Storia del deisgn di DE FUSCO Flashcards

1
Q

CAP. 1

LA STAMPA

A

Le origini del design si possono far risalire alla rivoluzione industriale (1760-1830), dove subisce una trasformazione ovvero che la produzione diventa meccanizzata è un sistema di produzione a ciclo produttivo la maggior anticipazione fu data dalla stampa, riconducendo il tutto alla nascita delle prime industrie, alla meccanizzazione dell’arte di scrivere e la riduzione di lavoro, in termini meccanici così si passa da un processo manuale ad un processo meccanico (silografia) è una tecnica di incisione in rilievo dove le matrici vengono inchiostrate e utilizzate per la realizzazione di più esemplari dello stesso soggetto, mediante la stampa con il tornio.

Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili risolse vari problemi tecnici come l’allineamento delle varie righe, la forma a fondere doveva comprendere uno spazio vuoto entro cui versare il piombo fuso , alla fine di tutto la parte principale dell’invenzione della stampa sta nell’ideazione della grafica isolata e mobile fu possibile la correzione solo in un preciso punto.. Ovvero nell’introduzione del pezzo
intercambiabile.
Il primo libro stampato da Gutenberg fu la celebre “Bibbia a 42 linee”, un’importante innovazione fu “il frontespizio”, ovvero la pagina che introduceva lo stampato.

I principali fattori del design sono la quantità, qualità e il giusto prezzo, il lato del quantitativo è assicurato dalla macchina ideata da Gutemberg, sotto l’aspetto qualitativo vi gioca l’estetica data dai caratteri utilizzati. Maggiore sviluppo in ambito promozionale di sicuro va alle grandi fiere : lipsia, francoforte, lione.
Dopo Gutenberg ci fu Argan che ci spiega il concetto di progetto: esso ha bisogno di due cose: disegno dei caratteri e le regole con le quali si compongono fra loro e, la grafica del libro si dà come rappresentazione di stile.

Ashton uno dei maggiori studiosi della rivoluzione industriale osserva se tale serie o no debba chiamarsi rivoluzione industriale , i cambiamenti non furono soltanto industriali ma anche sociali intellettuali arriviamo al dunque dicendo che la rivoluzione industriale non è il vero e proprio lo spartiacque tra l’artigianato e l’industria.

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Q

CAP.2

NEGLI ANNI DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (1760-1830)

A

La Rivoluzione industriale accentuò il principio di specializzazione del lavoro, in cui l’uomo si concentra su un unico prodotto o processo di lavorazione.
Fisici, chimici, ingegneri e metallurgi furono in stretto contatto con i principali protagonisti dell’industria britannica, come James Watt e Josiah Wedgwood.
Le invenzioni portarono in breve tempo a modificare anche la stessa distribuzione della popolazione, formando la cosiddetta civiltà urbana.
Infatti, nella prima metà del ‘700 l’Inghilterra era ancora un paese rurale, in quanto le industrie erano posizionate vicino alle risorse.

Solo quando la macchina a vapore di Watt iniziò ad essere usata in sostituzione della forza idraulica (ossia tra il 1785 e il 1790), la concentrazione di industrie poteva avvenire in qualsiasi luogo.
Le industrie cominciarono a sorgere vicino alle città, provocando un aumento smisurato della loro popolazione.
Una prima implicazione della Rivoluzione industriale col design si può riscontrare nelle stesse macchine industriali, che furono presentate presso la Grande Esposizione di Londra del 1851, come segno di progresso, di funzionalità e di efficienza.
Una seconda implicazione riguarda quei prodotti che subirono una notevole trasformazione, dato l’utilizzo di nuovi materiali come ghisa, ferro, acciaio, che sostituirono quelli tradizionali come legno e pietra.

Emblematico è l’Ironbridge (1777-1779), il ponte sul fiume Severn a Coalbrookdale, ideato da Wilkinson e progettato da Pritchard: si presenta come un arco di 100 piedi, formato da due semiarchi di un solo pezzo, costruiti in ferro e fusi. Il ponte sul Severn inaugura il settore delle costruzioni classificabili nel dominio dell’ingegneria, che comporta la presenza parziale o totale di elementi prodotti industrialmente.

