Appunti lezioni Flashcards

1
Q

Distinguo tra storia dell’alimentazione e storia della cucina

A

Sono due facce della stessa medaglia.

  • La storia dell’alimentazione fa parte del filone della cultura materiale, che comincia a essere studiata a partire da un nuovo interesse nei confronti della vita quotidiana e dell’agricoltura, ad esempio. Essa si occupa della produzione alimentare, della trasformazione del prodotto e del suo consumo.
    Prima dell’esperienza delle Annales, si fa la histoire evenementielle, che privilegia un impianto strettamente cronologico e biografico. Ma anche la società tutta, con le sue abitudini e i suoi costumi, può essere un interessante campo di ricerca – che ancora, però, è inesplorato.
    C’è stato un precedente in Francia, di Pierre-Jean-Baptiste Le Grand d’Aussy, Histoire de la vie privée des Français (1782). Un nobile francese, appassionato di storia e vicende del suo Paese, decise di selezionare diversi testi sulla storia della Francia. Una volta che raggiunse un numero consistente di libri, decise di rivolgersi a uno storico per raccontare, con metodo scientifico, la vita quotidiana dei francesi. Trovò uno storico che realizzò un paio di volumi sul tema che, tuttavia, non convinsero il committente. Il nobile li fece quindi vedere a Le Grand d’Aussy, un gesuita, che li bocciò: lo storico aveva selezionato solamente gli aneddoti, senza verificare le fonti. D’Aussy realizzò tre volumi solamente sulla storia dell’alimentazione, citando in maniera minuziosa tutte le sue fonti (cosa che al tempo non era in uso fare).
    In Italia, verso la fine dell’Ottocento, quando si comincia a guardare al Medioevo con rinnovato interesse, alcuni studiosi, come Ludovico Frati, decidono di gettare uno sguardo alla vita privata della popolazione. Frati realizzò un testo relativo alla storia della vita privata a Bologna, in cui c’è un discorso anche sul cibo.
    La linea di demarcazione però arriva con Bloch e Febvre nel 1929, con la storia della vita materiale, di quella quotidiana e degli oggetti e della storia dell’agricoltura.
  • La storia della cucina (prodotto alimentare = ingrediente; trasformazione degli ingredienti in un piatto secondo una ricetta; consumo del piatto in un contesto specifico) ha un altro tipo di derivazione, e si ritrova nel periodo di neo-medioevo: è in questo periodo che alcuni territori ricercano le proprie radici (specie in Germania). In Italia, nel periodo fra l’Ottocento e l’unità d’Italia, si recuperano notizie dell’età comunale, frammenti di vite musicisti, poeti, scrittori, linguisti per creare una cultura unitaria nazionale. Alcuni linguisti uniscono l’urgenza di cercare una matrice linguistica comune all’esigenza di esplorare gli anni medievali: sarebbe opportuno recuperare la lingua d’uso all’interno di alcuni particolari tipi di testo che possiamo considerare più vicini alla lingua parlata (non certamente quelli di Dante e Boccaccio). Questi linguisti, allora, decidono di sfogliare i vecchi libri di ricette, che non sono opere di letteratura, ma opere che devono farsi capire. La storia della cucina nasce quindi da un’esigenza linguistica. Scoppia così la moda.
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Q

L’incontro tra storia dell’alimentazione e storia della cucina e i primi corsi universitari

A

Sebbene i due punti di partenza della storia dell’alimentazione e della storia della cucina siano diversi l’uno dall’altro, ciò non impedisce loro di incontrarsi nella seconda metà del Novecento.
Emblematico il percorso che porta al volume di Storia dell’alimentazione curato da Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari (1996-97): provenienti da percorsi diversi, i due storici raccolgono una serie di contributi dalla Preistoria all’Età contemporanea, che avrebbero segnato gli studi successivi, mostrando la potenzialità e la ricchezza del nuovo filone storiografico, inaugurato peraltro alcuni decenni prima

A livello di corsi accademici europei, il primo insegnamento di storia dell’alimentazione nasce proprio a Bologna, nel 2000. Il primo docente è Massimo Montanari.
Prima d’allora la storia dell’alimentazione è insegnata all’interno di altri corsi (Massimo Montanari è il primo in Europa, all’interno di Storia medievale e di Storia agraria medievale, a partire dal 1977); segue la Spagna dove il primo docente, sempre medievista, è Antoni Riera Melis.
Nell’ A.A. 2002/2003: nasce a Bologna il Master in «Storia dell’alimentazione», poi «Storia e cultura dell’alimentazione», fondato da Massimo Montanari e attualmente diretto da Antonella Campanini.

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3
Q

La nascita delle scienze gastronomiche

A

L’insegnamento delle scienze gastronomiche ha inizio nel 2004 con la fondazione dell’università di Pollenzo e l’apertura di alcuni corsi di laurea triennale (es. Parma) che si rifacevano al medesimo modello, costruito all’interno delle scienze agrarie.
La storia dell’alimentazione è parte integrante dell’insegnamento delle scienze gastronomiche, per sua natura interdisciplinare.
Con il D.M. 928-2017 nasce la Classe di Laurea in Scienze, culture e politiche della gastronomia, che l’Università di Bologna apre nell’a.a. 2021/22 presso il campus di Cesena.

