’idea, di origine giusnaturalistica, secondo cui la persona umana sarebbe portatrice di diritti innati, che l’ordinamento giuridico non attribuisce, bensì riconosce; e che, in quanto tali, sono inviolabili da parte dello Stato, nell’esercizio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Una conferma di siffatta interpretazione viene dal fatto che la nostra Costituzione mira chiaramente a garantire il cittadino, in primo luogo, contro gli abusi e l’arbitrio dei pubblici poteri: in altri termini, mira ad assicurare a quest’ultimo una sfera intangibile di libertà nei confronti dello Stato.
Peraltro la tutela costituzionale dei diritti inviolabili non si esaurisce in questa direzione: i diritti inviolabili della persona sono tali anche nei confronti degli altri consociati. Proprio in questa seconda prospettiva, il codice penale sanziona i delitti contro la persona, distinguendoli in delitti contro la vita e l’incolumità individuale, delitti contro l’onore, delitti contro la libertà individuale.
Dal canto suo, il codice civile detta norma specifiche a tutela dell’integrità fisica, del nome e dell’immagine.
Peraltro è ormai chiaro che - allorquando proclama che la Repubblica riconosce e garantisce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo - l’art. 2 Cost. intende far riferimento non solo a quelli specificatamente tipizzati in altre norma della stessa Costituisce, bensì anche a quelli che la coscienza sociale, in un determinato momento storico, ritiene essenziali per la tutela della persona umana.
L’elenco dei diritti inviolabili è - da un lato - aperto, essendo ammissibili diritti della personalità per così dire atipici (come sono stati almeno all’origine il diritto alla riservatezza e quello dell’identità personale) e - da altro lato - storicamente condizionato.
Da segnalare che negli ultimi anni la nostra giurisprudenza ha mostrato una progressiva propensione ad ampliare il novero dei diritti inviolabili della persona.
Ai fini dell’individuazione dei diritti che il nostro ordinamento devono considerarsi inviolabili, un ruolo decisivo svolgono - oltre alle disposizioni del diritto interno - anche norma di derivazione extrastatuale. In proposito meritano particolare segnalazione:
a) la Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata con risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in data 10 dicembre 1948;
b) la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848. Dal 1 dicembre 2009, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzioni comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali;
c) il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali culturali ed il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottati a New York il 16 dicembre 1966, cui è stata data esecuzione in Italia con L. 25 ottobre 1977, n. 881;
d) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - proclamata ufficialmente dalle istituzioni comunitarie (Parlamento, Consiglio e Commissione) una prima volta a Nizza, in occasione del Consiglio europeo, in data 7 dicembre 2000 (c.d. Carta di Nizza), e una seconda volta, in versione modificata, a Strasburgo il 12 dicembre 2007 - che dal 1 dicembre 2009, con l’entrata in vigore dei trattato di Lisbona, ha lo stesso valore giuridico dei trattati dell’Unione europea.
Da quali caratteri sono connotati i diritti della persona?
Essi sono connotati dai caratteri:
a) della necessità, in quanto competono a tutte le persone fisiche, che li acquistano al momento della nascita e li perdono solo con la morte;
b) dell’imprescrittibilità, in quanto il non uso prolungato non ne determina l’estinzione;
c) dell’assolutezza, in quanto - da un lato - implicano, in capo a tutti i consociati, un generale dovere di astensione dal ledere l’interesse presidiato da detti diritti e - da altro lato - sono tutelabili erga omnes, cioè nei confronti di chiunque li contesti o li pregiudichi;
d) della non patrimonialità, in quanto tutelano valori della persona non suscettibili di valutazione economica;
e) dell’indisponibilità, in quanto non sono rinunziabili, seppure si ammetta con sempre maggior larghezza la possibilità di consentirne l’uso a ad altri a titolo gratuito od anche oneroso.
