Argomenti Trattati A Lezione Flashcards
Rivoluzione francese
La Rivoluzione Francese è uno degli eventi storici più importanti della storia occidentale, in cui l’assetto politico della Francia cambia in modo inedito. Inizia nel 1789, mentre individuarne la fine è più difficile: secondo molti storici possiamo dire nel novembre del 1799, quando con un colpo di stato Napoleone Bonaparte diventa Primo Console della Repubblica.
La Rivoluzione Francese segna la fine di istituzioni vecchie di secoli in Francia e non solo, come l’assolutismo e ciò che rimaneva del sistema feudale. Un po’ come la Rivoluzione Americana, la Rivoluzione Francese è stata anche il tentativo di realizzare ideali dell’Illuminismo come la sovranità popolare ed i diritti inalienabili.
La Rivoluzione Francese non riesce però a realizzare tutti gli obiettivi dei rivoluzionari, e a un certo punto degenera in un vero e proprio bagno di sangue. Nonostante questo però, il suo ruolo resta fondamentale nella nascita delle nazioni moderne, cambiando per sempre il modo di concepire il potere in Europa e nel mondo.
Prima che scoppiasse la Rivoluzione Francese, la Francia era sull’orlo della bancarotta per molti motivi. Uno dei più evidenti erano le enormi spese sostenute dalla corte del re Luigi XVI (1754-1793) e dei suoi predecessori: non soltanto un simbolo di prestigio ed un centro di svaghi, ma anche un vero e proprio strumento di dominio sulla nobiltà. La Francia aveva poi investito molto denaro per partecipare alla Rivoluzione Americana.
Oltre al denaro sperperato, però, c’erano altri problemi che portarono alla Rivoluzione Francese: i pessimi raccolti, il bestiame flagellato da epidemie ricorrenti per tutto il seguito, le conseguenti carestie, ed un prezzo del pane alle stelle. Tutto questo stava portando i contadini e gli abitanti poveri delle città verso l’agitazione, se non la disperazione.
Come risolvere questa situazione? Nell’autunno del 1786 Charles Alexandre de Calonne (1734-1802), un economista che svolgeva l’incarico di controllore generale delle finanze di Francia, propone al re un pacchetto di riforme finanziarie molto avanzate, che andavano ad eliminare alcuni privilegi delle classi privilegiate: Nobiltà e Clero. Per scongiurare una rivolta delle classi privilegiate, il re aveva bisogno di supporto per realizzare queste misure.
Per questo motivo, il re indice gli Stati Generali, un’assemblea dove i rappresentanti delle tre “classi” che costituivano la società francese: nobiltà, clero e borghesia, si riuniscono. Gli Stati generali vengono convocati per il 5 maggio del 1789: era in qualche modo un evento epocale, perché non venivano convocati dal 1604.
Il Terzo Stato alla riscossa: verso la Rivoluzione Francese
I membri del “Terzo Stato” (popolo e borghesia), rappresentavano il 98 % della popolazione. Nonostante questo, potevano essere tranquillamente sconfitti dal potere di veto degli altri due “ordini”.
Prima dell’incontro previsto per il 5 maggio, il Terzo Stato inizia a chiedere una rappresentazione più equa: un’assemblea dove a contare sarebbero stati i voti singoli, “per testa”, e non per “stato”. Questo andava contro gli interessi della nobiltà, che non era minimamente intenzionata ad abbandonare i privilegi di cui godeva tradizionalmente.
Quando gli Stati Generali si riuniscono finalmente a Versailles, il dibattito pubblico sui processi di votazione era degenerato: tra i tre ordini c’era ormai aperta ostilità. Lo scopo originale dell’assemblea si era ormai perso di vista: ad essere in discussione ormai era addirittura l’autorità del re.
Giuramento della Pallacorda nel 1789, in Francia
Il 17 giugno, mentre le procedure e le discussioni erano in pieno stallo, il Terzo Stato si riunisce autonomamente, senza gli altri due, ed assume formalmente il nome di Assemblea Nazionale. Il 20 giugno, l’Assemblea Nazionale si riunisce nella famosa sala della pallacorda, un ambiente della reggia utilizzato per praticare uno sport simile al tennis. I membri dell’Assemblea giurano solennemente di non disperdersi finché non ci sarà stata una riforma costituzionale.
Entro una settimana, all’Assemblea Nazionale si sono uniti moltissimi membri del clero e 47 nobili. Il 27 giugno, Luigi XVI è costretto a riconoscere l’assorbimento di tutti e tre gli ordini in un’unica nuova assemblea: l’Assemblea Nazionale Costituente.
La Rivoluzione Francese nelle strade: la presa della Bastiglia - 14 luglio del 1789
Il 12 giugno, mentre l’Assemblea Nazionale si riuniva a Versailles, per le strade di Parigi iniziavano a scoppiare i primi episodi di violenza, che davano di fatto il via alla Rivoluzione Francese. I cittadini, soddisfatti di come stavano andando le cose, temevano un imminente colpo di stato militare. I membri degli strati più popolari della società parigina, coloro che svolgevano lavori manuali, chiamati “sanculotti” semplicemente perché portavano i pantaloni lunghi al posto delle culottes, iniziavano ad armarsi e ad avere voce in capitolo per la prima volta.
A causa di questo clima teso, il 14 luglio alcuni rivoltosi assaltano la Bastiglia, una fortezza che fungeva da carcere, in cerca di munizioni e polvere da sparo: questi eventi, oggi commemorati in Francia attraverso una festa nazionale, sono considerati da molti studiosi il vero e proprio inizio della Rivoluzione Francese.
Presto il clima di tensione si espande e l’isteria collettiva si sparge per le campagne. I contadini, in rivolta dopo anni di tasse e sfruttamento, assaltano le abitazioni degli esattori delle tasse e dei proprietari terrieri. Ricordata come la “Grande paura”, questa insurrezione agraria causa la fuga di molti nobili dalle campagne. L’Assemblea Costituente reagisce abolendo una volta per tutte il feudalesimo (4 agosto 1789): era la fine di un ordine costituito ormai superato.
la Costituzione
Il 4 agosto del 1789 l’Assemblea Costituente adotta la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. In questo modo i principi dell’Illuminismo, ispirati da pensatori politici come Jean-Jacques Rousseau, cambiavano in modo profondo ed irreversibile la cultura politica francese. Princìpi come le pari opportunità, la libertà di parola, la sovranità popolare ed il governo rappresentativo venivano finalmente riconosciuti, ed ispiravano ufficialmente i lavori dell’Assemblea Costituente.
La stesura della vera e propria costituzione non era stata semplice, anche perché era ancora in corso una durissima crisi economica. I problemi da risolvere, poi, non erano da poco. Chi avrebbe eletto i delegati in Parlamento? A chi avrebbe giurato fedeltà il clero, alla chiesa cattolica o al governo francese? Quanta autorità sarebbe rimasta al re, che nel giugno del 1791 avrebbe tentato maldestramente di fuggire dalla Francia, perdendo ulteriormente credibilità davanti al popolo?
Georges Jacques Danton (1759 -1794): politico e rivoluzionario francese
La Costituzione viene adottata dalla Francia il 3 settembre del 1791. Riflette alcune tra le posizioni più moderate dell’Assemblea Costituzionale. La nuova Francia sarebbe stata una monarchia costituzionale in cui il re avrebbe avuto il potere di veto e quello di nominare ministri. Iniziava tuttavia ad emergere l’insoddisfazione delle frange più radicali della Rivoluzione Francese, quelle che si riunivano nei club dei sanculotti, incarnate da pensatori come Robespierre e Danton, che ambivano ad una costituzione repubblicana, oltre che al processo pubblico di Luigi XVI.
Il grande terrore
Nell’aprile del 1792 una nuova Assemblea, l’Assemblea Legislativa, dichiarava guerra all’Austria e alla Prussia, colpevoli secondo i francesi di ospitare esuli che stavano organizzando una controrivoluzione. I membri più radicali dell’Assemblea, Giacobini e Cordiglieri, nutrivano la speranza di poter diffondere attraverso tutta l’Europa le idee della rivoluzione.
Sul fronte interno, però, la crisi era aperta: il 1’ agosto del 1792 una rivolta popolare, comandata dai Giacobini più estremisti, assalta la residenza reale di Parigi ed arresta il re e tutta la sua famiglia. Per tutto il mese di agosto continueranno ad esserci ondate di violenza, in cui chiunque venisse anche soltanto sospettato di essere contrario alla Rivoluzione Francese poteva essere giustiziato.
L’Assemblea Legislativa a questo punto viene rimpiazzata dalla Convenzione Nazionale, che proclama l’abolizione della monarchia. Il 25 settembre del 1792 viene proclamata la Repubblica Francese. Il 21 gennaio del 1793 Luigi XVI viene condannato a morte per alto tradimento: sia lui che sua moglie, Maria Antonietta, verranno ghigliottinati.
Nel giugno del 1793 i Giacobini assumono il controllo della Convenzione Nazionale, estromettendo i più moderati Girondini, ed istituendo una serie di misure radicali, tra cui l’istituzione di un nuovo calendario (oltre che del sistema metrico decimale in vigore ancora oggi), e la totale eradicazione del cristianesimo, che veniva sostituito da una vera e propria sacralità pubblica, o religione di stato.
La morte del re di Francia, la guerra aperta con gran parte delle potenze europee, ed una serie di divisioni in seno alla Convenzione Nazionale sono le cause scatenanti del periodo più duro e violento della Rivoluzione Francese: il cosiddetto “Terrore”: un periodo di 10 mesi in cui verranno giustiziati alla ghigliottina migliaia di oppositori del regime. Il responsabile di molte condanne è Robespierre, a capo della Comitato di Salute Pubblica finché non finirà ghigliottinato anche lui, il 28 luglio del 1794, in seguito alla Reazione termidoriana. I francesi, esausti, chiedevano la pace. I Giacobini perdono credibilità, e su di loro si abbatte la vendetta spontanea di coloro che desideravano un ritorno alla monarchia (il Terrore Bianco). La Francia si avviava verso il ritorno al potere della borghesia liberale.
La fine della Rivoluzione Francese e l’avvento di Napoleone
Il 22 agosto del 1795 la Convenzione Nazionale, composta per la stragrande maggioranza da Girondini che erano sopravvissuti al Terrore, approva una nuova costituzione, stavolta bicamerale. Il potere esecutivo sarebbe passato nelle mani di un “Direttorio” composto da 5 membri, e nominato dal parlamento. Le proteste degli oppositori, in particolare Giacobini e Realisti, venivano soffocate dall’esercito, in cui iniziava ad emergere un giovane generale di successo, Napoleone Bonaparte.
Durante i 4 anni di governo del direttorio, i problemi saranno molti: crisi finanziarie, insoddisfazione da parte del popolo, inefficienza burocratica ed una forte corruzione. Alla fine degli anni ‘90 del ‘700, il Direttorio riusciva a mantenere il potere quasi soltanto per merito dell’esercito.
Napoleone Bonaparte, 1810: Primo Console della Repubblica francese
Il 9 novembre del 1799, Napoleone Bonaparte organizza un colpo di stato che culminerà con l’abolizione del direttorio. Napoleone assume la carica di Primo Console. L’evento è generalmente considerato come la fine della Rivoluzione Francese, o meglio la sua evoluzione verso una nuova fase. Con Napoleone la Francia, profondamente ridefinita dai numerosi cambiamenti degli ultimi anni, ma allo stesso tempo dominata dal potere di Bonaparte, arriverà al dominio di quasi tutta l’Europa continentale.
Rivoluzioni industriali
Nel corso della storia abbiamo avuto tre rivoluzioni industriali: la prima rivoluzione industriale fu quella della macchina a vapore e del carbone e si sviluppò a partire dalla fine del Settecento e caratterizzò gran parte dell’Ottocento; la seconda fu quella del motore a scoppio, dell’elettricità e del petrolio, e iniziò attorno al 1870 e divenne tipica della prima metà del Novecento; la terza è quella dell’energia atomica, dell’astronautica e dell’informatica, e ha avuto inizio al termine della seconda guerra mondiale.
Prima rivoluzione industriale
Mentre la Rivoluzione Francese stava sconvolgendo tutto il continente europeo, un’altra grande rivoluzione si faceva strada: la prima rivoluzione industriale. Essa rappresentò un grande cambiamento nel modo di produrre: per la prima volta si utilizzò una nuova fonte di energia, il carbone, e un nuovo mezzo, la macchina a vapore. La prima rivoluzione industriale si avviò verso il 1870 in Inghilterra e in seguito si diffuse nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti.