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4
Q

I tacuina sanitatis

A

Fabrizio Lollini li ha definiti dei “manuali di wellness”, testi medici che dovrebbero servire ad aiutare le persone a stare bene, in cui viene presentato alimento per alimento.
Hanno alla base una traduzione latina (risalente probabilmente alla metà del XIII secolo) di un testo arabo dell’XI secolo redatto dal medico cristiano Ibn Butlan
e basato sulla teoria ippocratica.
Nel Medioevo erano considerati prodotti pregevoli da far decorare alle scuole di miniatura.

Ad oggi, esistono tre codici principali:

  • ms. 4182 della biblioteca Casanatense di Roma: la storia dei suoi committenti e possessori è incerta;
  • ms. series nova 2644 della österreichische Nationalbibliothek di Vienna, legato al vescovo conte di Trento Giorgio di Liechtenstein (grande motore culturale della sua piccola corte, e committente di numerose opere d’arte, tra cui i noti affreschi dei mesi di Torre Aquila al Castello del Buonconsiglio, spesso chiamati in causa come derivazione, o parallelo, delle illustrazioni dei tacuina ora in Austria e Francia)
  • ms. nouvelles acquisitions latines 1673 della bibiothèque nationale de France di Parigi, posseduto da Verde Visconti (1352-1414), figlia di Bernabò visconti, signore di Milano.
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5
Q

Il testo dei tacuina e le loro raffigurazioni

A

Il contenuto: Tratto tipico dei tacuina in generale è la disinvoltura nella composizione e nel montaggio dei contenuti.
1) Il testo originario di Ibn Butlan non solo viene tradotto e semplificato,
2) ma si declina nelle varie copie italiane in forme linguistiche differenti;
3) si presenta in forme più complete o più ridotte; comprende o esclude singoli elementi o apparati. Non esistono due copie identiche.

Le miniature: Le miniature, probabilmente tutte di scuola lombarda,
- non sono riconducibili a un singolo autore;
- i volumi sono tra loro differenti come impostazione compositiva: quello di Parigi ospita più spesso eleganti architetture, esprime in modo più netto forme legate all’ambito alto della corte, laddove quello di Vienna tende a bloccarsi invece in modi più statici.
- Ma ci sono delle limitazioni rispetto alla loro verosimiglianza naturalistica: all’artista non interessa raffigurare la realtà (non c’è una volontà realistico-mimetica). L’autore si rifà a iconografie già date; è difficile che sia andato a verificare come effettivamente quella cosa si presentava in un determinato contesto. L’arte, anche quella naturalistica, almeno fino all’Ottocento, ha sempre posto un filtro tra la realtà e la sua rappresentazione. Ad esempio, Adamo ed Eva attorno all’albero del bene e del male è alla base di quasi tutti gli episodi che riguardano la raccolta da un albero; molte scene raffigurate nei tacuina sono tratte dalla letteratura cortese-cavalleresca: in particolare i soggetti che si ritrovano nei cicli dei mesi costituiscono la base per la maggioranza delle attività agricole.
- Oltretutto, lo spunto grafico rimane sostanzialmente immutato: non andrà mai a controllare de visu se, al cambiare dei tempi o dei luoghi, l’attività muta.
- Nello stesso modo, per assimilazione, vengono iterati schemi iconografici che sono applicati ad argomenti diversi: la battitura della spelta del Codice Casanatense, per esempio, è riciclata per l’orzo in quello parigino; così come le innumerevoli raccolte di frutti, nei tre codici, vengono riproposte con minime variazioni.
- A volte l’artista non ha avuto modo di conoscere direttamente certe situazioni: nella copia francese, il raccolto del riso è clonato da quello di un qualsiasi cereale, senza tener conto della specificità di coltivazione della pianta. Il riso viene mietuto alla maniera del grano, l’unica cosa sono i chicchi bianchi.
- Bisogna anche tenere conto dei fini strumentali dei committenti: il miniatore non può rappresentare la terra durante i periodi di crisi; essa dovrà sempre apparire rigogliosa e fertile, i frutti giganti, i contadini poveri ma sobri, per celebrare il buon governo e le virtù del committente.
Nella raffigurazione degli spinaci e del melograno, lo status sociale delle due donne è visibile dalla disposizione degli alimenti, oltre che dai vestiti (le maniche di colore diverso nella donna raffigurata a destra): gli spinaci si colgono direttamente a terra, mentre il melograno cresce in alto.

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6
Q

La scienza dietetica in Occidente: nascita ed evoluzione

A

Dietetica e cucina sono strettamente correlate. Le indicazioni mediche, però, non sono valide per tutti. Sembra una contraddizione, visto che la storia materiale sembra guardare alle società nel complesso. Però alcune cose sono state comunque tramandate su grande scala: molti usi inconsapevoli derivano da principi di questo sistema.
La dietetica nasce con Ippocrate, ma non venne più seguita alla lettera a partire dal XVII secolo, con la nascita della chimica. Ad oggi, diversi movimenti rifiutano il discorso chimico per tornare a quello strettamente alimentare (ma la medicina naturale oggi, benché di moda, non è direttamente sovrapponibile con quella antica).