Si discute se esista un unico diritto della personalità avente ad oggetto tutela della persona vista nella sua unitarietà ed indivisibilità (c.d. teoria monistica) o tanti diritti distinti volti a tutelare, singolarmente, i diversi interessi di cui la stessa è portatrice (c.d. teoria pluralistica).
Il diritto alla vita
Seppur non testualmente previsto dalla nostra Carta costituzionale - mentre trova espressa proclamazione, ad es., nella Dichiarazione universale dei diritti umani (art. 3), nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (art. 6), nella CEDU (art. 2 ) - il diritto alla vita, dalla nostra Corte costituzionale definito come il primo dei diritti inviolabili dell’uomo, è posto a presidio del fondamentale interesse della persona umana alla propria esistenza fisica.
Tale diritto impone a tutti i consociati l’obbligo di astenersi dall’attentare alla vita altrui: obbligo presidiato anche da sanzioni penali.
Problema delicato è quello di stabilire il momento in cui si acquista il diritto alla vita.
È chiaro che la non ancora intervenuta acquisizione della capacità giuridica non impedisce al nascituro di essere titolare di interessi giuridicamente tutelati: tant’è che l’art. 1, comma 1, L. 22 maggio 1972, n. 1794 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) statuisce che lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio, cioè dal momento del concepimento; e, di più recente, l’art. 1, comma 1, L. 19 febbraio 2001, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) espressamente dichiara di tutelare anche i diritti del concepito.
Il diritto a nascere trova tutela piena ed immediata nei confronti dei soggetti diversi dalla madre; è infatti penalmente sanzionata la condotta di chiunque cagioni l’interuzione della gravidanza, senza il consenso della donna manifestato secondo le modalità prevista dalla legge.
Nei confronti della madre occorre invece distinguere:
a) l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90 giorni dal concepimento è sostanzialmente rimessa alla sua libera determinazione: prevede infatti la legge che la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o le circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di fiducia; quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare l’interruzione della gravidanza; di contro, se non viene riscontrato il caso di urgenza, il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invia a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere l’interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole: e cioè quand’anche la sua richiesta dovesse risultare fondata su motivi futili o capricciosi;
b) l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90 giorni può invece essere praticata unicamente quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomali o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna: in quest’ultimo caso, dunque, il diritto del nascituro può essere sacrificato solo di fronte al preminente interesse della madre alla vita ed all’integrità psico-fisica.
Il diritto alla vita e il suicidio
Tutelato nei confronti di terzi, il diritto alla vita non lo è in concreto nei confronti del diretto interessato: nessuna sanzione consegue, infatti, al suicidio, così come al tentato suicidio.
Costituiscono tuttavia reato - ed integrano quindi agli estremi dell’illecito civile, con conseguente obbligo risarcitorio - sia la condotta di chi cagiona ad altri la morte, seppure con il di lui consenso (c.d. omicidio del consenziente), sia la condotta di chi determini altri al suicidio, ovvero ne rafforzi i propositi suicidi o ancora agevoli in qualunque modo l’esecuzione di detti propositi (c.d. istigazione o aiuto al suicidio).
Il discrimen fra omicidio del consenziente ed aiuto al suicidio è sempre stato ravvisato nel fatto che nel primo caso è il terzo che dà la morte a chi la richiede, mentre nel secondo è il suicida che si dà la morte da sé, seppure con l’intervento adiutorio del terzo.
Ora la Corte costituzionale, pur ritenendo che l’illiceità penale al suicidio sia, di norma, funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, ha tuttavia dichiarato costituzionalmente illegittima l’estensione del divieto di cui all’art. 580 c.p. anche ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisione libere e consapevoli: in presenza di detti presupposti, dunque, l’aiuto al suicidio deve ritenersi lecito.