La prima rivoluzione industriale scoppiò in Inghilterra perché questo paese era avvantaggiato da alcuni fattori che ne favorirono lo sviluppo economico, quali: era all’avanguardia negli studi scientifici e tecnici, e quindi le sue industrie furono le prime a utilizzare importanti scoperte;
era stato attraversato nel Seicento da un grande rinnovamento politico che consentì sul suo territorio quella libera concorrenza nei commerci, ancora vietata nella maggior parte degli altri Paesi;
era un’isola, e quindi la navigazione permetteva facili collegamenti;
era ricco di carbone, una materia prima fondamentale per la produzione di energia;
inoltre l’Inghilterra possedeva dei campi “aperti” cioè che potevano essere coltivati da tutti. Questi campi vennero “chiusi” e messi all’asta. Li compravano solo coloro che possedevano un certo capitale e investivano il loro denaro nelle industrie.
Il Settecento venne definito un’età dell’oro delle invenzioni. Infatti, ci furono numerose scoperte nel settore tessile. Questi inventori erano persone geniali, ma quasi totalmente prive di istruzione. Dopo qualche decennio, tuttavia, non fu più sufficiente la sola capacità inventiva. Nel momento in cui furono messi in atto interventi più complessi, si dovette ricorrere alla scienza.
Nel 1796 James Watt, dopo lunghe ricerche scientifiche e tecniche, inventò la macchina a vapore. James Watt era infatti un uomo di grande cultura che proveniva dalle moderne università scozzesi. La sua macchina utilizzava il vapore come forza motrice. Le industrie che fino ad allora dovevano essere collocate nei pressi di un corso d’acqua per sfruttarne l’energia attraverso il mulino, ora potevano essere costruite dove era più vantaggioso, cioè nelle città. L’energia impiegata dalle nuove industrie veniva fornita da un combustibile, il carbone, di cui l’Inghilterra era ricca.
A questo punto la macchina a vapore e il carbone divennero i fattori determinanti dello sviluppo economico. In pochi decenni la macchina a vapore venne applicata ai telai e ai mezzi di trasporto. La locomotiva a vapore, per esempio, fu inventata nel 1814 da George Stephenson che fu inaugurata sul tragitto Liverpool-Manchester.
Grazie a questa serie di innovazioni l’Inghilterra divenne il Paese più sviluppato del mondo, imponendo il proprio predominio anche nei commerci. Per realizzare un’attività industriale occorrono dei capitali, cioè un adeguata disponibilità di denaro. Bisogna comprare le macchine e la materia prima da lavorare, avere un locale dove effettuare le lavorazioni, pagare i lavoratori. Inizialmente in Inghilterra non furono necessarie forti somme di denaro per costruire le fabbriche. I macchinari erano ancora pochi e la concorrenza limitata. Successivamente, invece, il ricorso ai capitali si resero necessari per lo sviluppo delle ferrovie e anche per il rapido rinnovarsi delle industrie, resosi urgente per l’incalzare della concorrenza. Tutto questo denaro veniva richiesto alle banche, ma ciò non bastava ancora. Per questo motivo vennero create le cosiddette società per azioni, che permisero alle aziende di aprirsi al contributo di più persone. Il valore di una azienda veniva diviso in tante quote, chiamate azioni: queste potevano essere vendute o acquistate da chiunque nella quantità voluta. Man mano che la rivoluzione industriale avanzava, sempre più si faceva sentire la necessità dell’intervento statale. In primo luogo per rimuovere tutti gli ostacoli che impedivano il libero commercio.
Lo Stato intervenne massicciamente sulle infrastrutture, cioè stradi, ponti, canali navigabili, porti. L’azione dello Stato fu particolarmente incisiva nell’ambito dell’istruzione. La costruzione delle scuole a tutti i livelli venne considerata un fondamentale investimento per il futuro, che avrebbe dato i suoi frutti con personale competente e produttivo. Infine lo Stato intervenne per sostenere l’iniziativa privata. Quando uno Stato possedeva tutti i mezzi e personale preparato, si trovava nelle condizioni di svilupparsi economicamente. Lo sviluppo industriale richiedeva uomini che sapessero unire all’abilità tecnica, tipica dei grandi inventori, la scienza caratteristica delle persone di cultura. Ma tutto ciò era inutile se non si possedeva lo spirito di iniziativa, cioè la capacità di intuire un buon affare e di investirvi tempo e denaro. Lo spirito di iniziativa era ed è la qualità che caratterizza gli imprenditori. Prima che la rivoluzione industriale si diffondesse, le condizioni di vita dei lavoratori non erano facili. Essi erano in genere contadini e il lavoro della terra era molto duro, a volte drammatico, soprattutto quando le carestie rendevano vana la loro fatica. Tuttavia il ritmo del lavoro era scandito dal ciclo diurno del sole e del succedersi delle stagioni. In questo periodo si assiste ad un esodo dalle campagne in città per lavorare nelle industrie. L’alba segnava l’inizio della giornata lavorativa e il tramonto il suo termine; il lavoro era sempre diverso, a seconda dei periodi dell’anno.
Tutto ciò mutò radicalmente con l’industrializzazione. Basti pensare ai seguenti aspetti:
l’obbligo di rimanere al chiuso tra le pareti della fabbrica;
i rumori assordanti delle macchine;
gli ambienti malsani delle fabbriche di cotone, mantenuti umidi per non far spezzare i fili;
il lavoro faticosissimo nelle miniere, dove la crescente richiesta di carbone fece aumentare il numero di minatori.
La vita dei proletari, come venivano chiamati allora gli operai, era difficile e squallida. I proletari erano coloro che vendevano la propria manodopera in cambio di uno stipendio. La loro esistenza non era facile. L’orario lavorativo arrivava anche alle 15 ore giornaliere. I giorni festivi erano trascorsi perlopiù a letto, nel tentativo di smaltire la stanchezza, se non la febbre. Anche donne e bambini vennero impiegati senza alcun riguardo. Anzi nei primi decenni dell’Ottocento costituivano la maggior parte dei lavoratori dell’industria tessile. Le donne e i bambini infatti si comandavano facilmente e costavano meno degli uomini. Per quanto possa oggi apparire incredibile, era normale lavorare dopo appena i 6 anni. Le nuove macchine dell’industria migliorarono le condizioni di vita dei lavoratori. Nel contempo però provocarono disoccupazione. Infatti, l’introduzione di un nuovo macchinario aveva come conseguenza la diminuzione del numero dei lavoratori impiegati. La situazione era dunque paradossale: alle terribili condizioni di vita causate dall’orario di lavoro si aggiungeva anche la sciagura del licenziamento. Il disagio sociale si manifestò in un primo tempo con la distruzione da parte dei lavoratori dei telai e delle macchine. Tale forma di protesta prese il nome di luddismo. Nel corso dell’Ottocento, le condizioni di vita dei lavoratori migliorarono: vennero emanate leggi che limitavano lo sfruttamento; le ore giornaliere di lavoro diminuirono e le macchine sollevarono l’uomo dai lavori più massacranti. Nuove attività sostituirono quelle precedenti e la richiesta di manodopera aumentò.
Rivoluzione agricola
Oltre ad una rivoluzione industriale ci fu anche una rivoluzione agricola. In soli cinquant’anni la produzione agricola raddoppiò. Questo fu possibile grazie all’abolizione degli obblighi dei contadini nei confronti dei nobili che li rese liberi di coltivare la terra. Poi cambiò la tecnica di coltura: mentre nel Medioevo c’era la rotazione triennale dei campi, cioè la coltivazione si ruotava su tre campi lasciandone sempre uno a riposo; verso la metà del Settecento ci si accorse che rendeva di più coltivare con le leguminose anche la parte lasciata a riposo in precedenza. In questo modo il terreno diventava più fertile, questa tecnica venne chiamata: rotazione quadriennale. Si fece più ricorso alla chimica per la produzione di prodotti fertilizzanti. Le tecniche di irrigazione migliorarono sensibilmente. Furono costruiti nuovi mezzi: l’aratro di fabbricazione industriale, la seminatrice e la falce.
Seconda rivoluzione industriale: scoperte e fiducia nel progresso
Il decollo della seconda rivoluzione industriale avvenne attorno al 1870. Ma già dal 1850 ci furono scoperte straordinarie. Negli Stati Uniti furono perforati i primi pozzi petroliferi.
La luce elettrica fece la sua comparsa nel 1878 costruita da un americano. Il telefono venne sperimentato dall’italiano Antonio Meucci, che venne perfezionato e brevettato dall’Americano Graham Bell. Due tedeschi produssero il primo motore a scoppio: iniziava l’era dell’automobile. I fratelli Lumière costruirono il primo apparecchio cinematografico. Due americani riuscirono a far decollare il primo aereo. La scienza e la tecnica unite insieme avevano reso possibili queste scoperte. Perciò si diffuse una grande fiducia nei confronti di queste discipline. Questa assoluta fiducia prese il nome di Positivismo. La scienza e la tecnica, infatti, erano considerate un sapere “positivo”, cioè utile all’uomo. Le industrie utilizzarono rapidamente le scoperte scientifiche.
Così, la scoperta della luce elettrica portò immediatamente alla produzione delle lampadine: la scoperta dell’acciaio permise la produzione delle automobili e degli aerei; e dall’estrazione del petrolio prese slancio l’industria chimica. Con l’avvio della seconda rivoluzione industriale il modo stesso di produrre mutò: accanto a macchine sempre più evolute, in grado di prendere il posto dell’operaio, comparve la catena di montaggio, cioè un sistema meccanizzato di produzione che divideva un lavoro complesso, come produrre un’auto, in tanti lavori semplici. Al lavoratore non era richiesta alcuna competenza. Egli doveva rimanere sempre allo stesso posto, mentre gli scorreva davanti una catena, la “catena di montaggio” appunto, che gli portava i pezzi da montare.
Società di massa
Con la seconda rivoluzione industriale nacque la società di massa, il tipo di società in cui viviamo oggi. Nella società di massa le industrie producono una enorme quantità di prodotti tutti uguali e disponibili per un gran numero di persone. Anche la cultura e le informazioni sono alla portata di tutti attraverso mezzi di comunicazione quali: giornali, radio, televisione. I mezzi di comunicazione sono detti con un’espressione anglo-latina, mass media. Infatti “media” è un termine latino, ma è diventato celebre perché utilizzato dall’inglese che significa mezzi. Nella società di massa il settore che predomina è il settore terziario. In una società come quella di massa la democrazia è senza dubbio il sistema politico che funziona meglio. Nella società di massa le notizie circolano con più facilità, la gente è sempre più istruita, si informa e vuole partecipare alla vita politica. La democrazia permette questa partecipazione attraverso il voto. Inoltre tra l’Ottocento e il Novecento la possibilità di esprimere il voto divenne universale, grazie al suffragio universale. In realtà però, inizialmente fu concesso solo agli uomini, successivamente alle donne. Per ottenere il diritto di voto alcune donne protestarono, queste vennero chiamate suffragette. Nella società industriale i lavoratori si riunirono in sindacati, associazioni il cui compito era difendere i diritti dei lavoratori.
Lo strumento principale della lotta sindacale era lo sciopero, cioè l’astensione del lavoro da parte dei lavoratori: allo sciopero i capitalisti rispondevano spesso con la serrata, cioè con la chiusura delle fabbriche.
Grazie ai sindacati, i lavoratori non erano più soli a trattare con il proprio datore di lavoro. Uniti, acquistavano maggior forza e potevano ottenere risultati migliori: dall’aumento dei salari alla diminuzione dell’orario di lavoro. Nel momento in cui si affermò la seconda rivoluzione industriale, molti si interrogarono sulla sua validità. Qual era il compito dello Stato? Doveva intervenire per limitare la libertà di opinione e di iniziativa economica? Era giusto che alcuni guadagnassero molto e altri poco? A queste domande cercarono di rispondere le diverse tendenze politiche. Tra Settecento e Ottocento si affermarono la tendenza liberale e quella democratica. A partire dall’Ottocento tutte le altre: quella socialista, quella anarchica e quella cattolica.
Terza rivoluzione industriale: caratteristiche
Le principali caratteristiche della terza rivoluzione industriale sono:
alcune scoperte scientifiche e tecniche hanno aperto all’umanità prospettive che nella prima metà del Novecento erano impensabili. Per rimanere solo alle più note, l’astronautica e l’informatica;
il principale settore dell’economia, per numero di persone che vi lavorano, è il terziario. Questo settore dell’economia comprende tutti i servizi: scuola, sanità, trasporti, telecomunicazioni;
il mondo è diventato un villaggio globale, in quanto la cultura di massa si è diffusa quasi in ogni suo angolo. E la maggior parte della gente imita il modo di vivere degli americani.
Guerre di indipendenza
Dopo molte esitazioni, Carlo Alberto si convinse a dichiarare guerra all’Austria sulla spinta degli avvenimenti di Milano. La decisione nasceva sia dalla volontà di non rimanere estraneo al moto di indipendenza nazionale, sia da quella di riprendere il tradizionale progetto espansionistico sabaudo, indirizzato alla conquista della Lombardia.