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Q

CAP. 2.1

I SETTORI PIU’ PRODUTTIVI PER LA VENDITA DEL DESIGN

A

I settori più produttivi pertinenti alla vicenda del design furono quelli che presentavano una maggiore continuità con la tradizione, in cui si poté meglio assistere al passaggio dall’artigianato all’industria.
Si può dire che la storia del design inizi con l’industrializzazione di una delle più antiche manifatture, la ceramica.
Wedgwood fu uno dei maggiori esponenti in questo campo durante la rivoluzione industriale.
Discendeva da una famiglia di ceramisti e si impegnò nello sviluppo delle Potteries, distretto specializzato nella produzione della ceramica
fondato nel 1769.

Seguì con interesse gli sviluppi tecnologici del periodo, come la macchina a vapore, di cui utilizzò l’energia per macinare i materiali e azionare i torni della sua fabbrica; lui stesso inventò il pirometro, per la misura della temperatura dei forni che gli valse l’iscrizione alla Royal Society (albo scientifico).
A Wedgwood si deve inoltre anche la costruzione di uno dei primi quartieri operai e il completamento del Grand Junction Canal nel 1777, che giovò alle comunicazioni e ai trasporti.
La produzione di Wedgwood si presenta con una duplice caratteristica, ornamentale e utilitaria: alla prima contribuì l’incontro con Bentley, mercante con cui Wedgwood fonda una società nel 1768.
Da un punto di vista stilistico la produzione di Wedgwood comincia con l’imitazione dei modelli del passato, tanto che il Neoclassicismo finì per caratterizzare totalmente i prodotti della ditta; egli decise che l’arte vasaria sarebbe ascesa alle altezze di quella greca nel mondo antico.

Dal punto di vista utilitario e funzionale, lui cercò attraverso continue riduzioni e semplificazioni, il modo di rendere sempre più aderente la forma alla funzione: riuscì ad ideare delle forme pratiche e standardizzate del tutto adatte al loro scopo e che fossero capaci di essere riprodotte con la massima precisione in quantità illimitate.
Laddove non riuscì a meccanizzare l’intero processo produttivo, lo surrogò col principio della divisione del lavoro: lui infatti attribuì grande importanza all’addestramento della manodopera.

A Wedgwood si devono veri e propri apporti personali alle innovazioni tecnologiche dell’industria: lo studio e il miglioramento dei costituenti chimici delle crete e degli smalti, il perfezionamento del torchio, l’introduzione del banco rotante, l’invenzione del pirometro e la scoperta di nuovi tipi di ceramiche.
Lui, dunque, si adegua alla logica del lavoro industriale, ovvero quantificare la produzione, ridurre i prezzi per produrre di più in un tempo sempre più breve, con lo scopo di rendere i suoi prodotti accessibili a tutti.
Durante la R.I. tecnica e pratica hanno assunto un valore ideale, mentre l’antico ideale estetico scadeva a inutile accademismo.

I ponti, i viadotti, le prime costruzioni in ferro sono il precedente diretto del disegno industriale; la loro bellezza dipende dalla loro perfezione tecnica e dalla loro aderenza ad una funzione pratica; e poiché la tecnica e la pratica implicano un fare, l’idea del bello si connette al fare e non più al contemplare.
Una delle caratteristiche psicologiche della RIVOLUZIONE INDUSTRIALE fu un nuovo senso del tempo.

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Q

CAP.3

L’ETÀ VITTORIANA (1837-1901)

A

L’età vittoriana è da considerarsi un periodo di involuzione rispetto a quello della rivoluzione industriale: l’intero movimento industriale subisce un appiattimento, diventando una professione di routine, piuttosto che un’iniziativa di individui eccezionali.
Il liberalismo permetteva al fabbricante di produrre molto e nel tempo più breve possibile a scapito della qualità dei manufatti; il buon gusto era considerato di intralcio alle vendite. “That is best what sells best”.

Nasce la questione del rapporto arte-industria a partire dalla dichiarazione di Peel, secondo cui i manifatturieri inglesi erano superiori ai concorrenti in ogni questione legata alla meccanica, ma inferiori in merito ai disegni pittorici.
Dopo il Reform Bill, a causa della preoccupazione dovuta alla concorrenza estera, si promossero una serie di iniziative, come associazioni artistico-industriali, in cui industriali, artigiani e artisti potevano confrontarsi, e scuole di disegno con collezioni d’arte antica e moderna in tutta l’Inghilterra.