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7
Q

Ippocrate di Cos, Galeno e il principio dei quattro elementi costitutivi dell’universo

A

Ippocrate – o chi veramente ha scritto quell’opera – è considerato il padre della medicina occidentale e della dietetica, che si sviluppa all’interno della riflessione e della pratica medica.
La cultura medica antica ha come premessa la filosofia e la fisica di Aristotele, in particolare il suo principio dei quattro “elementi costitutivi dell’universo” – fuoco, aria, acqua e terra – perfezionato poi dal medico romano Galeno (II secolo d.C.), che le organizzò in un sistema coerente che sarà alla base della medicina fino al XVII secolo.

L’idea-base è che la “natura” degli esseri viventi (uomini, piante, animali) è data dalla combinazione di quattro “qualità”, derivate dalla combinazione (a due a due) con i quattro elementi di base:

  • Aria + Fuoco → Caldo
  • Terra + Acqua → Freddo
  • Fuoco + Terra → Secco
  • Acqua + Aria → Umido

Le quattro “qualità” si contrappongono a due a due:
* caldo vs freddo
* secco vs umido

Ogni qualità può essere presente negli organismi a diversi livelli di intensità: primo, secondo, terzo, quarto “grado”.

Noi viviamo in un sistema globale, ma in questo il piccolo uomo e il piccolo animale hanno un microcosmo corrispondente al macrocosmo universale: questi rapporti di caldo, freddo, secco e umido si ritrovano anche all’interno di noi stessi e di cosa mangiamo. Infatti, a ogni elemento corrisponde:
* un “umore” (liquido) in rapporto con un organo corporale (sangue/cuore; bile gialla/fegato; bile nera/milza; flegma/testa;
* un “temperamento” (sanguigno; bilioso; malinconico (infatti, chi è malinconico è perché ha la bile nera; flemmatico)
* un’età della vita (infanzia-adolescenza; età adulta; maturità; vecchiaia)
* una stagione dell’anno;
* un punto cardinale

La dietetica rende fisico ciò che per noi è uno stato d’animo: infatti, il temperamento è dato da un equilibrio tra i vari umori, ma se c’è un eccesso di qualcosa si può diventare, ad esempio, sanguigno, bilioso (= iroso), etc. Lo squilibrio è indice di stato di malattia che deve essere temperato/riequilibrato, causato da diversi fattori, interni ed esterni:

  • l’età (giovani troppo umidi e caldi);
  • il genere (femmine troppo umide e fredde, tantoché le mestruazioni servono per espellere mensilmente l’umidità;
  • il clima;
  • la stagione;
  • uno stato di malattia

Non sempre a certi squilibri si può rimediare (il contadino caldo e secco non può andare dall’altra parte del mondo a farsi un iglù). Ma, quando si può, lo si fa agendo sulle res non naturales:

  • aer (ambiente in cui si vive);
  • cibus et potus;
  • motus/quies;
  • somnus /vigilia;
  • repletio/evacuatio (espulsione o ritenzione degli umori);
  • accidentes animae (affezioni dell’animo, passioni, stati psicologici → effetti fisici)
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8
Q

La cucina come intervento correttivo per gli squilibri

A

Il cibo e la bevanda, res non naturales, sono lo strumento fondamentale con cui si può intervenire per correggere lo squilibrio e ripristinare l’equilibrio fra le 4 qualità. Esempio: se una malattia deriva da (e procura) un eccesso di calore, si devono scegliere cibi “freddi”, e viceversa.
Supponiamo un individuo sano: che cosa deve mangiare? La questione sarebbe facile se in natura esistessero cibi perfettamente equilibrati, ma non esistono: è necessario crearli attraverso la cucina, che è un’arte della manipolazione e della combinazione, che si propone di modificare la natura.

  • Intervento 1 – Le tecniche di cottura: il tipo di cottura deve corrispondere (con funzione correttiva) alle qualità dell’alimento. Ad esempio: le carni “secche” devono essere bollite, le “umide” arrostite. Un proverbio: “Gallina vecchia fa buon brodo”, dove vecchio = secco;
  • Intervento 2 – Abbinamenti: accostare prodotti di qualità contraria per costruire un piatto equilibrato. Esempio: la frutta (fredda e umida) accompagnata da prodotti caldi e secchi (il melone con i salumi, le pere col formaggio; in alternativa, la pera fredda si può cuocere, preferibilmente col vino, il melone si può accompagnare con sale e/o con vino forte dolce). In questo sistema, il caldo è meglio del freddo: la digestione necessita calore (la cosa fredda si pianta sullo stomaco).
  • Intervento 3 – L’ordine delle vivande: cominciare con cose che “aprono lo stomaco”, terminare con cibi che lo “sigillano”. Esempio: all’inizio cibi dolci o acidi; alla fine aspri, astringenti.