L’esercito piemontese oltrepassò il Ticino il 28 marzo 1848, mentre muovevano in suo appoggio gruppi di volontari e corpi di spedizione inviati da quegli stati italiani (Stato della Chiesa, Regno delle Due Sicilie e Granducato di Toscana), nei quali era entrata in vigore la costituzione.
VITTORIE E SCONFITTE NELLA PRIMA GUERRA DI INDIPENDENZA ITALIANA
Con le vittorie al ponte di Goito e a Pastrengo i piemontesi costrinsero l’esercito austriaco, comandato dal maresciallo Radetzky, a indietreggiare, abbandonando parte della Lombardia, e a rifugiarsi nelle fortezze del Quadrilatero (Legnago, Mantova, Peschiera e Verona).
L’avanzata piemontese si arrestò nei pressi di Verona, a Santa Lucia. Intanto da Gorizia sopraggiungevano i rinforzi austriaci, alla guida del generale Nugent, che sconfissero le truppe pontificie a Cornuda sul Piave, per poi ricongiungersi agli uomini di Radetzky, così da determinare una schiacciante superiorità numerica sull’esercito piemontese e sui contingenti italiani.
Il 29 maggio a Curtatone e Montanara truppe di volontari toscani e napoletani, in gran parte studenti, furono impegnati in una violenta battaglia con i soldati austriaci, ma furono sopraffatte.
A Goito i piemontesi conseguirono un’importante vittoria il 30 maggio. Tuttavia, per una serie di errori strategici, non venne sfruttata: questo permise agli austriaci di riorganizzarsi prima di lanciare una pesante controffensiva, conclusa a loro favore nella battaglia di Custoza del 25 luglio.
L’esercito piemontese in ritirata tentò un’ultima resistenza alle porte di Milano, prima che Carlo Alberto consegnasse la resa a Radetzky. Il 9 agosto il generale Carlo Canera di Salasco firmò un armistizio che consentiva alle truppe sarde di ritirarsi entro i confini, al di là del Ticino.
In questa prima fase della guerra si svolsero anche le operazioni militari condotte da Giuseppe Garibaldi, che si mise alla testa di 1500 volontari che portarono alla temporanea liberazione di Varese. I patrioti italiani furono poi costretti a lasciare il paese e fuggire in Svizzera.
Carlo Alberto, su pressione del parlamento subalpino e delle manifestazioni popolari, riprese nuovamente il conflitto nel marzo del 1849, assegnando il comando delle truppe al generale polacco Chrzanowski, le cui scarse doti di stratega militare avrebbero pesato sull’esito delle operazioni.
La nuova campagna di guerra iniziò il 20 marzo e si concluse in soli tre giorni. Radetzky, che aveva a disposizione una forza di artiglieria nettamente superiore, avanzò in Piemonte e, dopo una serie di brevi scontri, affrontò vittoriosamente l’esercito piemontese a Novara il 23 marzo.
Travolto dalla sconfitta, Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II, che a Vignale concordò l’armistizio firmato a Novara e seguito dalla pace di Milano del 10 agosto. Le clausole prevedevano che il Piemonte venisse temporaneamente occupato dalle forze austriache nelle province orientali, che fossero sciolti i contingenti di volontari e che terminasse la mobilitazione dell’esercito sabaudo.
LA SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA ITALIANA
Le premesse della seconda guerra di Indipendenza italiana sono racchiuse nella politica che Cavour, primo ministro del governo piemontese dal 1854, mise in atto per restituire allo stato sabaudo un ruolo di primo piano in Italia, dopo che le sconfitte del 1848-1849 ne avevano minato la credibilità. Con la partecipazione alla guerra di Crimea, il Regno di Sardegna poté tornare a inserirsi nelle relazioni internazionali, per rilanciare il progetto di unificazione italiana.
Cavour, per rafforzare il fronte antiaustriaco, con gli accordi di Plombières del 1858 strinse un’alleanza con l’imperatore francese Napoleone III, che si impegnò a combattere a fianco dell’esercito piemontese, ma solo in caso di aggressione austriaca e in cambio della cessione di Nizza e della Savoia. Il progetto prevedeva una sistemazione dell’Italia in quattro stati (il Regno sardo, il Ducato di Parma con la Toscana, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie), per impedire la nascita di una nuova grande potenza territoriale e garantire al papa e alla Francia il ruolo di garanti dei nuovi equilibri.
Portare la situazione al punto in cui potesse realizzarsi la premessa degli accordi franco-piemontesi, ossia che l’Austria sia la prima a dichiarare guerra, si rivelò più complesso del previsto. Un’intensa azione diplomatica svolta dalla Gran Bretagna tentò di scongiurare il conflitto tra Austria e Francia, temendo che questo potesse portare a combattere una guerra di dimensioni ben più ampie.
All’opera di pacificazione svolta dagli inglesi si aggiunse l’iniziativa della Russia che cercava di risolvere la questione italiana in un congresso europeo. Tuttavia, le difficoltà insorte principalmente per l’opposizione di Cavour e del papa fecero tramontare la proposta.
Cavour non accettò il veto che l’Austria aveva posto sul congresso alla presenza del Regno di Sardegna, mentre il papa Pio IX si oppose a un’interferenza da parte delle potenze straniere negli affari interni del suo stato.
Si propose anche un disarmo generale in Italia, ma questa proposta non ebbe seguito, questa volta per l’opposizione dell’Austria, che il 23 aprile 1859 lanciò un ultimatum al Piemonte, che chiedeva il disarmo immediato, pena la guerra. Cavour utilizzò l’ultimatum austriaco per intensificare i preparativi militari, ai quali erano partecipi anche truppe di volontari agli ordini di Garibaldi, i Cacciatori delle Alpi.
La risposta negativa data da Cavour all’ultimatum il 26 aprile 1859 determinò lo scoppio della guerra, dichiarata dall’imperatore Francesco Giuseppe il 28 aprile e iniziata con l’improvviso ingresso in Piemonte delle truppe austriache al comando del generale Gyulai. L’esercito sardo schierò 63.000 soldati, mentre i francesi inviarono un corpo di spedizione di 120.000 uomini, con cannoni e sussistenza, trasferiti rapidamente al fronte grazie alla rete ferroviaria e si posizionarono nel Piemonte meridionale il 30 aprile. Lo stesso Napoleone III assunse il comando dei due eserciti.
All’avanzata austriaca, che portò alla conquista di Biella e di Vercelli, l’Italia rispose una manovra su tre fronti, che aveva lo scopo di costringere le truppe di Gyulai a ripiegare a sud: Garibaldi con i Cacciatori delle Alpi occupò Varese e Como.
Napoleone III trasferì il grosso delle truppe a Novara, mentre le forze piemontesi coprivano il centro dello scacchiere occupando Palestro, nei pressi di Pavia (siamo al 30-31 maggio). Il primo scontro a Montebello (il 20 maggio) vide respinta un’offensiva degli austriaci, che vennero poco dopo attaccati a Palestro (il 30-31 maggio) in un’azione diversiva, che voleva favorire l’avanzata dell’esercito franco-piemontese verso Milano.
La prima grande battaglia fu combattuta il 4 giugno a Magenta: gli austriaci sconfitti ripiegarono verso le fortezze del Quadrilatero, mentre Napoleone III e Vittorio Emanuele II facevano ingresso a Milano l’8 giugno e Garibaldi con i suoi uomini liberava Como, Bergamo e Brescia.
TERZA GUERRA DI INDIPENDENZA
Francesco Giuseppe, che aveva esonerato Gyulai e assunto il comando diretto dell’esercito austriaco, aiutato dal generale Hess, si preparò a nuovi scontri sul campo. Le due ultime sanguinose battaglie si combatterono il 24 giugno: a Solferino i piemontesi e a San Martino i francesi vinsero contro gli austriaci che ripiegarono al di là del Mincio, sulla linea di difesa dell’Adige.
Napoleone III cinse d’assedio Peschiera. Intanto nell’Adriatico una flotta franco-piemontese si avvicinava a Venezia.
La sera del 5 luglio, tuttavia, Napoleone III decise di ritirarsi dal conflitto, preoccupato sia per le perdite subite, sia per le proteste guidate da gruppi liberali e democratici in Toscana, nei Ducati di Parma e Modena e nello Stato Pontificio, sia infine per timore di una discesa in guerra dell’esercito prussiano a fianco dell’Austria.
Senza preavvertire Cavour, incaricò il suo aiutante in campo, il generale Fleury, di aprire negoziati per un armistizio con Francesco Giuseppe. I due imperatori si incontrarono a Villafranca l’11 luglio, accordandosi sui preliminari di pace, firmata a Zurigo il 10 novembre 1859. Secondo questi accordi la Lombardia veniva ceduta alla Francia, che successivamente l’avrebbe consegnata al Piemonte; Si doveva formare poi una confederazione di stati italiani presieduta dal papa e che a Parma e in Toscana tornassero i legittimi sovrani. Le ultime due clausole non ebbero seguito, perché le popolazioni emiliane e toscane insorte chiesero l’annessione al Piemonte, che Napoleone finì per accettare in cambio di Nizza e della Savoia.
Il progetto dell’Unità d’Italia venne poi rilanciato per iniziativa dei democratici e portato a compimento con la spedizione dei Mille di Garibaldi, che nel 1860 avrebbe portato alla liberazione del Sud dalla dominazione borbonica.
I plebisciti per l’annessione al regno sabaudo e l’intervento di quest’ultimo con l’occupazione di parte dello Stato Pontificio sfociarono nella costituzione del Regno d’Italia, proclamato il 17 marzo 1861 dal parlamento unitario, eletto nel gennaio dello stesso anno.
depretis, crispi, giolitti
Depretis, Crispi e Giolitti furono gli indiscussi protagonisti della seconda fase dell’Italia post-risorgimentale. Inizialmente guidata dalla Destra Storica, a partire dal 1876 l’Italia venne governata quasi esclusivamente da uomini provenienti dalla Sinistra Storica, che accompagnarono il popolo italiano in una fase molto delicata della sua storia.
Governo Depretis
Dopo 15 anni di potere della Destra Storica, il leader indiscusso della Sinistra liberale, Agostino Depretis, prese quindi il potere nel 1876, facendosi portavoce della media borghesia e godendo al contempo delle simpatie della piccola borghesia cittadina senza diritto di voto. Ma come si articolò il programma politico e l’operato di Depretis volto, sulla carta, a far incamminare il Paese verso un allargamento dei diritti, sulla strada della liberal-democrazia?
Innanzitutto lavorò ad una nuova legge elettorale, approvata nel 1881 ed entrata in vigore per la prima volta nel 1882. In base a questa nuova legge, il diritto di voto rimase sì per capacità e censo, ma quest’ultimo venne sostanzialmente dimezzato (si passa da 50 lire a 20 lire annue), arrivando a concedere il diritto di voto proprio a quella borghesia cittadina che era espressione più diretta della Sinistra Storica. Avrebbe tuttavia potuto votare solo chi avesse esibito la licenza del biennio elementare.
L’Italia di Depretis
In tal senso, nel 1887 il Governo Depretis favorì un progetto di legge portato avanti dal ministro Coppino. La legge Coppino, che prese il nome proprio dal Ministro e restò in vigore fino al 1910-11, prevedeva la gratuità e l’obbligatorietà del primo biennio di scuole, nonché qualche cambiamento all’interno dei programmi scolastici (ad esempio la sottrazione della religione cattolica dalle materie obbligatorie). Depretis abolì poi, nel 1884, la durissima tassa sul macinato che era stata promulgata da Quintino Sella nel 1868 e che aveva messo in ginocchio la popolazione italiana. Per quanto concerne la politica estera, nel 1882 Depretis sottoscrisse un accordo con la Germania e l’Impero austro-ungarico, che prese il nome di Triplice Alleanza.
Ciò per cui, però, viene ricordato il Governo di Depretis è il cosiddetto trasformismo: la spregiudicata capacità degli uomini politici dell’epoca di modificare il proprio pensiero pur di rientrare sempre nella coalizione o nel gruppo vincente. Dopo le elezioni del 1882, le prime con la nuova legge elettorale, si cominciò infatti a vedere chiaramente una sempre maggiore vicinanza tra uomini della destra e della sinistra liberale che, pur di rimanere al potere, erano disposti ad allearsi con il “nemico” e formare così un grande partito di centro dai connotati liberali.
Governo Crispi
Con l’interno di portare voti al Governo anche dal Mezzogiorno, nel 1887 Depretis prese la decisione di nominare Francesco Crispi, uno dei padri del Risorgimento italiano convertitosi alla causa liberale e monarchica, Ministro dell’Interno.