Un protagonista di queste iniziative fu Henry Cole, il maggiore esponente della cultura vittoriana nel campo del nascente design.
Il suo programma riguardò l’associare le arti all’industria, dando vita alla figura dell’art manufacturer (il precursore del designer moderno), la riformulazione del concetto di funzionalità e l’esigenza di imparare a vedere.
Nel 1849 fonda il “Journal of Design e Manufactures”, è il principale artefice della Great Exhibition nel 1851, nel 1852 dell’Albert museum e successivamente viene nominato sovrintendente delle scuole di disegno inglesi.

Richiamò l’attenzione sugli oggetti semplici e comuni della vita quotidinana, che però dovevano pur sempre avere una forma, gli useful objects. È proprio in questo che risiede lo sforzo maggiore di Cole e dei suoi collaboratori come Jones: quest’ultimo, nella sua “Grammar of Ornament” sosteneva che il fondamento di tutte le cose è la geometria e che i colori andavano usati in funzione spaziale e percettiva e non in modo impressionistico o illusionistico, mentre l’ornato doveva essere astratto e non imitativo. In sintesi il suo progetto era strutturalista, ossia si basava su geometria,
semplificazione e riduzione.

Un esempio di questo pensiero è il servizio da the del 1846, in cui entra il concetto di estetica moderna: la decorazione lentamente sta sparendo, sparisce il colore (viene utilizzato solo il bianco che è quello più economico) e la decorazione è limitata solo alle maniglie, al tappo e al becco, a causa dell’inerzia termica di quei punti.

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5
Q

CAP. 3.1

WILLIAM MORRIS

A

Diverso fu il caso di William Morris, che si richiamò alla linea neomedievale di Pugin e Ruskin, con un progetto che si
rivolgeva alla rinascita dell’artigianato, rifiutando la civiltà industriale.
Esempio è la Red House del 1859, progettata da Webb ma arredata con singoli prodotti dei collaboratori di Morris; vi è una continuità fra forma e funzione e non è presente la decorazione: gli unici elementi decorativi sono dati dalla
diversificazione dei materiali.

Nel 1862 fonda la ditta Morris, Marshall, Faulkner e Co., e poi a partire dal 1888 organizza le esposizioni di arti applicate dal titolo Arts and Crafts, che diventerà il nome dell’intero movimento morrisiano.
Morris combatte il liberismo, il commercialismo, l’ecclettismo della produzione industriale proponendo una riforma radicale nel settore delle arti applicate che prendeva a modello l’esecuzione artigianale e il corretto uso dei materiali tipiche dei prodotti medievali, caratterizzati da qualità artigianale nonché da quella Joy in Labour, antidoto
dell’alienante lavoro industriale.

Sotto il suo influsso, l’arte applicata, per oltre mezzo secolo considerata
un’occupazione inferiore, diventò nuovamente un compito nobile e degno.
Il rifiuto della produzione industrializzata faceva crescere il costo delle creazioni di Morris, che erano quindi esclusivamente alla portata dei ricchi.
Nonostante le differenze, Morris e Cole condividevano alcune idee e riconoscevano gli stessi valori: gli useful object, le esigenze del vasto pubblico, la preferenza delle arti applicate rispetto alle altre e l’artisticità come principio del design.

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6
Q

CAP. 3.2

INIZIATIVA DELLA PRIMA ESPOSIZIONE UNIVERSALE

A

L’iniziativa della Prima Esposizione Universale di Londra (componente vendita del design in età vittoriana) si deve a
Cole e al principe Albert: lo scopo era di promuovere al massimo l’integrazione tra industria e arti.
Rispose perfettamente a questo obiettivo l’edificio che ospitò la stessa esposizione, ossia il Crystal Palace di Paxton, il primo
edificio prefabbricato della storia dell’architettura.
La struttura era costituita da pezzi standardizzati in vetro e ferro,
da realizzare fuori opera e montare sul posto.
Gli alberi vennero compresi all’interno della struttura.
Era un oggetto concepito con gli stessi criteri della produzione in serie e dotato di una bellezza che scaturiva dalla sua intima struttura e dalla perfetta funzionalità.
A differenza dell’edificio, però, gli oggetti in esso contenuti mostrarono tutte le incertezze e le contraddizioni del
binomio arte-industria.
La maggior parte dei paesi che parteciparono, esponevano i loro prodotti tipici ed artigianali che non ponevano il problema arte-industria, come ad esempio l’Inghilterra, che presentò sia oggetti d’uso domestico che macchinari, caratterizzati da un eclettismo di svariati stili. D’altra parte paesi come gli Stati Uniti, presentarono macchinari senza alcuna ricerca formale oppure oggetti d’uso che affidavano la loro forma esclusivamente alla loro funzione.
La Great Exhibition ha contribuito dunque a restituire la consapevolezza del degrado estetico degli oggetti, nel momento del passaggio da artigianato a produzione industriale.
Si tratta comunque del primo vero incontro della cultura del design con il vasto pubblico, oltre che ad un grande fenomeno di promozione e vendita.
Il gusto del pubblico esigeva che gli oggetti, anche se prodotti industrialmente, dessero l’idea di essere eseguiti a mano. Si sviluppò la falsificazione della forma degli oggetti industriali e anche della natura dei materiali.
Questa falsificazione riguardava principalmente gli oggetti con pretese artistiche destinati ad un ceto medio-alto (un esempio furono sculture in gesso ricoperte in bronzo e vendute come tali). Tuttavia, accanto a questi esisteva una grande produzione di oggetti destinati alle classi povere, che non furono soggetti alla falsificazione.