Allo stato, ancora pienamene in vigore rimane invece la previsione dell’illiceità penale dell’omicidio del consenziente contemplata nell’art. 579 c.p.,: con la conseguenza che tuttora vietata deve ritenersi la condotta di chi, anche esercente la professione sanitaria), per motivi di pietà e con il suo consenso, o addirittura su sua sollecitazione, dovesse provocare la morte dell’infermo, affetto da malattia incurabile, attraverso un diretto intervento acceleratore, volto ad anticiparne il decesso allo scopo di evitargli le sofferenze del processo patologico terminale: c.d. eutanasia attiva.
Principio di autodeterminazione e rifiuto dei trattamenti salvavita
Il generale principio secondo cui i trattamenti sanitari possono essere praticati solo con il consenso dell’avente diritto (c.d. principio di autodeterminazione) vale anche con riferimento ai c.d. trattamenti salvavita: con riferimento, cioè, a quegli interventi che la scienza medica indica come idonei a scongiurare o quantomeno ad allontanare il rischio di morte dell’infermo. Il diritto alla salute, implica infatti anche il suo risvolto negativo: cioè, il diritto di non curarsi e persino il diritto di lasciarsi morire.
Di fronte al rifiuto del trattamento medico consapevolmente espresso dall’assistito, così come di fronte alla sua richiesta di interruzione del trattamento già in atto, il dovere del medico di curarlo, proprio perché fondato sul consenso del malato, viene meno; anzi egli è obbligato a rispettare la volontà dell’assistito contraria alle cure.
Tutto ciò ovviamente presuppone che l’interessato sia in grado di manifestare consapevolmente e liberamente il proprio intendimento in ordine al trattamento medico propostogli.
Allorquando invece il soggetto non sia in grado, a causa dello stato di incapacità in cui versa, di manifestare il proprio consenso o dissenso al riguardo, il medico - nelle situazioni di emergenza o di urgenza - deve senz’altro praticare le cure necessarie.
Superata l’urgenza, la decisione in ordine al consenso o dissenso di un determinato trattamento terapeutico da praticare all’incapace spetta al suo rappresentante legale. Nel caso in cui il rappresentante rifiuti le cute proposte che il medico ritenga invece appropriate e necessarie, la decisione è demandata al giudice tutelare.
In ogni caso, di fronte a paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati; ricorrendo piuttosto, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione con la terapia del dolore.
Al fine di evitare la rimessione al rappresentante legale di scelte così delicate e drammatiche come quelle del fine vita, la recente, la L. 22 dicembre 2017, n. 219, consente al maggiorenne capace di intendere e di volere di redigere - nella forma dell’atto pubblico, della scrittura privata autenticata o della scrittura privata consegnata personalmente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza ovvero presso le strutture sanitarie abilitata - disposizioni anticipate di trattamento (DAT), attraverso cui manifestare ora per allora le proprie volontà in tema di accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e/o trattamenti sanitari, per il caso in cui, in futuro, dovesse venirsi a trovare in uno stato di incapacità di esprimere il proprio consapevole consenso/rifiuto al riguardo. Il disponente può altresì indicare il nominativo di persona di propria fiducia - c.d. fiduciario - che, sempre nell’ipotesi in cui lo stesso disponente devesse venire a trovare in uno stato di incapacità di esprimere la propria volontà in tema di trattamenti sanitari, lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le strutture sanitarie.
Con D.M. 10 dicembre 2019, n. 168, sono state disciplinate le modalità di raccolta delle copie delle DAT e delle relative nomine degli eventuali fiduciari in una Banca dati nazionale e informatizzata, istituita presso il Ministero della Salute; così come le modalità per assicurare la piena accessibilità alle stesse sia da parte del medico che ha in cura un paziente, allorché per quest’ultimo sussista una situazione di incapacità di autodeterminarsi, sia da parte dello stesso disponente, sia da parte del fiduciario, finché questi conservi l’incarico.