Fortuna per Crispi volle che, pochi mesi dopo, Depretis morì e così, sorretto dal gran consenso dell’opinione pubblica, nello stesso anno divenne nuovo capo del Governo. Cominciò così una nuova stagione politica per l’Italia, caratterizzata da un trasformismo più ampio, e dall’ingresso dell’Italia nella Seconda Rivoluzione Industriale e, di conseguenza, da una forte modernizzazione del Paese.
Tra gli interventi politici più importanti di Crispi ricordiamo: l’ampliamento dell’elettorato dello Stato amministrativo, il conferimento di maggior potere agli enti locali, la promulgazione delle prime leggi per l’assistenza al lavoro femminile e minorile e la creazione di un codice penale, il Codice Zanardelli, che portò l’Italia ad essere un Paese pioniere dell’abolizione della pena di morte. Sono tutti elementi che ci danno la sensazione di un grande sforzo legislativo tendenzialmente orientato al progresso del Paese.
L’Italia di Crispi
Nello stesso tempo Crispi cominciò però a governare attraverso ad un ricorso sempre più massiccio al decreto legge, escludendo dunque il più possibile la discussione parlamentare, e ad adottare misure apertamente repressive contro le forze extra-sistema, facendo ricorso all’utilizzo dell’esercito e degli stati di assedio.
Sul fronte economico, Crispi fu un grande fautore delle protezioni doganali che, in quegli anni, stavano prendendo sempre più piede in tutta Europa trasformando il protezionismo in una vera e propria battaglia doganale. Il primo ministro si impegnò inoltre in una forte campagna coloniale verso l’Africa occidentale, in Eritrea; un progetto esoso che gravò sulle tasche dei cittadini italiani, colpite da ingenti tassazioni.
Da Crispi a Giolitti
Messo in minoranza proprio per via di queste tassazioni, nel 1991 Crispi fu costretto a cedere il proprio mandato ad un uomo della destra, Antonio Di Rudinì. Il suo Governo durò solo un anno e mezzo, per poi lasciare il posto a quello di sinistra firmato Giovanni Giolitti. Anche questo fu, però, un mandato molto breve: nel 1983, dopo uno scandalo che aveva coinvolto la Banca Romana, Giolitti fu costretto a dimettersi e Crispi tornò a governare l’Italia.
Crispi tornò quindi ai vecchi dettami: in pochi mesi pose lo stato d’assedio in Sicilia, sbaragliando con l’esercito la protesta dei contadini, sciolse il Partito Socialista e lo mise fuori legge. Anche sul fronte della politica estera, il leader della Sinistra Storica proseguì sul cammino da lui precedentemente tracciato, riprendendo la politica coloniale e protezionista. Ma quando il 1 marzo del 1896 l’esercito italiano portò a casa una dura disfatta dall’Etiopia, con una perdita di circa 5mila giovani italiani, il Re si vide costretto a imporre le dimissioni a Crispi.
Giolitti al potere
Negli anni successivi alle dimissioni di Crispi, al potere si succedettero diversi uomini: Di Rudinì, Pelloux, Saracco, Zanardelli ed infine, a partire dal 1903, Giovanni Giolitti. Ebbe così inizio il quindicennio che siamo soliti chiamare Età Giolittiana, un lungo periodo caratterizzato da una forte crisi sociale ed economica e che accompagnò il popolo italiano fino all’instaurarsi del regime fascista.
Fu uno dei Governi più lunghi della storia politica italiana: per questo motivo, per il maggiore approfondimento che l’età giolittiana merita, vi lasciamo questi appunti e lezioni.
L’italia giolittiana
Negli ultimi anni dell’ottocento si fece strada tra le forze conservatrici italiane la tentazione di risolvere in senso autoritario le tensioni politiche e sociali. Essa si manifestò con la dura repressione militare dei moti per il pane del 1898, quando a Milano il generale Beccaris fece sparare sulla folla provocando numerosi morti e feriti e con il tentativo del governo Pelloux di far approvare delle leggi limitative della libertà. L’opposizione incontrata alla camera e le elezioni del 1900 portarono a un mutamento di rotta che, dopo l’assassinio di Umberto I, fu confermato dal nuovo re Vittorio Emanuele III.
Il nuovo re Vittorio Emanuele III era assai più aperto del padre nei confronti delle forze progressiste. Nel 1901 il richiamo alla guida il leader della sinistra liberale Giuseppe Zanardelli, che affidò il ministero dell’interno a Giovanni Giolitti. Secondo Giolitti lo Stato liberale non aveva nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e nulla da guadagnare da una repressione indiscriminata delle loro attività, ma al contrario aveva tutto l’interesse a consentire il libero svolgimento, purché non uscissero dei confini della legalità. Questo atteggiamento di apertura favorì lo sviluppo delle organizzazioni sindacali: le camere del lavoro, le organizzazioni di categorie, le leghe tra i lavoratori agricoli, che diedero vita nel 1901 alla federazione italiana dei lavoratori della terra. Questo sviluppo dell’attività sindacale fu accompagnato da un brusco aumento degli scioperi con la conseguenza di un notevole incremento dei salari operai agricoli.
Negli ultimi anni dell’ottocento iniziò il decollo industriale italiano, preparato dalla costruzione di una rete ferroviaria, dalla scelta protezionistica, dal riordinamento del sistema bancario. Lo sviluppo industriale, se non annulla il divario con i paesi più ricchi, provocò un aumento del reddito e un miglioramento del tenore di vita dell’italiani. Cresceva, tuttavia, l’emigrazione, conseguenza di una sovrabbondanza della popolazione rispetto alle capacità produttive dell’agricoltura, che soprattutto nel mezzogiorno restava arretrata. Qui analfabetismo, disgregazione sociale, assenza di una classe dirigente moderna, difesa degli interessi della grande proprietà terriera è una politica clientelare impedirono di colmare il divario con il Nord industrializzato.
Su una realtà complessa e contraddittoria come quella dell’Italia all’inizio del 900 si esercitò per oltre un decennio l’opera di governo di Giovanni Giolitti, la più notevole figura di statista mai apparsa in Italia dopo la morte di Cavour. Chiamato alla guida del governo nel novembre 1903, dopo le dimissioni di Zanardelli, Giolitti cercò di portare avanti l’esperimento liberale progressista avviato dal precedente ministero e anche di allargare le basi offrendo un posto nella compagine governativa e socialista Filippo turati. Rifiutò l’offerta perché temeva di non essere seguito dal suo partito. Giolitti finì col costituire un ministero aperto alla destra. Una mossa che dà la misura dei limiti entro cui si moveva riformismo Giolittiano, sempre condizionato dal peso delle forze moderate e sempre attento alla conservazione degli equilibri parlamentari, al punto da sacrificare progetti anche importanti quando si rivelassero incompatibili con la solidità della maggioranza: tipico fu il caso della riforma fiscale che fu lasciata cadere nonostante costituisse uno dei punti qualificanti del programma di Giolitti.
Giolitti rimase a capo del governo, con alcune interruzioni, dal 1903 al 1914; in questo tempo varò importanti riforme: le leggi per il mezzogiorno volte a modernizzare l’agricoltura e a favorire l’industrializzazione attraverso stanziamenti statali agevolazioni fiscali, la statizzazione delle ferrovie, la conversione della rendita (per alleggerire il bilancio statale riducendo i tassi di interesse sui titoli di Stato), l’introduzione del suffragio universale maschile nel 1912 e il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. Il suo riformismo però fu condizionato dalla costante attenzione agli equilibri parlamentari su cui si reggeva la maggioranza di governo.
Si parla di età Giolittiana in quanto in questo periodo lo statista piemontese esercitò sulla vita del paese un’influenza ancora maggiore di quanto non dica la sua più lunga permanenza alla guida del governo. Giolitti esercitò una dittatura parlamentare molto simile a quella realizzata da Depretis tra il 1876 e il 1887, anche se diversa, e decisamente più aperta nei contenuti. Questa dittatura trovò molti critici tra le forze politiche e soprattutto fra gli intellettuali.
Sul piano della politica estera, l’Italia si avvicinò tra fine ‘800 inizio ‘900, alla Francia, pur restando fedele alla triplice alleanza. Muta contemporaneamente l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle imprese coloniali, che cominciarono ad essere caldeggiate soprattutto dal nuovo movimento nazionalista. Proprio la campagna di stampa dei nazionalisti fu, con la pressione degli interessi della finanza cattolica, tre fattori che spinsero il governo all’intervento militare in Libia nel 1911.
E nel settembre del 1911 l’Italia inviò sulle coste libiche un contingente di 35.000 uomini, scontrandosi però contro la reazione dell’impero turco, che esercitava su quei territori una sovranità poco più che nominale. La guerra fu più lunga e difficile del previsto. Solo nell’ottobre del 1912 turchi e consentirono a firmare la pace di Losanna, rinunciando alla sovranità politica sulla Libia.
Nel partito socialista italiano la corrente riformista guardo con simpatia alla politica Giolittiana e presto crebbe però entro il partito la forza delle correnti di sinistra, che portarono nel 1904 al primo sciopero generale nazionale d’Italia (in seguito alla morte di alcuni minatori in Sardegna). La fondazione della Cgil nel 1906 segna un rafforzamento della presenza riformista; anche gli industriali cominciarono organizzarsi e il 1910 fu creata la Confindustria. Inoltre si accentuavano le fratture interne al PSI. Nel 1912 i rivoluzionari riuscirono a imporre l’espulsione dal partito socialista italiano dei riformisti di destra, che diedero vita al partito socialista riformista italiano. I riformisti rimasti nel partito socialista italiano furono nuovamente ridotti in minoranza e la guida del partito tornò in mano a degli intransigenti. Fra questi venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo che si era distinto nelle manifestazioni contro la guerra libica ed era stato tra i protagonisti del congresso di Reggio Emilia: Benito Mussolini. Chiamato alla direzione del quotidiano del partito che si chiamava “avanti”, Mussolini portò nella propaganda socialista uno stile nuovo, basato sull’appello diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese a prestito dal sindacalismo rivoluzionario. Uno stile che si inseriva bene nel clima politico creato in Italia all’indomani della guerra e in campo cattolico si sviluppò il movimento democratico-cristiano, condannato dal nuovo Papa Pio X. Ebbero un grande sviluppo contemporaneamente, le organizzazioni sindacali bianche, cioè cattoliche sul piano politico le forze clericomoderato e stabilirono alleanze elettorali, in funzione conservatrice, con i liberali: questa nuova linea politica avrebbe avuto piena consacrazione nelle elezioni del 1913 con il patto Gentiloni.
La crisi del governo Giolittiano
I mutamenti in atto nel sistema politico italiano alla vigilia della grande guerra (sviluppo del nazionalismo, accresciuto peso dei cattolici, prevalenza dei rivoluzionari del PSI) segnarono la progressiva crisi della politica Giolittiana, sempre meno in grado di controllare la radicalizzazione che si stava verificando. Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta settimana rossa del giugno 1914. La morte di tre dimostranti in uno scontro con la forza pubblica durante una manifestazione antimilitarista e antimonarchica ad Ancona provocò un ondata di scioperi e di agitazioni in tutto il paese. Tutto questo provocò agitazioni che si esaurirono comunque in pochi giorni. L’unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze conservatrici in seno alla classe dirigente, spaventato dal ritorno di fiamma del sistema vecchia maniera, e di accentuare le fratture all’interno del movimento operaio
La grande guerra avrebbe reso irreversibili la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una strategia politica che aveva avuto il merito innegabile di favorire la democratizzazione della società, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo economico, ma che, tutta fondata sulla mediazione parlamentare, si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.
Le grandi potenze europee della seconda metà dell’800
Nella seconda metà dell’800, le maggiori potenze europee si impegnarono nella lotta per l’egemonia. Il ruolo più attivo fu svolto dalla Francia del secondo impero, che però, nel suo tentativo di indebolire l’Austria con una politica estera ambiziosa e aggressiva, finì con il facilitare l’ascesa della Prussia. Una prima manifestazione di questa strategia si ebbe con la guerra di Crimea (1854 1855). La Prussia si incamminava, invece, sulla via dell’unificazione, in particolare con l’ascesa al governo di Bismark (1862).
La guerra del ‘66 tra Prussia e Austria portò alla formazione di una confederazione della Germania del Nord. Nel ‘67 si giunse alla divisione dell’impero asburgico da tempo in difficoltà, in due parti, una austriaca e l’altro ungheresel 1870 Bismark e riuscì a provocare una guerra con la Francia, ultimo ostacolo ai suoi progetti di unificazione tedesca, che fu rovinosamente sconfitta a Sedan. A Versailles nel 1871 nasceva il nuovo Reich tedesco. La sconfitta comportò per la Francia la caduta di Napoleone III, la proclamazione della Repubblica e la cessione dell’Alsazia e della Lorena. Più in generale, rappresenta un’umiliazione nazionale che, per il desiderio di rivincita che alimentava, avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese.