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7
Q

CAP. 3.3

CASO THONET

A

Un posto di grande rilievo nella storia del design spetta a Thonet: ebanista originario della Prussia che nel 1830 iniziò gli esperimenti sulla curvatura del legno.
L’importanza dei mobili di Thonet ha origine da un’invenzione tecnica, ossia quella di inumidire gli elementi in legno attraverso l’impiallacciatura (ossia immergendoli in colla bollente), curvarli poi
sfruttando il vapore acqueo, e poi sagomarli ed essiccarli affinché conservassero quella conformazione.
Il suo successo nacque soprattutto in occasione di una sua mostra di mobili nel 1841, in cui catturò l’interesse del principe di Metternich d’Austria, che lo invitò a trasferirsi a Vienna per poter lavorare per lui.
Questo determinò un salto di qualità per Thonet poiché l’ambiente austriaco non soffriva delle incertezze di quello tedesco. Così nel 1856 a Moravia, fonda la prima delle grandi officine per la produzione in serie di mobili, la Gebrüder Thonet, cui seguirono diverse filiali e punti vendita in tutta Europa.

I criteri che caratterizzano il lavoro di Thonet ci sono la scomposizione lineare, la resistenza, le connessioni, lo spazio diaframmato e la trasparenza delle strutture.
L’emblema dell’innovazione di Thonet è la sedia n.14 del 1859, evoluzione del modello n.5 presentato all’Esposizione di Londra del 1851 (che presentava le gambe anteriori sdoppiate e curvate) e dei modelli 6,7,8 e 9: viene eliminata la doppia gamba, viene inserito un innesto unico tra gambe e sedile tramite un capitello (poi eliminato a favore di un innesto senza mediazione), le gambe vengono irrigidite da un anello curvato, lo schienale impagliato viene sostituito da un solo elemento arcuato ecc.

La n.9 appare come il culmine dell’evoluzione di tale sedia, composta da soli 6 pezzi: per esigenze produttive, però, la spalliera viene ancora più semplificata nella n.14, che finisce per rappresentare la fase più matura. Anch’essa è formata da 6 pezzi, 8 viti e 2 perni a bulloni.
L’apporto di Thonet non può, però, considerarsi esclusivamente tecnico, in quanto i suoi mobili non avrebbero raggiunto tale successo, senza che lui ne avesse curato anche gli aspetti formali e lo stile.

La sua produzione riguardò anche altri mobili come poltrone, divani, sedie a dondolo, tavoli, letti, attaccapanni e portaombrelli, tutti modelli rientranti nella tipologia di “mobili sostenitori”, la più adatta al linearismo strutturale della sua tecnica.

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8
Q

CAP. 3.4

I MOBILI BREVETTATI

A

Il mobile meccanico nasce nell’Europa del 700 con la produzione di elementi di arredo maneggevoli, leggeri e pieghevoli, con ingombro minimo.
La sua maggiore diffusione avviene però in America a partire dal 1850, poiché si volevano realizzare mobili il cui comfort non fosse più affidato alle imbottiture ottocentesche ma ad elementi articolati secondo l’anatomia umana.

Questi mobili brevettati si diffusero in particolar modo presso il ceto medio, che disponendo di uno spazio abitativo minimo aveva esigenza di sfruttare al meglio lo spazio con configurazioni differenti.
Il mobile iperfunzionale istaura l’idea del mobile singolo completamente svincolato da un contesto: è così che nasce l’oggetto di design che prescinde dall’arredamento. L’industria non produce più una gamma di modelli diversi di una stessa linea formale ma si specializza in una sola produzione. Un esempio è la seggiola Wilson del 1871, una poltrona da invalido convertita in un oggetto d’arredo.