Molti usi sono rimasti invariati fino a noi, segnale della nascita prima della teoria e poi della pratica.

La teoria alla base è che la dietetica ha bisogno della gastronomia, il medico e il cuoco lavorano insieme (anche se è il signore che “comanda” sul cuoco, il quale spesso non riesce a fargli ingurgitare quello che dovrebbe; tantoché la parola “ricetta” si riferisce sia a cuochi che a medici). I trattati di dietetica contengono numerose indicazioni gastronomiche (il “medico gastronomo”; il “cuoco galenico”).

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9
Q

Antimo: cosa dimostra la fonte

A

Nel VI secolo, il medico greco Antimo indirizza l’epistola De observatione ciborum al re dei Franchi Teoderico. L’opera è per la maggior parte dedicata alle carni e al loro utilizzo. La “mediterraneità” di origine di Antimo resta in secondo piano rispetto all’ossequio che dimostra nei confronti del personaggio illustre a cui si rivolge.

Dalla lettura della fonte emerge che:

  • tutto quello che è più vicino alla natura e meno artificiosamente modificato fa meno male di quello su cui i cuochi sono passati più elaboratamente;
  • la chiave è la moderazione. Non va bene neanche l’eccesso nella rinuncia nei monasteri femminili;
  • diversi tentativi di portare all’equilibrio le carni (come quella di castrato, ad esempio)
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10
Q

Le spezie nella cucina medievale

A

Mentre la cucina romana aveva prestato attenzione solo al pepe, nel Medioevo si affacciano sulla tavola nuove spezie, come zenzero, cannella, chiodi di garofano e galanga. Il loro impiego trasmigra, come spesso avviene, dal campo prettamente medicinale (erano menzionate già nei trattati di dietetica del VI secolo) a quello della gastronomia.
La loro presenza era attestata già nel IX-X secolo nei mercati di Italia e Fiandre. L’afflusso maggiore però si ha dall’XI secolo in poi, grazie al contatto ravvicinato dei crociati con l’Oriente, che garantisce la fortuna dei mercanti veneziani.

Perché si utilizzano le spezie?

  • Non per camuffare il gusto di carni e vivande avariate o mal conservate, né per conservare la carne: i ricchi potevano permettersi il consumo di carne fresca di giornata, macellata su richiesta del cliente nelle botteghe; ancora, le spezie venivano aggiunte non a crudo, ma dopo la cottura. Inoltre, esistevano altri sistemi per la conservazione della carne (come la salagione, l’essiccazione e l’affumicatura).
  • Esistono delle convinzioni medico-dietetiche: il calore delle spezie favorisce la digestione dei cibi e la loro cottura nello stomaco. Se sono calde e secche il giusto riequilibrano pasti freddi e umidi, facendo da cappa di calore per la digestione (vengono persino confezionate spezie confettate da distribuire a fine pasto, come lo zucchero, venduto dallo speziale, o spezie da camera, molte spezie finiscono nelle salse).
    Aldobrandino da Siena (sec. XIII) sostiene che la cannella ha il merito “di aiutare le facoltà del fegato e dello stomaco” e di “aiutare a cuocere bene la carne”. Lo zenzero “ha capacità di aiutare lo stomaco freddo […] e aiuta a cuocere bene la carne”. I chiodi di garofano “aiutano le facoltà dello stomaco e del corpo, […] debellano la ventosità e i cattivi umori […] generati dal freddo, e aiutano a cuocere bene la carne”: cuociono quindi sia da fuori (gli alimenti nel momento della cottura) che da dentro (attraverso la loro azione nello stomaco). I costumi gastronomici sono debitrici della scienza, che viene utilizzata per supportare gusti e piaceri nuovi, in una sorta di teorizzazione post-pratica: nella scienza si cerca la rassicurante conferma per giustificare la propria ansia di novità.
    * Bisogno di lusso e ostentazione: il prezzo delle spezie le rende un oggetto di desiderio; chi le utilizza sottolinea la propria posizione sociale (e sono soprattutto i borghesi, proprio perché ceto in ascesa, a volervi ricorrere). Nella sua requisitoria contro le vanità mondane, intitolata De contemptu mundi, papa Innocenzo III si era scagliato contro le ghiottonerie e le insulse passioni gastronomiche dell’uomo, scagliandosi anche contro le spezie.
  • Concentrano su di sé valori di sogno, quelli di cui è carico l’Oriente, che nelle raffigurazioni cartografiche era contiguo al paradiso terrestre.
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11
Q

Ciò che è buono fa bene

A

Nel procurare benessere al paziente attraverso l’arte correttiva della cucina, il cuoco si impegnerà anche a confezionare pietanze buone al gusto, perché la bontà è segnale di efficacia, di migliore nutrizione.