Tra le conseguenze della sconfitta militare francese vi fu la ribellione di Parigi è la proclamazione della comune, radicale e breve esperimento di democrazia diretta rivoluzionaria (marzo-maggio 1871). Isolata dal resto del paese la comune tento inutilmente di coinvolgere nella rivolta la popolazione delle altre città e le campagne perlopiù di tendenza conservatrice moderate e presto viene sconfitta dalle gruppo governativo dopo durissimi combattimenti. Questa vicenda contribuì a diffondere nell’opinione pubblica moderata un senso di paura e di odio per i rivoluzionari.
la Germania unita era il più potente stato dell’Europa continentale. La supremazia del potere esecutivo sul legislativo e un blocco sociale dominante formato dal mondo dell’industria e della finanza e dell’aristocrazia degli Junker , non impedirono la nascita, negli anni ‘70, di due nuovi partiti: il centro cattolico e il partito socialdemocratico. In politica interna Bismark lavorò per affermare il carattere laico dello Stato e fronteggiare nuovo pericolo rappresentato dalla socialdemocrazia affiancando le tendenze autoritarie una legislazione sociale molto avanzata, secondo un modello di stampo paternalistico. In politica estera creò un sistema di alleanze per isolamento della Francia. Fondato sul patto dei tre imperatori del 1873, questo sistema si scontra con le rivalità che opponevano nei Balcani gli altri due contraenti (Austria Russia), che determinarono la guerra russo-turca (1877) e il successivo congresso di Berlino (1878). Nel 1882 la Germania stipulò il trattato della triplice alleanza con Austria Italia.
La Francia si riprese rapidamente della sconfitta del 1870. La nuova costituzione della Francia un sistema di governo di compromesso fra il modello presidenzialista all’americana e quello parlamentare. La scena politica era dominata dai repubblicani, opportunisti e radicali, che riuscirono gradualmente consolidare il nuovo regime, spesso però messo a repentaglio della notevole instabilità dei governi e dalla grande corruzione che dominava il mondo politico e finanziario.
In Gran Bretagna, gli anni dal 1850 al 1870 videro il rafforzamento del sistema parlamentare, con una lunga presenza dei liberali al governo, una notevole prosperità economica e il varo di alcune importanti riforme, soprattutto quella elettorale, che allargava di quasi 1 milione il numero degli aventi diritto al voto. Fra il 1866 e il 1886 si alternarono al potere il conservatore Disraeli, fautore di una politica imperialistica non privo di apertura e sociali, e il liberale Gladstone, che realizzò nuove riforme, tra cui un ulteriore ampliamento del suffragio dopo quelli attuati da Disraeli, e tentò senza fortuna di concedere l’autonomia l’Irlanda.
In Russia, all’arretratezza sociale politica faceva riscontro una grande vivacità della vita culturale ed è dibattito ideologico. L’avvento al trono di Alessandro Secondo nel 1855 alimentò forti speranze di rinnovamento, soprattutto in conseguenza delle riforme attuate dal nuovo sovrano, tra le quali l’abolizione della servitù della gleba (1861) presto tuttavia si torna home indirizzo autocratico con il conseguente accrescimento del distacco tra potere statale è borghesia colta.
L’Europa e il mondo agli inizi del ‘900
Prima della prima guerra mondiale nel 1914, l’Europa visse una fase di forti contraddizioni. Furono anni di intenso sviluppo economico e di continua crescita del commercio mondiale, ma anche di inasprimento delle tensioni internazionali e della conflittualità sociale all’interno dei singoli Stati; l’incessante progresso scientifico e tecnologico e di critica nei confronti del progressismo positivista. Le spinte alla democratizzazione che portarono poi al diritto di voto in molti paesi, incontrarono le resistenze dei conservatori e in alcuni casi furono duramente represse, come in Russia o come in Germania nell’impero asburgico.
Questa compresenza di spinte diverse tra loro e tra loro contraddittorie ha fatto sì che nella realtà europea di quest’epoca si costruissero due rappresentazioni contrapposte. Da un lato quella idilliaca e nostalgica di un’età di progresso e di spensieratezza, di pace e di benessere: la belle époque, l’epoca bella come sarebbe stata definita successivamente in implicito confronto con le tragedie del primo conflitto mondiale e con gli anni agitati del dopoguerra. Dall’altro quella di una stagione dominata dal militarismo, dall’imperialismo e dalla più spietata logica di potenze.
In realtà la guerra fu il prodotto della combinazione di eventi casuali e di cause profonde. E queste ultime vanno ricercate principalmente negli storici contrasti tra le grandi potenze europee e nella nuova configurazione del sistema di alleanze, quale si venne delineando a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo.
In seguito alla crisi del sistema Bismarkiano le alleanze in Europa cambiarono. In Europa si venne a costituire uno schieramento, chiamato triplice intesa, che comprendeva Francia, Russia e Gran Bretagna e che si contrapponeva alla triplice alleanza, che univa Germania, impero austroungarico e Italia.
Il primo quinquennio del 900 vide inoltre manifestarsi i primi segni di declino dell’Europa di fronte all’emergere di popoli extraeuropei. I timori provenivano dal risveglio di popoli dell’estremo oriente: Giappone e Cina. La minaccia veniva sentita a livello demografico e, più in generale, alla supremazia dei popoli bianchi. Si iniziò a parlare di pericolo giallo, un’espressione coniata dall’imperatore di Germania Guglielmo II.
Uno dei punti di frizione riguardava il Marocco, uno degli ultimi Stati indipendenti africani, da secoli governato da dinastie islamiche, oggetto delle mire francesi e proprio per questo scelto dalla Germania come ultimo possibile terreno di scontro per contrastare lo strapotere dei rivali in campo coloniale. Per due volte, nel 1905 e nel 1911, il contrasto franco-tedesco sul Marocco sembra portare l’Europa sull’anno della guerra. Alla fine la Francia ottenne un protettorato sul territorio conteso.
Nel primo decennio del 1900 avvenne anche la rivoluzione in Turchia: la cosiddetta rivoluzione dei giovani turchi che volevano proporre la trasformazione dell’impero in una moderna monarchia costituzionale. Questa rivoluzione non fece altro che accentuare le spinte indipendentiste e di accelerare la fine della presenza ottomana in Europa.
Negli stessi anni l’Austria-Ungheria vide l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina che provocò un inasprimento dei rapporti con la Serbia e con la Russia. Anche l’Italia subì a malincuore l’iniziativa austriaca.
Il caso Dreyfus
Il caso Dreyfus è stato uno scandalo politico e giudiziario che ha avuto luogo in Francia alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX secolo. Il protagonista principale era il capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo dell’esercito francese.
Nel 1894, Dreyfus fu accusato ingiustamente di tradimento per aver presunto passato segreti militari alla Germania. Il caso si basava principalmente su prove circonferenziali e su un documento incriminante noto come “bordereau”. Dreyfus fu condannato in un processo segreto e degradato pubblicamente nell’infamante cerimonia della “degradazione”.
Tuttavia, nel corso degli anni, emersero dubbi sulla sua colpevolezza. Nel 1896, un altro ufficiale dell’esercito scoprì prove che suggerivano che il vero traditore potesse essere il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy, ma le autorità dell’esercito fecero tutto il possibile per coprire questa scoperta.
Il caso Dreyfus divenne una questione di grande dibattito pubblico e politico in Francia, diviso in fazioni pro-Dreyfus e anti-Dreyfus, con divisioni profonde sulla base di questioni di classe sociale, religione ed antisemitismo. Il giornalista Émile Zola scrisse un famoso articolo intitolato “J’Accuse…!” nel 1898, in cui accusò il governo e l’esercito di coprire l’ingiustizia.
Infine, nel 1899, Dreyfus fu nuovamente processato e condannato, ma questa volta con una sentenza più mite. Nel 1906, dopo un ulteriore dibattito pubblico e pressioni, Dreyfus fu completamente riabilitato, ristabilito nell’esercito e decorato con la Legion d’Onore.
Il caso Dreyfus è diventato un simbolo di ingiustizia, antisemitismo e abuso di potere e ha avuto un impatto duraturo sulla politica e sulla società francese. Ha anche influenzato il movimento per i diritti umani e ha dimostrato l’importanza di una giustizia equa e della difesa dei diritti civili.
In Germania, dopo l’uscita di Bismark dalla scena politica, il “nuovo corso“ di Guglielmo II non segnò un effettivo mutamento di indirizzi: anzi la più aggressiva politica estera della Germania Guglielmina-perseguita grazie a un accelerato riarmo navale-rafforzava la tradizionale alleanza tra grande industria, aristocrazia Terriera e vertici militari, e finiva con l’ottenere l’appoggio di tutte le forze politiche. Da questa forte base di consenso venivano però esclusi i socialdemocratici, che nonostante ciò riuscirono ad allargare il proprio elettorato. Nell’impero asburgico invece, lo sviluppo economico rimaneva limitato ad alcune aree, mentre il sistema politico e la struttura sociale delle campagne erano caratterizzati da un sostanziale immobilismo. il problema più grave era rappresentato però dalle agitazioni autonomistiche e indipendentiste delle varie nazionalità anzitutto dagli slavi. Queste tensioni interne all’impero sarebbero state all’origine della prima guerra mondiale.
Grazie all’intervento diretto dello Stato e all’afflusso di capitali stranieri si ebbe, nella Russia degli anni ‘90, un primo decollo industriale. La società russa rimaneva però fortemente arretrata. Queste contraddizioni si rivelarono nella rivoluzione del 1905, che vide nascere i nuovi organismi rivoluzionari, i soviet. A far precipitare gli eventi contribuì lo scoppio della guerra con il Giappone del 1904, che fece immediatamente salire la tensione sociale nelle città provocando un aumento dei prezzi.in una domenica di gennaio del 1905, a Pietroburgo, un corteo di 150.000 persone si diresse verso il palazzo d’inverno, residenza dello zar Nicola secondo, per presentare al sovrano una petizione in cui si chiedevano maggiori libertà politiche e interventi per alleviare il disagio delle classi popolari. I manifestanti furono accolti e fucilati dall’esercito: i morti furono più di 100 e oltre 2000 i feriti Questo episodio viene chiamato anche domenica di sangue.
Come abbiamo visto, nel 1905, mentre era ancora scossa della rivoluzione, la Russia aveva subito una severa sconfitta militare ad opera del Giappone che, già la fine dell’ottocento, si era affacciato prepotentemente sulla scena della competizione imperialistica in Asia: aveva infatti mosso guerra all’impero cinese nel 1894 e lo aveva sconfitto dando una prima prova della sua efficienza bellica. Subito dopo il Giappone entrò in diretta concorrenza con la Russia per il controllo delle regioni del nord-est asiatico. Nel 1903, le due potenze non trovare un accordo sulla spartizione della Manciuria. Nel febbraio del 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò con la Russia del Mar giallo. Anche la flotta, giunta in maggio dal Mar Baltico, fu distrutta in una grande battaglia navale nello stretto di Tsushima, tra il Giappone e la Corea. Alla Russia non restò che accettare la mediazione offerto dagli Stati Uniti e firmare in settembre il trattato di Portsmouth, in base al quale il Giappone otteneva la Manciuria meridionale è una parte dell’isola di Sakhalin, situata di fronte le cose della Siberia, e si vedeva riconosciuto il protettorato sulla Corea.
Per l’impero zarista la sfortunata guerra contro il Giappone significò un ridimensionamento della propria posizione internazionale. Inoltre per la prima volta, un paese asiatico batteva in un’autentica guerra una grande potenza europea, distruggendo il mito della supremazia militare tecnologica europea e quello di una presunta superiorità della razza bianca. L’estremo oriente cessava di essere campo d’azione incontrastato per le potenze europee e si avvia a diventare terreno di competizione fra i due nuovi imperialismo in ascesa: quello giapponese e quello statunitense
La Cina dall’impero alla Repubblica
Dopo la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, iniziarono lotte nazionali e anticoloniale dei popoli asiatici. Movimenti indipendentisti si svilupparono nell’Indocina francese, nell’Indonesia olandese, nelle Filippine, da poco passate sotto il controllo degli Stati Uniti, e nell’India britannica. Ma fu soprattutto la Cina a subire in maniera determinante l’influsso del vicino Giappone, visto a un tempo come minaccia all’indipendenza nazionale e come modello da imitare sul piano dello sviluppo economico e azione politica. Da decenni ormai l’impero cinese era oggetto della pressione commerciale militare delle potenze europee, che miravano a spartirsi il territorio in zone di influenza. La sconfitta nella guerra del 1894 contro il Giappone non fece che accelerare la crisi e provocò, per reazione, la nascita di un movimento conservatore e xenofobo che si proponeva di restaurare integralmente le antiche tradizioni imperiali. Questo movimento conservatore e xenofobo era composto da persone che si chiamavano boxer, ossia pugili.