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9
Q

CAP. 7

MOBILI E OGGETTI SCANDINAVI

A

L’architettura e il design dei paesi scandinavi hanno degli aspetti simili a quelli europei poiché rientrano nel movimento moderno, e si distinguono per altri fattori:

  • non aver assunto come referente la macchina;
  • non aver seguito la mimesi formale-concettuale della realtà industriale;
  • mancata frattura tra artigianato e industria;
  • continuava la propria tradizione;
  • uso prevalente di alcuni materiali (legno);
  • rivendicazione del design degli oggetti domestici;
  • assunzione della natura come referente dei progetti.

Emblematica è l’opera del danese Klint che si pone come via di mezzo tra l’Art Déco di Ruhlmann e il modernismo asettico di Le Corbusier e dei disegnatori del Bauhaus.
Diede origine allo stile moderno scandinavo che cominciò ad emergere verso la fine degli anni Venti e dilagò in tutta Europa e in America.

Non avendo nessun’ambizione di apparire moderno per amore della modernità, incoraggiava i suoi allievi a studiare i mobili del passato poiché era convinto che “gli antichi fossero più moderni di noi”.
Tradizione e funzionalità erano i punti da cui muoveva il suo insegnamento. Egli voleva creare un oggetto chiuso atemporale, uno strumento per “abitare”. Egli unifica tanti modelli nello stesso stile (poltrona da riposo per i ponti
delle navi, tavoli ovali, corner chair), adoperando la tecnologia del legno. Emula la n.14 di Thonet con la sua Poltroncina Safari.

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10
Q

CAP. 7.1

MOBILI E OGGETTI SCANDINAVI 2

A

Un altro designer scandinavo fu Finn Juhl, che si basò sulle contemporanee esperienze dell’arte astratta e sull’antropomorfismo.
Caratteristica dei suoi progetti dal 1945 al 1955 è la trasformazione della normale poltrona imbottita, munita di struttura invisibile, in una costruzione in cui il telaio in legno e le superfici per sedere sono separate e contrapposte sul piano formale. Se la struttura portante sintetizza la funzione statica, non deve impastarsi con le superfici che accompagnano la figura umana (discontinuo per elementi).
Un fenomeno tra i più tipici del design scandinavo è la coesistenza tra mobili singoli, concepiti come design-product e mobili concepiti come elementi d’arredo di un intero ambiente.
Quando il mobile singolo scandinavo si accosta ad altri simili allora diventa armonica parte di un tutto, quando si trova in un contesto composto da mobili costruiti estero, stenta ad armonizzarsi con essi.
Accanto agli esperti mobilieri e designers vanno registrati gli architetti-designers, tra cui Aalto.
Buona parte dei suoi mobili ed oggetti furono realizzati, otrovano spunto, nella costruzione della biblioteca di Viipuri,del sanatorio di Paimio e di villa Mairea.
L’oggetto aaltiano non è interessato ad una serializzazione in quanto nasce per un preciso edificio per una determinata committenza.
Inizialmente si ispira a Thonet,alle sedie in tubolare di Stam e Breuer, studia il procedimento della fabbricazione degli scii, fino a toccare il punto tecnicamente più alto del suo primo periodo: la piegatura del legno, utilizzando l’umidità naturale del legno di betulla finlandese.
Successivamente approda alla tecnica del compensato, il più famoso modello realizzato nel 1935 è la poltrona modello n.31 in cui sedile e schienale sono ricavati da un’unica lastra di compensato curvato, collegata a due strisce più spesse di legno laminato, a forma di U a sbalzo.

La continuità per parti caratteristica di tutto il suo disegno, si deve non solo all’impiego di uno stesso materiale, quanto all’elasticità che intrinsecamente possiede e alla forma che ne deriva.
Molto significativa, soprattutto per ragioni tecniche è l’evoluzione dei suoi sgabelli. Quelli disegnati negli anni 30 hanno i sostegni nelle solide bande di compensato curvato e il sedile circolare sovrapposto ad esse; quelli degli anni 50 hanno i sostegni di elementi compensati, ma composti in modo da aprirsi superiormente a ventaglio tanto da formare il piano del sedile e dei tavoli.
L’industria che realizza la gran parte degli oggetti e dei mobili di Aalto è l’Artek.
Con un’intensa opera di educazione e sensibilizzazione si cercò di diffondere in tutta la popolazione i principi di un abitare adeguato ai tempi.