Le direttive espresse nelle DAT sono vincolanti per il medico, che può disattenderle, in tutto o in parte, solo - in accordo con il fiduciario - qualora le stesso dovessero apparire palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente, o per essere nel frattempo divenute disponibili terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione delle stesse DAT, capaci di offrire al paziente concrete possibilità di miglioramento delle proprie condizioni di vita. In caso di conflitto tra fiduciario e medico, la decisione è rimessa al giudice tutelare.
Le DAT - così come l’indicazione del fiduciario - possono essere in qualunque momento revocate o modificate dal disponente nelle forme richieste per la loro formulazione.
Diversa modalità di manifestazione anticipata del volere del paziente per l’ipotesi in cui lo stesso dovesse, in futuro, venirsi a trovare in una situazione di impossibilità di manifestare le proprie volontà in tema di trattamenti sanitari è quella della c.d. pianificazione condivisa delle cure: in presenza di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, il paziente può concordare per iscritto con il medico una pianificazione delle cure, alla quale il medico stesso e la sua equipe saranno, un domani, tenuti ad attenersi, quand’anche l’assistino dovesse venirsi a trovare in una condizione di incapacità. La pianificazione condivisa delle cure può, in ogni momento, essere aggiornata - su richiesta del paziente o su suggerimento del medico - al progressivo evolversi della malattia.
In ogni caso, al paziente dev’essere consentito l’accesso alle c.d. cure palliative (per tali intendendosi l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’innarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici) e alla terapia del dolore (per tale intendendosi l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti ad individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loto variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico- terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore), disciplinate dalla L. 15 marzo 2012, n. 38.
Diritto alla salute e il nascituro
L’art. 32, comma 1 Cost. definisce quello alla salute come fondamentale diritto dell’individuo. L’art. 3, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclama oggi che ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica.
Tale diritto implica, per tutti i consociati, l’obbligo di astensione da condotte che possano cagionare ad altri malattie, infermità o menomazioni: obbligo presidiato - oltre che da sanzioni penali - anche sul piano risarcitorio.
L’interesse alla salute ed all’integrità psico-fisica è tutelato anche a favore del nascituro: tant’è che si ammette la risarcibilità del danno conseguente a lesioni subite dal feto nel periodo prenatale a causa di condotte imperite del medico; sicché il soggetto che, con la nascita, abbia acquistato la capacità giuridica ben potrà far valere la responsabilità per lesioni o malattie procurategli quando ancora non era.
Si ritiene che non trovi invece cittadinanza nel nostro ordinamento il c.d. diritto di non nascere se non sano. Con la conseguenza che chi sia nato affetto da una grave patologia non potrà vantare un diritto risarcitorio né nei confronti della madre che, benché correttamente informata dell’anomalia del feto, non si sia avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza, né nei confronti del medico che, non avendola correttamente informata di tale anomalia, le ha di fatto impedito di valutare l’opportunità di una scelta abortiva.
Ovviamente il medico risponderà, nei confronti dei genitori, dei danni - da c.d. nascita indesiderata - da questi ultimi sofferti in conseguenza della mancata segnalazione di anomalie del feto, sempre che gli stessi riescano a fornire la prova che la madre, se correttamente informata, avrebbe optato per l’interruzione della gravidanza.
Diritto alla salute e il principio di autodeterminazione
Il diritto alla salute e all’integrità psico-fisica - se trova tutela nei confronti di terzi - è invece rimesso in linea di principio all’autodeterminazione del suo titolare.
Nessuno - dispone infatti l’art. 32, comma 1, Cost. - può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La legge può prevedere l’obbligo di un determinato accertamento o trattamento sanitario solo quando ciò sia giustificato dalla necessità di tutelare l’interesse superiore alla protezione della sanità pubblica.