Nel 1900 le grandi potenze, compresi Stati Uniti e Giappone, si accordarono per un intervento militare congiunto che represse ogni tentativo di ribellione.
Tuttavia all’inizio del 900, si diffuse un movimento nazionalista e democratico, guidato da Sun yay-sen che mirava all’indipendenza nazionale e alla istituzione del paese di una democrazia rappresentativa. Nell’ottobre del 1911 la decisione del governo di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferroviaria cinese provocò una serie di sommosse nelle province centro-meridionale e l’ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito. nel 1912 un’assemblea rivoluzionaria dichiarò decaduta la dinastia Qing ed elesse sun yay-sen alla presidenza della Repubblica.
La presidenza della neonata Repubblica fu assunta da Sun yay-sen , ma le forze conservatrici presero preso il sopravvento, inaugurando così una lunga stagione di guerre civili.
Mentre l’Asia orientale assisteva la crescita inarrestabile della potenza nipponica, favorita anche dal crollo dell’impero cinese, sull’altra sponda del Pacifico si andava progressivamente rafforzando il ruolo egemonico degli Stati Uniti.
Il presidente Roosevelt salì al potere nel 1901 e mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo. Un esempio significativo di questa politica fu la vicenda del canale di Panama. Nel 1901 gli Stati Uniti avevano ottenuto dal governo della Colombia l’autorizzazione a costruire e a gestire per un periodo di 100 anni un canale che tagliasse l’istmo di Panama Aprendo un passaggio tra il Pacifico e il Mar dei Caraibi.
Sul piano interno, Roosevelt mostra particolare sensibilità e apertura verso i problemi sociali. Le divisioni nel partito repubblicano però favorirono nel 1912 l’elezione del democratico Wilson. Fu tuttavia questo presidente a guidare gli Stati Uniti nel 1917 nella prima guerra mondiale.
L’Europa degli anni ‘30: totalitarismi e democrazie
Nel corso degli anni 30, i sistemi politici democratici attraversarono un periodo di enorme difficoltà: l’ascesa del nazismo in Germania dimostrò che la democrazia poteva essere messa in discussione anche nei paesi più sviluppati. Caratteristiche fondamentali dei movimenti e dei regimi fascisti furono l’accentramento del potere nelle mani di un capo, la struttura gerarchica dello Stato, l’inquadramento forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, il rigido controllo sull’informazione e sulla cultura. Il fascismo esercitò una notevole attrazione, negli anni ‘30, soprattutto sui ceti medi: rappresentava una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un’esaltazione di alcuni suoi aspetti. Questa capacità di adattamento alla società di massa costituì una caratteristica specifica del fascismo e del nazismo, ma anche del regime sovietico nell’età di Stalin. Per la loro pretesa di dominare in modo totale la società, di condizionare comportamenti e mentalità dei cittadini, tali regimi sono detti totalitari.
Caratteristica comune ai regimi totalitari fu il disprezzo del valore della vita e della dignità umane e ricorso sistematico alla forza. In una visione della nazione come organismo unico la cui integrità va tutelata ad ogni costo, anche a prezzo dell’espulsione dei corpi estranei, si inquadra la fortuna dell’eugenetica, disciplina che persegue il miglioramento di una popolazione attraverso la selezione genetica. Il passaggio a una diffusa pratica di eliminazione fisica si ebbe solo nei regimi totalitari, in particolare nella Germania nazista. Diverse nelle motivazioni ma analoghe nelle conseguenze furono le politiche di sterminio adottate nell’unione sovietica di Stalin: qui le vittime erano scelte su basi ideologiche e di classe.
Il successo del nazismo è strettamente collegato alle conseguenze della crisi economica. Dopo il fallito colpo di Stato di monaco del 1923, che comportò per Hitler il carcere, e fino al 1930, infatti, il partito nazionalsocialista era un gruppo marginale, che si serviva della violenza contro gli avversari politici, grazie ai suoi reparti d’assalto, le SA. In carcere Hitler scrisse Main campf , ovvero la mia battaglia, in cui espose la sua ideologia fondata sull’esistenza della razza superiore ariana che avrebbe dovuto, nel suo programma, dominare sull’Europa e sul mondo, dopo aver sottomesso i popoli slavi per costruire il suo nuovo impero. Questo programma trovò ascolto nella popolazione tedesca solo dopo la crisi economica. Il partito di Hitler vide crescere i suoi consensi nelle numerose elezioni che si tennero tra il ‘30 e il ‘32, fino a diventare il primo partito tedesco. Nel gennaio del ‘33 Hitler fu chiamato a guidare il governo.
La trasformazione della Repubblica tedesca in dittatura avvenne nel giro di pochi mesi. Traendo pretesto dall’incendio del reichstag del febbraio del 1933, Hitler varò una serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione. Dopo la formazione elettorale del marzo (il partito nazista prese 44%), Hitler fece approvare una legge che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di modificare la costituzione. In luglio una legge sancisce il partito nazionalsocialista era l’unico partito consentito in Germania. In novembre, le nuove elezioni di tipo plebiscitario, accordavano al partito unico il 92% dei voti favorevoli. Nell’estate del ‘34 dopo la notte dei lunghi coltelli con cui si sbarazzò dell’ala estremista del nazismo che faceva capo alle SA, Hitler unificò nelle sue mani le cariche di cancelliere e di capo dello Stato.
Il terzo Reich creato da Hitler si posava sul rapporto diretto tra il Fuhrer del nazismo e le masse, inquadrate del partito unico e nei suoi organismi collaterali. Compito di queste organizzazioni era trasformare l’insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta che escludesse gli elementi estranei e i nemici, primi tra tutti gli ebrei. Contro la comunità ebraica tedesca, Hitler scatenò una massiccia campagna di odio, fino alla discriminazione legale sancito dalle leggi di Norimberga del 1935 con le quali gli ebrei perdevano la nazionalità tedesca e tutti i diritti politici. Non vi fu, durante il nazismo, alcuna forma di opposizione politica e anche le chiese cristiane finirono perlopiù con adattarsi a regime. All’efficienza dell’apparato repressivo (controllato dalla Gestapo e dalle SS) si aggiunsero i consensi ottenuti dal regime per i successi di Hitler in politica estera e soprattutto per la ripresa economica, e la capacità dei miti antimoderni della ideologia nazista di toccare le corde profonde del popolo tedesco, unita a una capillare propaganda e al controllo assoluto della cultura. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono scanditi da cerimonie pubbliche che assumevano per i cittadini il valore di un rito sacrale: sfilate militari, esibizioni sportive, adunate di massa.
In Urss, alla fine degli anni ‘20, Stalin decise di industrializzare il paese a tappe forzate e di collettivizzare settore agricolo. I kulaki, i contadini agiati, furono individuati come un ostacolo a questo piano ed eliminati con una feroce repressione. Unita allo scoppio di una tremenda carestia del 1932-33, tale repressione costò milioni di vittime, decimando la popolazione delle campagne e determinando un sensibile abbattimento della produzione agricola. positivi furono, invece, in termini economici i risultati dei piani quinquennali per l’industria: con il primo, varato nel 1928, la produzione al 1932 risultava aumentato del 50%; con il secondo (1933-37), la produzione aumentò di un altro 120%.
Gli anni ‘30 videro anche il continuo rafforzamento della dittatura personale di Stalin, che assunse ruolo di capo assoluto, procedendo alla eliminazione di ogni dissenso. Stalin non solo èpurò dal partito tutti i suoi rivali ma li elimino fisicamente insieme a migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero incalcolabile di semplici cittadini sospetti. Nel 1934 iniziarono le grandi purghe, una gigantesca repressione poliziesca che colpì negli anni milioni di persone. Fra l’inizio della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il conto totale delle vittime aumento a 10-11 milioni.
Le prime iniziative hitleriane in politica estera - a cominciare dal rito della società delle nazioni - rappresentarono una minaccia di equilibrio internazionale costruito negli anni ‘20. A partire dal 1935 la causa della sicurezza collettiva trovò sostegno della nuova politica estera sovietica, che si riflesse nella linea dettata ai partiti comunisti dalla terza internazionale: in nome della lotta al fascismo fu incoraggiata la formazione di alleanze-i fronti popolari-tra i comunisti e le forze socialiste democratico-borghesi. Nel 1936 governi di fronte popolare si formarono, prima in Spagna, poi anche in Francia sotto la guida del socialista Leon Blum, che cadde però l’anno successivo senza essere riuscito a portare a termine il suo programma di riforme sociali.
Tra il 1936 e 1939, la Spagna fu sconvolta da una sanguinosa guerra civile un conflitto basato su una forte contrapposizione ideologica che presto si trasformò in uno scontro tra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice. Alla visione del fronte popolare nel febbraio del 1936, seguì una ribellione militare. I golpisti, guidati dal generale Franco, ebbero il decisivo appoggio di Italia e Germania, mentre i repubblicani poterono contare solo su rifornimenti sovietici e sui reparti di volontari antifascisti (brigate internazionali). Nel 1939 la guerra civile terminò con la vittoria di Franco grazie anche dei profonde divisioni esistenti all’interno del fronte repubblicano, soprattutto tra comunisti e anarchici.
Negli stessi anni della guerra in Spagna, la linea della pacificazione (appeasement) seguita da Francia e Gran Bretagna nei confronti della Germania finì con l’incoraggiare la politica espansionistica del nazismo. Nel 1938 si compiva l’annessione dell’Austria alla Germania; subito dopo Hitler avanzava mire sul territorio cecoslovacco abitato da popolazioni tedesca (i sudeti). Gli accordi di monaco nel settembre del 1938 che accettavano le richieste tedesche, finirono con lo spianare la strada a un nuovo conflitto mondiale.
Guerra civile americana
A metà dell’800 gli Stati Uniti erano divisi in tre zone:
- nord-est: zona più ricca e industrializzata influenzata dal capitalismo imprenditoriale dominata da gruppi industriali, commerciali e bancari
- sud: società agricola e tradizionalista che fondava la sua economia e organizzazione sulle grandi piantagioni di cotone e la manodopera era costituita da schiavi neri
- ovest: liberi agricoltori e allevatori di bestiame
C’erano contrasti tra nord e sud sulla questione degli schiavi e si aggiunsero poi contrasti tra le forze politiche.
Da una parte c’erano i partiti democratici favorevoli allo schiavismo, dall’altra emerse nel 1854 il partito repubblicano con a l’elezione nel 1860 di Abraham Lincoln che assunse una posizione antischiavista e che quindi ebbe subito molto seguito.
Tra dicembre 1860 e febbraio 1861 i timori nei confronti della politica di Lincoln spinsero dieci stati del sud a staccarsi dall’unione e costituire una federazione indipendente.
Questo scatenò una guerra civile tra unione e confederazione che ebbe inizio nell’aprile del 1861.
Inizialmente erano le forze sudiste Ad avere una netta prevalenza (guidate dal generale Robert Lee) ma essendo poi da soli senza aiuti da parte di Gran Bretagna e altre potenze europee, il fattore numerico e economico incise sulle sorti della guerra. Nell’aprile del 1865 si concluse la guerra con la resa dei confederati al generale Grant, comandante delle forze del nord. Pochi giorni dopo Lincoln cadeva vittima di un attentato per mando di un fanatico sudista.
Conseguenze della guerra
Nel 1863 furono liberati gli schiavi, anche per consentire l’arruolamento e nel 1862 vennero assegnate gratuitamente quote di terra ai cittadini che lo richiedevano (legge revocata pochi anni dopo la fine della guerra).
La guerra non cambiò la situazione sulle disuguaglianze sociali e non cancellò i pregiudizi razziali radicati nella società del sud.
In questi anni nacque l’organizzazione del KU KLUX KLAN (gruppi di organizzazioni segrete con finalità politiche e terroirstiche a contenuti razzisti che propugnano la superiorità della razza bianca.
Imperialismo
Utilizzato per indicare una politica di potenza e di conquista territoriale su scala mondiale. Rappresentò la tendenza degli stati europei a proiettare aggressivamente verso l’esterno i propri interessi economici, la propria cultura, la propria immagine e l’affermazione del proprio prestigio nazionale.
Fin dai tempi delle grandi scoperte l’Europa ha sempre cercato di conquistare il mondo, ma alla fine dell’800 questo processo divenne più intenso e con dimensioni nuove e forme diverse.
La colonizzazione tradizionale era rimasta legata soprattutto all’iniziativa delle grandi compagnie mercantili, mentre la nuova espansione era più un tentativo di assoggettamento politico e di sfruttamento economico.
La tendenza prevalente fu quella di controllare vasti territori come Africa, Asia e del pacifico che furono ridotti alla condizione di vere e proprie colonie o protettorati.
Tra i vari stati che tentarono di espandere il loro controllo economico principalmente, ci furono: Regno Unito, Francia, Germania, Belgio, Giappone e Stati Uniti.