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11
Q

CAP. 8

IL DESIGN ITALIANO

Ducrot

A

Un’importante influenza nel panorama italiano del primo Novecento fu data dalle Officine Ducrot di Palermo, un’azienda tra le prime in Europa nella produzione industriale di arredi di alto livello di stampo modernista. Ducrot
dota l’azienda di un Ufficio Tecnico (uno dei primi in Europa), e inizia la collaborazione con l’architetto Ernesto Basile, il quale crea gli oggetti d’arredo più rappresentativi mettendo a punto dei modelli definiti tipi, finalizzati alla produzione in serie.
Nasce il binomio Basile-Ducrot, che porterà l’azienda al successo internazionale e alla fornitura di raffinati e moderni arredi per prestigiosi committenti sia privati che pubblici. Tra questi Villa Igiea (in cui le capriate sono decorative, ma hanno anche funzione statica), l’ala nuova di Palazzo Montecitorio a Roma e sedi di importanti istituzioni private come gli uffici FIAT a Milano.

Ducrot istituirà una sorta di monopolio nel settore dei grandi incarichi, eliminando la concorrenza delle industrie francesi.
Le Officine Ducrot continueranno la loro attività, con alterne fortune, fino agli anni 70.
Il successo della Ducrot in Italia si basò su criteri come bellezza, qualità, forma e funzione, goticismi, omogeneità, riproducibilità e opera d’arte.
Durante le diverse esposizioni italiane tra il 1902 e il 1909, propone mobili dall’estetica moderna, con un’idea di vendita di un oggetto singolo piuttosto che di una stanza completa. In particolare, durante la Prima Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna a Torino, Basile progetta una serie di mobili economici con meno decorazioni conosciuto con il nome “Tipo Torino”.

Importanti con Basile, furono anche il progetto del mobilio del Teatro Massimo di Palermo e la sua produzione di ville, realizzate interamente in bianco, che volevano evidenziare un legame con la tradizione e con il territorio: di queste strutture, ciò che interessava Basile erano gli aggetti, ossia le sporgenze.
Tutto ciò che è decorazione ha funzione
statica.

Nelle aziende italiane, infatti, la produzione si basa su una manifattura “industriale”, ossia in parte sul lavoro della macchina e in parte su processi artigianali: tra le eccellenze vi era la tessitura (praticata ad esempio dall’Ars Emilia, azienda che comprendeva diversi laboratori che coniugavano artigianato ed estetica moderna).
Negli anni ’30, la questione del design è ancora vista in termini di “arte decorativa”.
I progetti degli anni fra le guerre sono informati all’etica “dell’orgoglio della modestia”. Il prodotto più emblematico di questo periodo è la Fiat Topolino del 1934, progettata da Giacosa e programmata per essere la prima auto popolare italiana.

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12
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CAP. 8.1

IL DESIGN DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE

A

Dopo la seconda guerra mondiale (ora si parla di design) si privilegiano due settori: industrializzazione dell’edilizia,
arredamento della casa popolare.

I prodotti più tipici del clima post-bellico sono:

-l a Vespa, di D’Ascanio, Piaggio del 1945, echeggiante lo Streamlining;

  • la Lambretta, di Pallavicino, Innocenti del 1947, a struttura portante tubolare

Né l’una né l’altra configurazione sarebbero mai venute in mente ad un progettista di motociclette, ma solo a due
ingegneri aeronautici temporaneamente disoccupati.
Lo scooter era adatto si agli uomini che alle donne, potendo essere guidato da seduti e consumava poco carburante;
era in grado di percorrere ogni tipo di strada.

  • Collegata a quest’invenzione vi era la minivettura Isetta, sul mercato solo dal ‘53 al ’56, capolavoro di economia, con
    portellone unico e sterzo snodabile e incorporato.

Oltre a questi esempi, che rappresentano la versione “povera” del design italiano, vi era la faccia del “lusso necessario” (la Berlinetta Cisitalia 202 di Pininfarina e la Giulietta Sprint dell’Alfa Romeo).
In questo dopoguerra, la linea “economica” trova la sua prima espressione nella RIMA (Riunione italiana mostre di arredamento) sorta nel 1946 che organizzava, nel Palazzo della Triennale, la prima esposizione avente per obiettivo la proposta di alcuni prototipi di arredo per case economiche con elementi semplici e componibili.
I risultati non risposero alle aspettative, ma la manifestazione costruì un’occasione di incontro dei maggiori designers nel settore: i fratelli Castiglioni, Magistretti e Gardella.
Nel 1949 nasce Azucena, una ditta fondata da Magistretti, Dominioni e Gardella, che utilizzando le migliori risorse
dell’artigianato lombardo, cominciò a produrre mobili ed oggetti d’arredo di prestigio ed alto costo.
Essa può essere considerata l’anticipatrice della tendenza del recupero del passato, divenuta poi sempre ricorrente.