  • Aldobrandino da Siena (sec. XIII): «come disse Avicenna, se il corpo dell’uomo è sano, tutte le cose che gli danno miglior sapore alla bocca sono quelle che lo nutrono meglio».
  • Maino de’ Maineri (sec. XIV): I condimenti e le salse “coi quali sono conditi gli alimenti, hanno una non piccola utilità nel regime di salute: perché con i condimenti essi sono resi più piacevoli al gusto e di conseguenza più digeribili. Perché ciò che è più piacevole va meglio per la digestione: così con i condimenti si aggiunge bontà e si corregge la nocività”.
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12
Q

La qualità della persona

A

I trattati medici, da Ippocrate in poi, prescrivevano un’alimentazione secundum qualitatem personae. Ma la qualità, che da Ippocrate in poi era determinata dai caratteri dell’individuo e dall’ambiente in cui operava, nel basso Medioevo diviene un dato sociale.
Il contadino svolge lavori manuali, quelli più pesanti, adatti, appunto, alla parte inferiore della società. Questi lavori producono calore, quindi i contadini potranno mangiare qualsiasi cosa e la digeriranno tranquillamente, perché stanno producendo calore con il loro corpo e saranno facilitati nella digestione.
I ceti elevati, che oramai nel basso Medioevo non vanno più in guerra, svolgono invece un’attività sedentaria: il loro corpo non produce calore, quindi avranno più difficoltà a digerire; per questo motivo devono mangiare cibi leggeri, aggiungendo le spezie che facilitano il processo.
Qui è cambiato qualcosa dal punto di vista concettuale: i corpi sono corpi sociali; le ideologie e le mentalità influenzano la scienza medica.

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13
Q

La grande catena dell’essere

A

È una classificazione dell’ordine naturale che postula, quasi come una teoria scientifica, un certo parallelismo tra la società umana e la società naturale, descritte come catene verticali fatte di gradazioni (a volte alcuni animali sono intermedi, tra due livelli, come le balene e i delfini; ci sono quadrupedi che hanno le zampe a terra ma respirano aria: tra questi, il vitello è il quadrupede più apprezzato, considerato più nell’aria, mentre il maiale si rotola nel fango, quindi fa più parte dell’elemento terra).
I ricchi devono mangiare cibi preziosi, magari quelli che occupano i gradini più alti della grande catena dell’essere (es. frutta fresca, volatili come fagiani e pernici, che volano in alto); i poveri cibi rozzi e comuni (come erbe e arbusti, bulbi e radici che crescono più in basso, aglio, porri, legumi, cipolla, zuppe, cereali inferiori, cervi e cinghiali che sono più a contatto con il suolo).
È un’idea ideale di alimentazione, connessa alla ripercussione nell’universo, a un senso di ordine macrocosmico che si riflette anche da come mangiamo.

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14
Q

L’alimentazione fra tarda Antichità e alto Medioevo

I romani e i greci non erano vegetariani: una questione di religione e di semplice previdenza

A

Esiste una certa somiglianza tra l’alimentazione romana e quella greca.
Spesso si dice che i romani erano vegetariani: non è vero; semplicemente caricavano di valore aggiunto alimenti vegetali (ovvero, ne mangiavano di più), ma si nutrivano anche di carne e prodotti animali. Oltretutto, spesso bisogna chiedersi quale sia la religione dei soggetti che andiamo a studiare: il politeismo, ad esempio, implicava la pratica di sacrifici animali, il che esclude il vegetarianismo: la divinità sente il profumo che sale dalla carne sacrificata che viene fatta arrostire, ma la carne deve poi essere consumata dagli uomini; sarebbe stato infatti assurdo non mangiarla: era come dire che non si aveva a pregio il dono offerto alla divinità).
Quelli antichi restano comunque regimi alimentari molto vari, in maniera tale da garantire approvvigionamento alimentare qualora venisse a mancare, per qualche ragione, un alimento.

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15
Q

La triade mediterranea: grano, vite e ulivo

A

La triade “mediterranea” (sebbene questo aggettivo sia da prendere con le pinze; la dieta mediterranea viene codificata in realtà nel Novecento): grano, vite e ulivo.
Elemento centrale è il pane: Omero (secc. IX-VIII a.C.) definiva gli uomini «mangiatori di pane».
L’ulivo si coltiva e dà frutti, ma non se ne abusa. L’olio di oliva serve soprattutto in medicina per guarire e nella cosmesi per realizzare unguenti (è infatti un prodotto che aiuta a illuminare). Bisogna tuttavia capire di che cosa sappia l’olio di oliva nel Medioevo: le olive erano diverse da quelle di oggi, così come le tecniche di produzione; il gusto doveva essere molto più forte (ce lo dimostrano alcuni trattati, che avvertono circa l’eccesso di olio: qui, gli autori scrivevano infatti che non bisogna condire molto, altrimenti l’alimento avrebbe avuto il sapore “di olio”).
Già Plutarco associò insieme questi prodotti: già li associa insieme: i giovani ateniesi giurano fedeltà alla patria, in cui “crescono il grano, la vite e l’ulivo” (dalla Vita di Alcibiade). Dalle Metamorfosi di Ovidio (secc. I a.C.-I d.C.): “Ogni cosa che le mie figlie toccavano si trasformava in grano, o in vino puro, o in oliva” (chi parla è Anio, re e sacerdote di Delo).