Un ruolo fondamentale ebbero la spinta all’accaparramento di materiali a basso costo e la ricerca di sbocchi commerciali
C’erano anche motivazioni politico-ideologiche: una mescolanza di nazionalismo, di politica di potenza, di razzismo e di concetti come “nazione eletta”.
La conquista dell’Africa
I primi paesi ad essere conquistati furono la Tunisia nel 1881 da parte della Francia (che già controllava l’Algeria) e l’Egitto nel 1882 da parte del Regno Unito britannico.
Nel 1869 il canale di Suez venne aperto e questo favoriva alla Gran Bretagna di raggiungere rapidamente l’Asia e i possedimenti in india senza circumnavigare l’Africa.
Il Sudan fu interesse della Gran Bretagna, ma Mohamed Ahmed si oppose con una guerra santa e nel 1885 fondò un proprio stato. Soltanto nel 1895 i britanni riuscirono a rovesciare questo stato.
Anche il Congo venne conquistato dal re leopoldo II di Belgio, inizialmente con scopi umanitari in realtà si era costruito un impero personale. Si scontro con il Portogallo in quanto rivendicava la foce del Congo per la contiguità con la sua antica colonia dell’Angola.
Conferenza di Berlino e spartizione dell’Africa
Nel 1884-85 Bismarck propose una conferenza internazionale convocata a Berlino. In questa conferenza si stabili la norma che l’unico titolo valido per occupare un paese, era quello dell’effettiva occupazione. Riconobbe quindi la sovranità al re Leopoldo II sul territorio del Congo che poi sarebbe stato nominato Congo belga ma che allora venne chiamato stato libero del Congo (paradossale eufemismo visto il trattamento delle persone e lo sfruttamento delle risorse). La conferenza anche sancì la spartizione dell’Africa.
L’espansione britannica
La Gran Bretagna non si oppose alle espansioni della Francia. Era maggiormente interessata all’Africa sud-orientale importante per il controllo dell’oceano indiano.
Ci furono contrasti con la Germania che si placarono con la decisone da parte della Gran Bretagna di riconoscere alla Germania l’Africa orientale e ricevendo in compenso l’isola di Zanzibar, importante per le rotte commerciali nell’oceano indiano.
All’inizio del ‘900 la spartizione dell’Africa era completa. Soltanto alcune zone restavano indipendenti (impero etiopico, la piccola repubblica di Liberia, la Libia, il Marocco e le repubbliche boere del sudafrica.
Le guerre boere
I boeri erano discendenti di coloni olandesi in sud africa. Queste guerre conosciute anche come anglo-boere si sono svolte tra il 1880 e il 1902 e hanno visto i boeri combattere contro le forze britanniche per difendere la loro indipendenza.
Prima delle guerre c’era stato il grande TREK, ovvero la grande marcia verso nord per sfuggire al controllo britannico e avevano fondato la repubblica dell’Orange (1845) e la repubblica del Transvaal (1852)
Alla fine degli anni ‘60 vennero scoperti importanti giacimenti nel transvaal e la Gran Bretagna si interessò nuovamente.
La prima guerra boera 1880-81 i britannici vennero sconfitti e il Transvaal riuscì a mantenere una propria autonomia.
Crebbero tensioni tra il 1885 e l’86 in quanto emersero nuovi giacimenti auriferi nelle due repubbliche e attirarono un gran numero di immigrati sopratutto di origine britannica.
Nel 1899 il presidente del Transvaal dichiarò guerra alla Gran Bretagna e si trattò della seconda guerra boera piu sanguinosa della precedente.
I boeri vennero sconfitti nel 1902 ma nonostante questo i boeri continuarono a resistere accanitamente.
In seguito orango e Transvaal ottennero uno statuto di autonomia e vennero unite nel 1910 dando vita all’unione sudafricana.
La conquista dell’Asia
A differenza di quando accadeva in africa, agli inizi dell’età dlel’imerialismo gli europei avevano messo radici profondi e nel continente asiatico.
La spinta alla conquista asiatica fu data dall’inaugurazione del CAnale di Suez nel 1869 che mise in comunicazione il mediterraneo con il mar rosso, abbreviando di parecchie settimane i collegamenti tra Europa e Asia
L’India britannica
A metà ‘800 il territorio controllato era vastissimo. I colonizzatori britannici si erano appoggiati alle gerarchie sociali preesistenti per riscuotere le tasse e mantenere l’ordine, inoltre tentarono di diffondere la cultura occidentale e abolire pratiche crudeli.
Nel 1857 ci fu la rivolta dei Sepoys di iniziativa degli indigeni dell’esercito. Questa rivolta porto ad una riorganizzazione del controllo britannico: la compagnia delle indie fu soppressa e il paese passo sotto la corona. La regina vittoria si proclamo imperatrice delle Indie.
Gli europei in Cina
A metà ‘800 l’isolamento della Cina dal resto del mondo fu interrotto dalla pressioni degli stati europei e sopratttuo dal conflitto nato con la Gran Bretagna per il commercio dell’oppio vietato in Cina ma lucroso per la Gran Bretagna. Queste due guerre (1839-42, 1856-60) imposero al paese l’apertura al commercio straniero
Il dominio coloniale
Le potenze conquistatrici fecero generalmente un uso indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene, sconvolsero l’economia dei paesi afro-asiatici sottoponendola a un sistematico sfruttamento finalizzato all’esportazione di materie prime e, colpirono spesso antiche culture danneggiando inolter il mercato interno.
Ci furono anche sviluppi positivi, per esempio un principio di modernizzazione, sia pur finalizzata agl interessi dei dominatori. Sul piano culturale alcun ti paesi piu solidi riuscirono a difendere le loro identità, ovvero ad assimilare alcuni aspetti della cultura dei dominatori. Sul piano politico, la colonizzazione favorì la formazione di nazionalismi locali che avrebbero suscitato le lotte per l’indipendenza.
Governare l’Italia unita
Al momento dell’unità la grande maggioranza degli italiani era analfabeta, soltanto il 20% della popolazione viveva in città; l’agricoltura era l’attività economica prevalente, ma si trattava di un’agricoltura perlopiù povera, caratterizzata da una grande varietà negli assetti produttivi: aziende agricole moderne(pianura padana), mezzadria (Italia centrale), latifondo (mezzogiorno). La condizione di vita dei contadini era generalmente ai limiti della sua esistenza fisica questa realtà di arretratezza economica e disagio sociale era poco conosciuto dalla classe dirigente nazionale. Inoltre , pur essendoci un divario reale tra il Nord e il sud del paese (in termini di sviluppo, infrastrutture, produttività e istruzione), al confronto con i paesi più sviluppati in Europa, tutta l’Italia appariva complessivamente arretrata
Morto Cavour nel giugno del 1861, il gruppo dirigente che tenne redini del paese proseguendo l’opera fu quello della destra, poi detta “storica“, e composta in realtà dai rappresentanti della classe dirigente moderata. Le si contrapponeva la sinistra, che faceva proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: suffragio universale, decentramento amministrativo, completamento dell’unità attraverso l’iniziativa popolare. Destra e sinistra erano espressione di una classe dirigente molto ristretta, solo 400.000 persone avevano il diritto di voto, che diede un carattere accentrato la vita politica. I leader della destra realizzarono, sul piano amministrativo e legislativo, una rigida centralizzazione, temendo le conseguenze disgregatrici dei fermenti sociali e facendo proprio il modello di Stato accentrato napoleonico.
Tra le circostanze che spinsero il governo verso la centralizzazione va ricordata soprattutto la situazione del mezzogiorno, dove l’ostilità delle masse contadine verso i conquistatori assunse col brigantaggio caratteristiche di vera e propria guerriglia. Il brigantaggio fu sconfitto grazie un massiccio impiego dell’esercito.
Sul piano economico, la linea liberistica seguita dal governo produsse un’intensificazione degli scambi che favorì lo sviluppo dell’agricoltura. È importante anche l’impegno del governo nella creazione dell’infrastrutture necessarie allo sviluppo economico (strade, ferrovie). L’idea dei politici italiani che paese avesse essenzialmente una vocazione agricola, tuttavia, non ti ho fatto lo sviluppo industriale accrescendo il divario tra l’Italia e i paesi più progrediti. Nell’immediato, infatti, il tenore di vita della popolazione non migliorò e diminuì il peso percentuale dell’attività industriale la distanza tra la classe dirigente e il paese rurale aumentata della dura politica fiscale seguito della destra. Particolarmente impopolare fu la tassa sul macinato, che provocò violente agitazioni sociali in tutta la penisola.
Il completamento dell’unità costituì uno dei problemi più difficili per la nuova classe dirigente nazionale. Falliti i tentativi di conciliazione con la chiesa, riacquisto spazio di iniziativa dei democratici: nel 1862 l’iniziativa garibaldina di una spedizione di volontari si risolse in uno scontro con l’esercito regolare (Aspromonte). Nel 1864 fu firmata la convenzione di settembre con la Francia, che prevedeva il trasferimento della capitale a Firenze ma anche il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. L’alleanza con la Prussia contro l’Austria e la vittoria prussiana consentirono all’Italia l’acquisto del Veneto, nonostante le sconfitte subite a Lissa e a Custoza (1866). Il problema della conquista di Roma-fallito a Mentana nel 1867 un nuovo tentativo garibaldino-si risolse il momento della sconfitta inflitta dalla Prussia al secondo impero di Napoleone III, che permise al governo italiano di approfittare delle difficoltà francesi per prendere la città (20 settembre 1870). Finiva il potere temporale dei papi e Roma diveniva capitale del regno d’Italia. Con la legge delle guarentigie lo Stato italiano si impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale. L’intransigenza di Pio IX, tuttavia, si manifestò nel divieto per i cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche: ulteriore ostacolo che si frapponeva al processo di reale unificazione del paese.
Nel 1876 a marzo il governo della destra fu battuto alla camera su un progetto di legge relativo alla statalizzazione delle ferrovie. L’avvento al potere della sinistra segnò l’inizio di una nuova fase con una classe dirigente più giovane, che avrebbe ripreso le componenti radical-democratiche. Approvata la legge Coppino sull’istruzione e la riforma elettorale del 1882, gran parte del programma riformatore della sinistra fu accantonato. Il sistema politico italiano perse, con il trasformismo di Depretis (l’allora leader della sinistra), il suo carattere bipartitico finendo con l’essere dominato da un grande centro che immaginava le ali estreme.
Depretis fu otto volte presidente del consiglio del regno di italia dal 1876 al 1887.
Nel maggio del 1882 il governo Depretis stipulò la triplice alleanza con la Germania e l’Austria Ungheria. Questa scelta rappresentava una netta rottura poiché abbandonava la politica seguita dai governi precedenti basata sul mantenimento di buone relazioni con le grandi potenze e sul rapporto preferenziale con la Francia. La motivazione principale fu il desiderio di uscire da questa situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile in un’epoca dominata dalla logica di potenza. La triplice alleanza era un’alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di altre potenze.
Il trattato costringeva l’Italia a rinunciare implicitamente alla rivendicazione di Trentino, Venezia Giulia e Trieste.
Depretis aveva ritenuto opportuna in quegli anni, un’espansione coloniale sulle coste del Mar Rosso, in Africa, ma il tentativo di estendersi verso l’interno portò al contrasto con l’Etiopia e all’eccidio di Dogali (1887).
Nel 1857 Filippo turati fondò il partito socialista Italiano.
Crispi
Alla morte di Depretis, nel 1887, fu nominato presidente del consiglio Francesco Crispi, la personalità più rilevante della sinistra. Crispi impresse una svolta all’azione di governo: si fece promotore di un’opera di riorganizzazione e di razionalizzazione dell’apparato statale, ma accentuò anche le spinte autoritarie e repressive.
Crispi fu anche sostenitore dell’ascesa dell’Italia a grande potenza coloniale. Puntò su rafforzamento della triplice alleanza, all’interno di essa, sul consolidamento dei legami con l’impero tedesco. Nel 1890 i possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati con il nome di colonia Eritrea, mentre venivano poste le basi di una nuova espansione sulle coste della vicina Somalia la politica coloniale di Crispi però risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato e nel 1891, messo in minoranza, si dimise.
Il primo governo Giolitti
Nel maggio del 1892 la presidenza del consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti. Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana.il suo programma era piuttosto avanzato: in politica finanziaria mirava a un’equa ripartizione del carico fiscale in modo da risparmiare i ceti disagiati e colpire di più i redditi maggiori secondo il principio della progressività delle imposte. Inoltre in politica interna aveva idee innovatrice, contrari all’intervento repressivo contro i movimenti operai e le organizzazioni popolari.