La dicotomia tra mobili “poveri” e “ricchi” subisce una notevole trasformazione negli anni ’50, quando, caduto l’ideale di un “arte per tutti” e diventato ogni prodotto ugualmente costoso, essa perdeva la sua importanza etico-sociale.

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CAP. 8.3

MOBILI “POVERI”
MOBILI “RICCHI”

A

MOBILI POVERI:

  • Superleggera di Giò Ponti del 1957
  • Poltroncina Luisa di Albini del 1951
  • Poltrona Lady di Zanuso del 1951
  • Sedia Elettra di BBPR del 1954
  • Lampada Arco dei fratelli Castiglioni del 1962
  • Sedia Selene di Magistretti del 1969
  • Sedia Plia di Piretti del 1969
  • I mobili e gli oggetti di Munari e Mari (Falkland e Java)

MOBILI RICCHI:

  • Poltrona e divano Bastiano di T. Scarpa del 1960
  • Poltrona San Luca dei Castiglioni del 1960
  • -Serie Maralunga di Magistretti del 1973
  • Serie Fiandra di Magistretti del 1975
  • Tavoli la Basilica e il Colonnato di Bellini del 1977
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CAP. 8.4

ALTRA CARATTERISTICA DEL DESIGN ITALIANO NEL SETTORE DEL MOBILE

A

Un’altra caratteristica del design italiano, specie nel settore del mobile, è data dall’uso di materiali diversi.
Nei confronti della produzione scandinava, resa così tipica dalla presenza del legno, o del Giappone, in cui prevalgono le
materie plastiche, l’oggetto industriale italiano, nazione in cui non c’è abbondanza di alcun materiale, si produce con ogni sorta di materia prima.
Altro aspetto tipico importante del design italiano è la sua frequente associazione a forme e motivi dell’avanguardia delle arti visive.

molti designers esordiscono come pittori e grafici (Mari e Munari), si può dire che quasi ogni tendenza figurativa trovi un riscontro nel design. Rifacendosi al New Dada, la Pop Art e l’Arte Povera, Gatti, Paolini e Teodori disegnano nel 1969 la poltrona Sacco; De Pas, D’Urbino e Lomazzi la poltrona Joe nel 1970, a forma di guanto da baseball; i Castiglioni nel 1970 ironizzano con un sedile chiamato mezzadro; Sottsass inventa mobili di ascendenza pop o di esotiche culture, come la libreria Carlton; Mendini, alfiere del radical design, produce la poltrona Proust nel 1979 con cui mira a rivalutare il kitsch.

A causa di questa forte influenza e di altre ragioni politico-ideologiche, il design in Italia, non è stato tanto inteso come
una professione, quanto un’operazione artistico-culturale, o addirittura rivoluzionaria contestazione.
Tutte le connotazioni dell’avanguardia sono state spesso i “contenuti” del design, contribuendo alla sua impopolarità.
In reazione a tale ipertrofia estetica, sono le industrie, e non i progettisti, a determinare le linee di tendenza.

Ad essere separati non sono l’industria e il design, bensì il momento progettuale e quello produttivo.
In Italia la produzione è stata scarsa o è avvenuta a livelli particolari.

Nel 1958 nasce il Centro Stile Fiat che ha come compiti sia il perfezionamento dei modelli già in produzione, sia lo
studio e la realizzazione di nuovi modelli. Oltre che per la qualità delle vetture prodotte, esso va menzionato come
luogo di formazione di alcuni tra i maggiori designers di auto. Nel 1968 viene fondata l’Ital Design, un centro progettuale indipendente che presta la sua opera ad una serie di aziende.