L’esistenza di questa triade, tuttavia, non impedisce a questi prodotti di coesistere con orticoltura e pastorizia, soprattutto ovina.

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16
Q

Il valore della misura e della moderazione in età romana (+ fonti nelle quali si evince)

A

Tutto è ammesso nella cultura alimentare greca e romana, ma tutto va consumato con misura e moderazione, tantoché l’eccesso alimentare dei barbari, soprattutto della carne, sarà notato come un elemento negativo; anche la varietà è nociva, perché vuol dire che si mettono in tavola tante cose diverse.

Fonte: Orazio (Satire), I sec. a.C.

«Ascolta, adesso: parliamo dei vantaggi che comporta il vivere frugale […]. In primo luogo, un’ottima salute. Non credi che la varietà del vitto sia nociva all’uomo? Ricòrdati allora di quel cibo genuino che un giorno si lasciò tranquillamente digerire; mentre, mescolando l’arrosto col bollito, i frutti di mare con i tordi, tutte queste squisitezze passeranno in bile, ed un muco vischioso metterà lo stomaco in subbuglio. Non vedi come ognuno, da una cena varia, imbarazzante, s’alzi pallido?».

Fonte: Svetonio (Vita dei Cesari), I-II sec. d.C.

Svetonio scrive una biografia di Augusto, ma potrebbe non aver detto la verità. Ci parla, infatti, dei valori della società romana, ottimamente distillati nella figura dell’imperatore Augusto.

[Augusto] «Spesso interveniva ai banchetti in ritardo e se ne andava in anticipo, in modo che gli invitati cominciavano a cenare prima del suo arrivo e rimanevano dopo la sua partenza. Offriva di solito una cena di tre portate e, quando la voleva molto abbondante, una di sei, senza eccessiva spesa ma con estrema cordialità. […] Gli piaceva particolarmente il pane di seconda qualità, i pesciolini piccoli, il formaggio di mucca, premuto a mano, e i fichi secchi primaticci e settembrini».

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17
Q

Le culture romana e barbara si guardano (+ fonti da cui ciò si evince)

A

Succede nella prima metà del III secolo (ma anche prima), quando nuovi popoli vengono alla ribalta entro gli spazi dell’impero.
Tra gli scrittori latini, ciò incoraggia a ribadire con forza il carattere romano delle scelte alimentari, come nelle biografie degli imperatori contenute nella Historia Augustae, una raccolta di biografie d’imperatori realizzata da diversi autori nel IV secolo. È una fonte preziosa perché ci dicono quali erano i valori romani privilegiati (come la misura e la moderazione) e in che modo fossero distillati nelle figure dei vari imperatori, che li hanno fatto propri secondo gradi e modalità diverse.
I personaggi che si vuole rappresentare in chiave positiva sono anche eccellenti portatori dei valori alimentari romani più significativi, mentre i personaggi che si vogliono screditare sono spesso o di estrazione germanica, come Massimino il Trace, o imperatori che hanno assimilato un modo di nutrirsi accostabile al modello barbarico.

Fonte: Cesare (De bello gallico), I sec. a.C.

I germani “non praticano il lavoro dei campi e la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio e carne”.

Fonte: Tacito (Germania), I-II sec. d.C.

[i Germani] «come bevanda hanno un liquido ricavato dall’orzo o dal frumento, fermentato in modo analogo al vino; i più vicini alla riva del Reno commerciano anche il vino. Il loro cibo è semplice: frutti selvatici, selvaggina appena cacciata, latte cagliato; riescono a soddisfare la fame senza elaborati preparativi e senza ghiottonerie. Nei confronti del bere non sono ugualmente temperanti: se li si asseconda nella propensione a ubriacarsi offrendo loro quanto vino vogliono, si lasceranno vincere più facilmente dal vizio che dalle armi».

Tacito fa una sorta di complimento ai germanici (“senza ghiottonerie”). Infatti, non ama la sua civiltà, Roma, che sta ricercando troppo il lusso. Inoltre, anche i costumi sociali sembrano essere in declino, tantoché nella Roma di età imperiale viene varata una legge, la quale prevede che se si ha il sospetto che una donna abbia bevuto, un suo parente ha il diritto di baciarla per controllare lo stato dell’alito. La donna era ritenuta più vicino alla natura e meno in grado di controllarsi (il serpente si era rivolto ad Eva…). Il vino aveva una forza paragonabile a quella maschile; se veniva ingurgitato da una donna era perché questa desiderava il seme maschile, ma non quello del marito, pertanto il consumo di vino era associato all’adulterio.

Fonte: Procopio (De bello gothico), sec. VI

I lapponi “non bevono vino e non ricavano alcun cibo dalla terra […] ma si dedicano solamente alla caccia, uomini e donne”.

Fonte: Jordanes (Gotica), sec. VI

I goti minori conoscono il vino ma preferiscono il latte; vi sono popoli scandinavi “che vivono solamente di carni”; gli unni esercitano la caccia come unica attività; i lapponi “non ricercano cibo dai grani della terra, ma vivono di carni selvatiche e delle uova degli uccelli”.