I conservatori però ritenevano il presidente del consiglio un debole e questo contribuì a indebolire il governo e ad accelerare la caduta che fu dovuta tuttavia alle conseguenze del grave scandalo della Banca romana, responsabile dell’emissione fraudolenta di cartamoneta e di finanziamento culto di uomini politici e giornalisti per influenzare la stampa e l’opinione pubblica in occasione delle campagne elettorali. Giolitti, implicato nello scandalo, cadde e fu sostituito da Crispi, anche lui coinvolto nelle vicende della banca ma ritenuto un uomo forte e capace di mettere ordine nel paese e di arrestare la crescita delle organizzazioni operaie.
Il ritorno di Crispi
Tornato al governo nel dicembre del 1893 e affrontò con risolutezza i diversi problemi dell’Italia.
In campo economico il nuovo governo avviò una politica di risanamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali e con una legge veniva istituita la Banca d’Italia. Questo nel 1926 avrebbe ottenuto il monopolio dell’emissione di cartamoneta e a partire dal 1947 avrebbe svolto compiti di controllo sull’intero sistema bancario.
All’inizio del 1894 venne proclamato lo stato d’assedio (ossia il trasferimento all’esercito del controllo dell’ordine pubblico), fu proclamato prima in Sicilia e successivamente esteso alla Lunigiana, tra Toscana e Liguria, dove si era verificato senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani un tentativo di insurrezione anarchica. Ci fu una repressione militare dura e sanguinosa che viene accompagnata da una più generale repressione poliziesca estesa a tutto il paese rivolta soprattutto contro circoli, leghe i giornali facenti capo al partito socialista, che pure non aveva responsabilità diretta nel moto siciliano.
Per dare un carattere organico alla azione repressiva, venne approvata dal parlamento un complesso di leggi che limitavano la libertà di stampa, di riunione e di associazione. Queste leggi venivano definite antianarchiche e avevano in realtà come obiettivo principale il partito socialista, che poi nell’ottobre fu dichiarato fuorilegge.
E ciò che fece cadere il governo di Crispi definitivamente fu il fallimento della sua politica coloniale. Gli etiopi infatti reagirono energicamente ai tentativi italiani di penetrazione ripresi dopo ritorno al potere di Crispi. Fra Italia di Etiopia armato, culminato nel disastro di Adua del 1 marzo del 1896, quando un contingente italiano di 20.000 uomini bene praticamente annientato dalle forze etiopiche. La sconfitta ebbe immediatamente ripercussioni in Italia, nacquero infatti violente manifestazioni contro la guerra d’Africa. Crispi fu costretto a dimettersi e uscì dalla scena politica l’episodio di Adua e le reazioni che erano conseguiti avevano dimostrato quanto la guerra coloniale cose poco sentito dalle masse popolari e dal larghi strati della stessa classe dirigente e quando illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere i successi di prestigio, per sempre il paese, in un’avventura imperialistica a cui mancavano le indispensabili premesse ideologiche politiche dei economiche.
Chi era la triplice alleanza e chi la triplice intesa?
Triplice alleanza: Germania, Austria e Italia
Triplice intesa: Gran Bretagna, Francia e Russia
L’Italia dopo un primo anno di neutralità, però dichiaro guerra all’Austria
Chi furono durante la 1 guerra mondiale il primo ministro e il ministro degli Esteri ?
Furono rispettivamente Antonio Salandra e Sidney Sonnino
Cosa comporto l’assassinio dell’arciduca d’Austria?
Francesco Ferdinando venne assassinato alle 10:45 del 28 giugno 1914 da uno studente serbo-bosniaco Gavrilo Princip. Esattamente un mese dopo, il 28 luglio, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, appoggiata nella sua decisione dal Reich tedesco.
Gabriele D’Annunzio, chi era che ruolo ha avuto?
Era un poeta a favore della guerra. Era chiamato il vate per le abilità di convincere le piazze grazie alle sue qualità di oratore
Quando è entrata in guerra l’Italia durante la prima guerra mondiale?
Il 24 maggio del 1915.
Dopo aver firmato in tutta segretezza il Patto di Londra, rimaneva il problema di convincere il parlamento di maggioranza giolittiana ad entrare in guerra. Molte furono le manifestazioni a favore, ed alla fine il Re Vittorio Emanuele III e il Presidente del Consiglio Antonio Salandra riuscirono nell’impresa attraverso uno stratagemma. Salandra finse di dare le dimissioni e al suo posto fu convocato Giolitti, che saputo parzialmente del patto di Londra, si rese conto che le sue tesi non erano più sufficienti e rifiutò l’incarico. Allora il Re non accettò le dimissioni di Salandra e il governo da lui presieduto ebbe poteri speciali.
Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria ed entrò così nella Prima Guerra Mondiale, dando vita a quello che sarebbe stato chiamato anche Fronte italiano oppure Guerra di Montagna,poiché buona parte delle relative operazioni si svolsero nell’Italia nord-orientale lungo le frontiere alpine. Una dichiarazione di guerra che nei quattro anni seguenti avrebbe visti impegnati 5 milioni di soldati italiani, fra i quali ci sarebbero stati circa 620.000 morti, 600.000 fra prigionieri e dispersi e quasi 1 milione di feriti.
Quando è stato stipulato il patto di Londra e in cosa consisteva?
Il Patto di Londra fu un accordo segreto tra l’Italia e la Triplice intesa firmato il 26 aprile 1915. Trattato con il quale l’Italia si impegnò a entrare nella prima guerra mondiale, a fianco dell’Intesa, entro un mese. In caso di vittoria avrebbe ottenuto numerosi compensi territoriali: Alto Adige, Trentino, Venezia Giulia, territori in Dalmazia, Albania, Turchia e parte delle colonie tedesche. L’Italia abbandonò quindi la Triplice Alleanza e il 23 maggio dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Nonostante l’Intesa avesse vinto la guerra, l’Italia non ricevette tutti i territori promessi perché ciò si sarebbe opposto al principio di autodeterminazione dei popoli stabilito dal presidente degli Stati Uniti. I nuovi confini dovevano essere tracciati in base alla nazionalità dei cittadini. L’Italia ricevette quindi: il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia e Trieste. Ciò provocò malcontento tra il popolo italiano, tanto che il poeta Gabriele D’Annunzio la definì una “Vittoria mutilata”.
Cosa accadde nel 1918 per la Germania?
Intanto nel 1918 tedeschi ed austriaci lanciano un ultimo disperato attacco contro i rispettivi fronti (fronte francese e italiano). L’offensiva tedesca inizialmente ha successo, ma la contro-offensiva dell’intesa sul fronte frena e se va ancora meglio, visto che inglesi e francesi possono contare pienamente sugli aiuti americani. I tedeschi sono costretti ad arretrare parecchio, mentre in Germania cominciano a scoppiare problemi interni. In Germania venne costituito un governo provvisorio di coalizione per trattare l’armistizio, ma la tensione è tantissima e seguendo il modello della rivoluzione russa, i marinai della flotta tedesca si ammutinano e formano insieme agli operai dei consigli rivoluzionari, sul modello dei soviet russi, assemblee democratiche di lavoratori e soldati. Alla fine l’imperatore Guglielmo II è costretto a fuggire dalla Germania e un socialdemocratico viene nominato capo del governo. L’11 novembre il nuovo governo tedesco firma l’armistizio con le truppe dell’intesa. Nel mese precedente erano già accaduti anche gli altri alleati (Bulgaria, Turchia e la stessa Austria).
Durante la prima guerra mondiale, chi deteneva il potere nelle decisioni?
Governi e vertici militari detengono il potere, mentre salano le tradizionali procedure parlamentari e democratiche. I governi diventano sempre più autoritari, anche per combattere l’altra battaglia, quella sul cosiddetto FRONTE INTERNO. Tramite la propaganda i governi cercano di condizionare l’opinione pubblica per avere l’appoggio dei cittadini ed evitare cosi che emergano le posizioni pacifiste, come ad esempio quelle di alcuni gruppi socialisti.
I socialisti europei, hanno per gran parte appoggiato i rispettivi governi nella guerra (o non li hanno ostacolati come ad esempio ha fatto il partito socialista italiano).
Quando entrano in guerra gli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale?
La guerra non si sta combattendo solo via terra, ma anche via mare, in particolare tra Germania e Gran Bretagna. La Germania sta conducendo anche una guerra sottomarina per ostacolare la supremazia navale della Gran Bretagna e per ostacolare i rifornimenti dell’intesa. A partire dal 1917 finiscono sotto tiro anche molte navi americane, e gli Stati Uniti decidono di entrare in guerra. Non è solo questo il motivo ovviamente. Da anni c’era un dibattito anche negli Stati Uniti tra interventisti e neutralisti, ma c’era soprattutto in gioco il nuovo ordine mondiale che questa guerra avrebbe ridisegnato. Il 1917 quindi è un anno chiave nella grande guerra. Dallo schieramento con Francia e Inghilterra esce la ormai debole Russia, ed entrano i fortissimi Stati Uniti che senza aver subito danni e distruzioni perchè lontani geograficamente dal terreno di guerra, mettono subito a disposizione un’industria pesante per produrre armi, molto potenti.
Perchè 1917 rischia di essere anche l’anno del tracollo italiano?
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Proprio nell’ottobre del 1917 l’Austria, con l’aiuto di alcune divisioni tedesche prova a sfondare sul fronte italiano, all’altezza di Caporetto (comune che è oggi in Slovenia). La manovra riesce e le truppe austro-tedesche dilagano nel Friuli, avanzando per oltre 150 km. L’esercito italiano disorientato comincia una fuga precipitosa, rovinosa, drammatica. Più di 300.000 soldati vengono catturati. È la disfatta di Caporetto.
Cadorna, il generale al comando supremo, prima di essere rimosso dal comando diede la colpa ai soldati dicendo che non avevano combattuto. In realtà la rottura del fronte era stata determinata da errori dei comandi.
Quali sono le condizioni dell’Europa e quale era l’obiettivo del trattato di Versailles?
Anche l’Europa esce da questa guerra fortemente ridimensionata: l’economia e la società degli stati europei coinvolti sono devastate dopo quattro anni di guerra, e poi perhcè è stato decisivo l’intervento di uno stato extraeuropeo, gli Stati Uniti che per la prima volta hanno dimostrato la loro potenza economica e militare.
Sarà difficilissimo in qeuste condizioni scrivere un trattato di pace.
Il 18 gennaio 1919, iniziano i lavori del congresso di Versailles. Che avrebbe il compito di riportare la pace sul continente di stabilire un nuovo assetto europeo. Ma l’assetto europeo che verrà fuori da questi trattati, sarà tutt’altro che risolutivo. La pace di Versailles sarà davvero problematica: alcuni la definiranno una tregua , piu che una pace per indicare come avesse solo rimandato alla seconda guerra mondiale la risoluzione dei conflitti.
Per molti altri i problemi irrisolti da quella pace avranno come conseguenze la nascita del nazismo e l’involuzione autoritaria in Europa. Di fatto, più che una pace, sarà una premessa per una nuova crisi.
Il trattato di Versailles segnò a livello diplomatico la conclusione delle controversie tra i Paesi usciti vincitori dal conflitto e i vinti. Venne firmato il 28 giugno 1919 nella sala degli specchi della reggia di Versailles, vicino Parigi. Non fu l’unico trattato firmato alla fine della guerra, ma viene riconosciuto come il principale perché riguardante la Germania, ritenuta la principale colpevole del conflitto.
Il nuovo equilibrio doveva tener conto dei principi di democrazia e giustizia internazionale enunciati nei 14 punti di Wilson, rappresentante americano. Punti però che non accontentavano tutti i paesi vincitori. Infatti, alla Francia non era sufficiente la restitiuzione dell’Alsazia e della Lorenza, voleva anche spostare i confini fino alla riva sinistra del Reno, cosa non concessa da Wilson.
Il trattato fu firmato il 28 giugno del 1919, e venne considerata un’imposizione (Diktat).
La Germania subì un durissimo colpo, perse parti della polonia abitate da tedeschi, e privata delle sue colonie in Africa e in Oceania (spartite tra i paesi vincitori).
La parte piu pesante furono le clausole economiche e militari.
Tutte condizioni umilianti che ferirono l’orgoglio nazionale tedesco.
La dissoluzione dell’impero asburgico permise il riconoscimento delle nuove realtà nazionali. I polacchi della Galizia si riunirono alla Polonia. Cechi e slovacchi confluirono nella repubblica di Cecoslovacchia. Gli slavi del sud (abitanti della Croazia, Slovenia e Bosnia-Erzegovina) si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita al regno dei serbi, croati e sloveni (dal ‘29 regno di Jugoslavia).
Le negoziazioni furono lunghe e difficili e mostrarono chiaramente le ostilità ancora ben presenti tra i protagonisti. Gli storici individuano proprio in quel clima di avversità e nelle decisioni prese in quell’occasione le ragioni più profonde che avrebbero poi condotto alla Seconda Guerra Mondiale.