Coerentemente, il legislatore ha previsto un indennizzo da parte dello Stato a favore di chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie, lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica; indennizzo che la Corte costituzionale parrebbe orientata a ritenere dovuto, in caso di patologie irreversibili derivanti da vaccinazioni, non solo nelle ipotesi in cui queste ultime siano obbligatorie, ma anche quando le stesse siano semplicemente raccomandate a mezzo di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore del trattamento vaccinale, tali da giustificare ai cittadini un particolare affidamento in esso in quanto consigliato dall’Autorità: nell’uno come nell’altro caso - rileva la Corte - l’obiettivo perseguito è sempre quello di garantire e tutelare la salute anche collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale, sicché sarebbe ingiusto che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio anche collettivo.
In ogni caso - in attuazione del dettato dell’art. 32, comma 2, Cost. - accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori possono essere disposti solo nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Rivoluzionaria, in quanto particolarmente all’avanguardia in questa direzione, apparve, all’epoca della sua entrata in vigore, la disciplina degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori delle persone affette da malattie mentali.
Al di fuori dei casi eccezionali in cui risultino imposti per legge, gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari: c.d. principio di autodeterminazione. Essi richiedono, cioè, il consenso dell’avente diritto, che, se in stato di capacità legale e naturale di agire, ben potrebbe legittimamente oppure un rifiuto alle cure.
Senza il consenso del paziente, il medico non può sottoporlo ad accertamenti sanitari, cure mediche, interventi chirurgici, neppure quando il trattamento dovesse risultare necessario per salvargli la vita.
Peraltro affinché possa prestare un valido consenso è necessario che l’assistito venga prima correttamente informato in ordine, da un lato, alle proprie condizioni di salute, da altro lato, alle relative diagnosi e
Diritto alla salute, il principio di autodeterminazione e i suoi limiti
Il diritto alla salute e all’integrità psico-fisica - se trova tutela nei confronti di terzi - è invece rimesso in linea di principio all’autodeterminazione del suo titolare.
Nessuno - dispone infatti l’art. 32, comma 1, Cost. - può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La legge può prevedere l’obbligo di un determinato accertamento o trattamento sanitario solo quando ciò sia giustificato dalla necessità di tutelare l’interesse superiore alla protezione della sanità pubblica.
Coerentemente, il legislatore ha previsto un indennizzo da parte dello Stato a favore di chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie, lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica; indennizzo che la Corte costituzionale parrebbe orientata a ritenere dovuto, in caso di patologie irreversibili derivanti da vaccinazioni, non solo nelle ipotesi in cui queste ultime siano obbligatorie, ma anche quando le stesse siano semplicemente raccomandate a mezzo di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore del trattamento vaccinale, tali da giustificare ai cittadini un particolare affidamento in esso in quanto consigliato dall’Autorità: nell’uno come nell’altro caso - rileva la Corte - l’obiettivo perseguito è sempre quello di garantire e tutelare la salute anche collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale, sicché sarebbe ingiusto che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio anche collettivo.
In ogni caso - in attuazione del dettato dell’art. 32, comma 2, Cost. - accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori possono essere disposti solo nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Rivoluzionaria, in quanto particolarmente all’avanguardia in questa direzione, apparve, all’epoca della sua entrata in vigore, la disciplina degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori delle persone affette da malattie mentali.
Al di fuori dei casi eccezionali in cui risultino imposti per legge, gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari: c.d. principio di autodeterminazione. Essi richiedono, cioè, il consenso dell’avente diritto, che, se in stato di capacità legale e naturale di agire, ben potrebbe legittimamente oppure un rifiuto alle cure.
Senza il consenso del paziente, il medico non può sottoporlo ad accertamenti sanitari, cure mediche, interventi chirurgici, neppure quando il trattamento dovesse risultare necessario per salvargli la vita.
Peraltro affinché possa prestare un valido consenso è necessario che l’assistito venga prima correttamente informato in ordine, da un lato, alle proprie condizioni di salute, da altro lato, alle relative diagnosi e prognosi e, da altro lato ancora, alle diverse alternative diagnostiche e terapeutiche disponibili, nonché a natura ed esiti possibili, benefici e rischi di ciascuna: c.d. consenso informato.