“Ricercare il cibo dai grani della terra” significa essere collocati in un contesto di civiltà, dove i grani devono essere rielaborati: infatti, ancora Procopio scrive, parlando dei mauri, che si nutrono sì di cereali (frumento e orzo) ma “senza farli cuocere e senza ridurli in farina”, mangiandoli “allo stesso modo degli animali”. (passo “l’invenzione del cibo”).

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L’immaginario greco/latino e quello barbarico

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IMMAGINARIO GRECO/LATINO

Fonte: Esiodo

Ai tempi di Crono “gli uomini vivevano come dei […] e la fertile terra dava spontaneamente molti e copiosi frutti”.

L’agricoltore è visto colui che con l’aratro e il vomere va a ferire la madre terra, quindi il suo gesto, sebbene ci permetta di raccogliere il cibo dalla terra, è intrinsecamente violento.

Fonte: Varrone

I primi animali addomesticati furono le pecore.

Fonte: Pitagora

L’universo ha inizio dal pane.

IMMAGINARIO BARBARICO

Fonte: l’Edda poetica (raccolta di carmi mitici ed eroici messa per iscritto nell’alto Medioevo norreno, che raccoglie gli usi quotidiani di uomini e dei)
* «Andhrimnir fa in Eldhrimnir / Saehrimnir bollire, / la migliore delle carni; e questo ben pochi sanno: / con che cosa si nutrano gli “scelti”», dove Andhrimnir è il cuoco e Eldhrimnir il grande paiolo.
* «Heidhrun si chiama la capra che sta ritta sulla casa di Herjafodhr / e bruca le fronde di Laeradhr; / il recipiente riempirà, lei, del nettare splendente: / quel bere non può mancare».

Nell’Edda ciascun essere (anche animale) può avere un nome.
Il Saehrimnir viene chiamato da Montanari “Il grande maiale”. Il prefisso “Saehr” richiama il mare; potrebbe fare riferimento a un animale marino. Ma il fatto che Snorri abbia dato la spiegazione di un maiale fa pensare che all’epoca dovesse apparire come un maiale. Sta di fatto che è una carne eterna che non finisce mai.
Se si accettano le spiegazioni del secondo passo fornite dall’Edda di Snorri (dove sono presenti spiegazioni dell’Edda poetica), si scopre che quel recipiente «è così grande che tutti gli eroi si ubriacano».
Anche Heidhrun continua a produrre il nettare splendente: forse si sta facendo riferimento al latte fermentato (kumis)?
La popolazione nomade che si sposta continuazione potrebbe anche non essere in sicura di trovare il suo cibo, motivo per cui scatta il desiderio di avere delle certezze.

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Le biografie degli imperatori: un genere interessante…

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Le biografie degli imperatori romani sono una fonte preziosa perché ci dicono quali erano i valori romani privilegiati (come la misura e la moderazione) e in che modo fossero distillati nelle figure dei vari imperatori, che li hanno fatto propri secondo gradi e modalità diverse.

Fonte: La Historia Augusta

È una raccolta di biografie d’imperatori realizzata da diversi autori nel IV secolo. È una fonte che, ovviamente, parteggia per i romani.

  • Didio Giuliano: Chi si è fatto servire “ostriche, pollame e pesci” è venuto meno a quel precetto che suggerisce di non mescolare le cose.
  • Gordiano: È “goloso” di valori romani, quali verdura e frutta fresca.
  • Settimio Severo: La carne non veniva caricata di alcun tipo di valore. Ciò vuol dire che nel IV secolo l’equazione barbaro = carne è già diffusa.
  • Clodio Albino: Questo passo su Clodio Albino è la prova che il biografo non sta dicendo la verità. È un romano con valori romani, ma è un usurpatore: non può quindi essere rappresentato coe un moderato.
  • Gallieno: va contro natura e stagionalità.
  • Massimino il Trace: idem con Massimino il Trace, attraverso la cui descrizione viene documentata la personalità del barbaro. Lui, infatti, è il primo barbaro che arriva e mangia così.
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20
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La fusione tra culture alimentari romane e barbariche: i valori romani non si estinguono

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Se il vincitore (il “barbaro”) porta con sé e tende a imporre la propria cultura, anche in senso alimentare (carne), tuttavia i valori del vinto (il Romano) non si estinguono.
Il fenomeno è reso possibile dal prestigio della tradizione antica e dalla presenza di un terzo elemento, ovvero il cristianesimo, che si basa sì su quel grano, quel vino e quell’olio che caratterizzavano la cultura greca e romana, ma è onnivoro e non proibisce tutto. Infatti:

**Fonte: Girolamo di Stridone (IV-V sec.) **

Nel 395 Girolamo di Stridone, uno dei Padri della Chiesa latina, indirizza una lettera alla vedova Furia, esortandola a rinunciare a nuove nozze e a mantenere la castità.
La vedova è giovane e calda: meglio che beva acqua fredda (per raffreddarsi), ma se ce la fa beva pure il vino; in fin dei conti ciò che è importante è la moderazione.

Fonte: Possidio (Biografia di Agostino), IV-V sec.