Nel campo del mobile, in molti casi la valenza estetico-formale dipende dal più corretto impiego di una determinata
tecnica.
La poltrona Lady di Zanuso deve molto all’impiego della gommapiuma e del nastrocord.
Molti altri modelli dichiarano in maniera evidente la tecnica che li conforma o i meccanismi che li rendono articolabili:

  • Sedia Plia di Piretti del 1969
  • Serie per ufficio BBPR del 1960
  • Poltrona Aeo di Deganello del 1973
  • Serie Vertebra di Ambasz e Piretti del 1979
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CAP. 8.5

PRODOTTI CON MECCANISMO E CARROZZERIA

A

Per quanto riguarda i prodotti con meccanismo e carrozzeria essi sono inclusi in molti campi merceologici: dalle macchine da scrivere e da calcolo, agli elettrodomestici, dalle apparecchiature per lavoro a quelle domestiche.
Comune a tutti è l’occultamento per ragioni estetiche e di sicurezza del loro nucleo meccanico ed elettronico.
La carrozzeria non è più una forma “bella” che racchiude il meccanismo, ma è una conformazione sempre più aderente
ad esso.
Le macchine da scrivere Olivetti, disegnate da Nizzoli, come la Lettera 22 del 1950, hanno la parte meccanica distinta dalla scocca; quelle di Sottsass, tranne la Valentine del 1969, hanno una forma che esprime la natura elettrica del motore; nelle macchine elettroniche disegnate da Bellini, la parte esterna è studiata secondo i principi dell’antropometria e dell’ergonometria (come la Divisumma).

Altre aziende e prodotti che hanno contribuito alla qualità del design italiano sono: la macchina da cucire Mirella di Nizzoli nel 1957 per la Necchi, quella progettata da Zanuso, insieme al televisore Algol.

Le principali azioni culturali e socio-produttive, tendenti a conciliare tra loro gli operatori, questi con l’industria e gli interessi del pubblico con la logica del design, furono svolte anzitutto dalle Triennali; in particolare dalla 9° (1951), dalla 10° (1954) e dalla 11° (1957), che ebbero un peso notevole per l’incentivo dato alla produzione, promozione e
vendita.
Un’altra iniziativa importante è stata la fondazione dell’ADI nel 1956. Tale associazione ha gestito il premio Compasso d’Oro. Istituito nel 1954, è stato il più importante strumento di promozione e vendita, il maggior punto di contatto tra il momento pratico e quello culturale del design italiano.
Promosso da La Rinascente, il Compasso d’Oro nacque come riconoscimento da assegnare al produttore o progettista del modello premiato, modello che doveva distinguersi per i valori estetici di una produzione tecnicamente perfetta.

Per ciò che concerne le esportazioni, la vendita del prodotto italiano all’estero fu molto agevolata dalle mostre e manifestazioni. Negli anni ’50-’60 la manifattura italiana verrà portata in America, mediante il piano Marshall, per diffondere il Made in Italy: si diffonde così l’idea del prodotto italiano come prodotto d’eccellenza e di nicchia, di
qualità superiore rispetto ai normali prodotti industriali, diventando un caso internazionale.

In Italia la figura del designer si forma quando ottiene la possibilità di entrare in azienda e conoscer da vicino i sistemi
produttivi.
Un esempio è la Olivetti, la prima azienda ad avere un logotipo e una font. La macchina da scrivere non nasce come soluzione ad un problema ma incidentalmente a partire dalla macchina ludica del 1575; diventa nel 1855
uno strumento medico e solo nel 1873 viene creato il primo prototipo da una azienda americana di armi, la Remington. Dopo la guerra di secessione la vendita d’armi diminuì: Remington quindi dovette trovare il modo di
continuare a vendere producendo a partire dalle stesse materie prima, dagli stessi operai, dagli stessi fornitori, dallo stesso know-how. Nel 1873 comincia a diffondersi come oggetto d’ufficio.

Camillo Olivetti ingegnere meccanico cerca di aprire una azienda sullo stampo americano e fordista: prova a formare diverse aziende tutte fallite per poi iniziare a vendere macchine da scrivere grazie ai contatti americani. Compra un brevetto di una macchina da scrivere italiano e nel 1902 fonda la sua società a Ivrea. Dopo due anni realizza il primo modello M1, più economico della Remington. Successivamente realizza la M20 più pratica e leggera in cui inserisce il tasto per andare a capo; le lettere vengono disposte in base a studi sulle parole più diffuse in italiano: le lettere meno usate sono ai bordi, le vocali non sono tutte insieme, inventa il tasto del maiuscolo e il nastro bicolore. Tra il 1920 e il 1930 realizza il modello M40 innovativo e leggero. Dopo il successo con il fascismo va a vendere in America rubando il
mercato a Remington.

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