L’eventuale inadempimento, da parte del medico, all’obbligo informativo sullo stesso gravante lede il diritto all’autodeterminazione che compete all’assistito, con la conseguenza che il sanitario potrà essere chiamato a rispondere, quand’anche il trattamento sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per il solo fatto che il paziente non è stato posto in condizioni di validamente prestare il proprio consenso.
In ogni caso, il consenso al trattamento medico non obbliga chi lo ha prestato, che può efficacemente revocarlo in qualsiasi momento, fin quando l’atto medico non sia stato posto in essere.
Nell’ipotesi in cui il paziente legalmente capace si trovi in stato si incoscienza e ricorra un caso di urgenza il medico deve comunque assicurargli le cure necessarie.
Nell’ipotesi in cui il paziente sia invece incapace legale, il consenso deve di regola essere espresso dal suo rappresentante legale. In ogni caso, l’incapace legale deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute, in modo consono alle sue capacità, per essere messo in condizione di esprimere il proprio volere al riguardo, che il soggetto deputato ad esprimere in sua vece il consenso informato deve tenere nel debito conto. Nell’ipotesi in cui il rappresentante legale dell’incapace rifiuti le cure proposte ed il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare.
Il consenso informato - o la sua revoca - deve essere documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni, o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare.
Il diritto alla salute e all’integrità psicofisica non è integralmente rimesso all’autodeterminazione del suo titolare.
Gli atti dispositivi del proprio consenso sono consentiti a due condizioni:
a) che non siano contrari alla legge, all’ordine pubblico ed al buon costume;
b) che non cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica del soggetto: sicché - mentre dovrà ritenersi legittimo, se consentito dall’avente diritto, il prelievo del sangue, lembi di pelle, frammenti ossei, midollo osseo, ecc., nella misura in cui l’intervento non incida stabilmente sulla sua integrità - dovranno ritenersi, di contro, vietati, quand’anche vi sia il consenso dell’interessato, l’espianto di organi così come ogni altro intervento che su tale integrità sia invece destinato ad incidere negativamente.
Peraltro quand’anche riconducibili ad interventi menomativi dell’integrità fisica del soggetto, la legge - in deroga al disposto dall’art. 5 c.c. - consente:
i) l’espianto da vivente del rene, di parti del fegato, o di parti di polmone, pancreas ed intestino, seppure solo a titolo gratuito e con il consenso informato dell’interessato, nonché l’autorizzazione del tribunale: ciò al fine di favorire la pratica dei trapianti d’organo, eliminando ostacoli all’esercizio del dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost.
ii) interventi di modificazioni di caratteri sessuali: ciò al fine di consentire l’eliminazione degli irriducibili conflitti esistenti in coloro che, pur appartenendo ad un determinato sesso, avvertono a livello psicologico e per pulsioni sessuali la propria appartenenza al sesso opposto. Peraltro, da segnalare che - secondo la giurisprudenza più recente - la rettificazione anagrafica di sesso non richiede necessariamente la preventiva modifica via chirurgica dei caratteri sessuali anatomici primari, potendo in concreto risultare sufficiente il ricorso a presidi medici e a sostegni psicoterapeutici se atti a realizzare la modificazione tendenzialmente immutabile di sesso sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico-somatici ed ormonali.
Dal canto suo, la giurisprudenza ammette, sempre che vi sia il consenso informato dell’avente diritto, la liceità della sterilizzazione volontaria sia maschile che femminile.
Gli interventi chirurgici e i trattamenti medici devono ritenersi sottratti ai limiti dall’art. 5 c.c. posti al potere di autodeterminazione dell’interessato. Conseguentemente, il paziente potrà legittimamente consentire anche ad interventi chirurgici o a trattamenti medici destinati a comportare menomazioni gravi e definitive alla propria integrità fisica (ad es., l’amputazione di una gamba). Invero, i limiti al potere di autodeterminazione in ordine agli atti dispositivi del proprio corpo sono dalla legge posti a tutela e nell’interesse dell’avente diritto: non possono certo fungere - in contrasto con la propria funzione - da impedimento a trattamenti medico-chirurgici necessari a preservarne la salute o addirittura la salute.
Le parti legittimamente staccate dal corpo (ad es., capelli, denti, unghie, ecc.) sono beni autonomi di spettanza del soggetto al cui corpo appartenevano. Conseguentemente possono essere oggetto di atti di disposizione.
Ovviamente i limiti al potere di autodeterminazione dell’avente diritto, previsti dall’art. 5 c.c., valgono fino a che il soggetto è in vita.
Per il momento successivo alla propria morte, la persona può disporre in ordine alla collocazione della propria salma: c.d. ius eligendi sepulchrum; o - per testamento o più semplicemente, per gli iscritti ad associazioni riconosciute che abbiano tra i propri fini statuari quello della cremazione dei cadaveri dei propri associati, in forza di una dichiarazione in carta libera - in ordine alla cremazione del proprio corpo ed all’eventuale dispersione delle ceneri; nonché in ordine al prelievo di organi e tessuti - esclusi gonadi ed encefalo - a scopo di trapianto: anzi, la legge prevede, da un lato, che i cittadini sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte e, dall’altro lato, che la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione. Previsione, quest’ultima, peraltro non ancora applicabile, ad oltre vent’anni di distanza dalla sua introduzione, in quanto ad oggi non è stato attivato il sistema di formale richiesta ai cittadini di dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi. Da ultimo, la L. 10 febbraio 2020, n.10, è intervenuta a disciplinare il diritto dell’interessato a disporre, in vita, della destinazione del proprio corpo o dei tessuti post mortem ai fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica.
Diritto al nome nei vari aspetti del figlio.
Il nome - costituito da prenome e cognome - svolge funzione di identificazione sociale della persona della persona e viene ricondotto nell’alveo dei valori fondamentali della persona, in particolare, nella prospettiva della protezione della sua identità, intesa come proiezione della sua personalità.
Il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre e il prenome attribuitogli all’atto della dichiarazione di nascita all’ufficiale di stato civile. Se il dichiarante non dà un prenome al bambino, vi supplisce l’ufficiale di stato civile. Peraltro la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto che la regola secondo cui il figlio legittimo acquista automaticamente il cognome paterno senza la possibilità di assumere in aggiunta o in sostituzione quello della madre, contrasti con le previsioni dettate dagli artt. 8 e 14 CEDU; con la conseguenza che lo Stato italiano è ora obbligato ad adeguare la normativa interna a quanto statuito dalla Corte di Strasburgo.
All’inerzia del legislatore ha peraltro supplito, almeno parzialmente, la Corte costituzionale, la quale è intervenuta dichiarando illegittima la regola che vuole che al figlio nato nel matrimonio sia attribuito il cognome paterno, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.
Il figlio nato fuori del matrimonio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, assume il cognome del padre, sempre che i genitori, di comune accordo, non richiedano di trasmettere al figlio anche il cognome materno. Se il riconoscimento del padre avviene successivamente a quello della madre, il figlio può assumere il cognome del padre, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. Nel caso di minore età del figlio, è il giudice tutelare a dover decidere - avendo quale unico criterio di riferimento l’interesse del minore stesso - se quest’ultimo debba sostituire il cognome paterno a quello materno, o premetterlo o aggiungerlo ad esso.
Da ultimo, la Corte costituzionale ha sollevato innanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, c.c. non solo nella parte in cui preclude che i genitori, di comune accordo, possano trasmettere al figlio il solo cognome materno, ma anche, più in generale, nella parte in cui, nell’ipotesi in cui i genitori non riuscissero a trovare un diverso accordo, prevede che il figlio acquisisca senz’altro il cognome paterno.
I bambini non riconosciuti da alcuno dei genitor