Erbaggi: mangiare alla romana.
Era un amico e un seguace di Agostino.
Il discorso conviviale è importante. Se sta pranzando con qualcuno che ha bisogno di carne perché questa è ricostituente, allora Agostino la mangerà con lui.

In questo passo è visibile l’antitesi/conflitto con cultura ebraica.

**Fonte: La regola di Benedetto da Norcia (prima metà VI sec.) **

È la principale regola monastica, destinata a grande fortuna nei secoli successivi.
Non è previsto che si saltino i pasti (anche eccesso in moderazione).
È proprio in questo periodo che viene codificato il peccato di gola. È il primo peccato compiuto da Adamo ed Eva? O è la lussuria? La superbia? Ma il cristianesimo è onnivoro, quindi non si può dire che si è compiuto peccato perché si è mangiata una determinata cosa: il peccato di gola sussiste nell’eccesso rispetto alla necessità (nella quantità, negli orari, nell’eccessiva varietà, nel mangiare quando non serve).
Ma quando è il corpo che richiede di mangiare? Non si può chiedere a tutti l’astensione: tutti sono diversi. Infatti:

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21
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La cultura dei vincitori e la vittoria della carne: un alimento per tutti ma con qualche riserva

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A poco a poco, valori alimentari barbari e romani si affiancano:

  • i boschi (soprattutto nelle zone a dominazione longobarda) iniziarono a venir misurati nel loro impatto reale a livello produttivo (ad esempio, quanti ettari di bosco erano necessari per mettere in piedi un consistente allevamento di maiali, che necessitano di ghiande e altri frutti per ingrassare?). Si tratta di un calcolo analogo a quello per i campi (misurati in grano), per le vigne (in vino), per i prati (in fieno);
  • tutti possono usufruire dello spazio incolto, sia perché l’allevamento è prevalentemente allo stato brado, nei boschi e nei pascoli naturali, sia perché la caccia è aperta a tutti. Lo spazio alimentare è ancora aperto e non recintato. Ognuno riesce, quindi, a integrare la carne nella propria alimentazione (ad esempio il contadino, che mette la trappoletta per la lepre).
    Di conseguenza, la carne diventa per tutti un cibo quotidiano, un valore “normale”.
    Ma c’è carne e carne: anche se tutti la mangiano, nella dieta aristocratica il ruolo della carne è speciale, perché il signore è di mestiere un guerriero, e la carne è ritenuta lo strumento alimentare della forza fisica. Simbolo del potere è soprattutto la selvaggina grossa, status-symbol alimentare del guerriero: cinghiali, cervi, orsi.
    La caccia è l’immagine e la rappresentazione della guerra:
  • in senso tecnico: armi, uso del cavallo, strategie. Iniziazione dei giovani;
  • in senso simbolico.
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22
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Eginardo e La vita Karoli (IX sec.)

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Nel IX secolo, il fedele Eginardo scrive la biografia di Carlo Magno. Ne esce il ritratto di un sovrano pio, difensore dei valori e degli interessi della cristianità, che potremmo definire il primo sovrano «europeo». Dietro la patina cristiana e dietro l’immagine classicheggiante dell’incoronazione imperiale, emergono valori legati alla concezione germanica del potere.
È quindi una biografia tendenziosa, quasi agiografica.

  • “senza essere sproporzionato”: senso della misura;
  • è un uomo che si adatta;

Negli ultimi anni della sua vita iniziò a soffrire di gotta.

“Più di tre volte”: tanto il vino era sempre annacquato.

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Liutprando da Cremona, L’ambasceria a Costantinopoli (sec. X)

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Mentre in Occidente i valori “barbari” dilagano, in Oriente si trova un custode dei valori classici e cristiani: si tratta dell’imperatore d’Oriente, descritto attraverso gli occhi di un ambasciatore orientale.
Da giovane, Liutprando si trova a servire il re Berengario, che ha bisogno di mandare un ambasciatore a Costantinopoli senza spendere troppo denaro (in un’ambasciata precedente a questa cui ci riferiamo). Liutprando deve sottoporsi quindi a un corso intensivo di greco; una volta tornato dall’ambasciata, sebbene sia convinto che sarà accolto con tutti gli onori, viene invece messo da parte. Questa profonda mancanza di rispetto se la legherà al dito. Sarà rivalutato sotto la dinastia Ottoni, sotto la quale redige la lettera che prendiamo in esame, nella quale sono contenute le sue osservazioni circa la sede degli imperatori d’Oriente.
Questa ambasciata non è stata per lui una bella esperienza; ha persino litigato con l’imperatore ed è stato trattato come l’ultimo degli individui.

  • definisce ubriachi loro mentre è lui ad essere di origine barbara;
  • “unta di olio e aspersa di liquido di pesci”: noi pensiamo che il liquido in questione sia il garum. Ma sembra che non lo conosca neppure, nonostante esso continui ad essere importato in Occidente, sebbene non per usi alimentari: forse vuole distanziarsi da quella cucina? O non lo conosce davvero? Ma Liutprando ha letto molta letteratura latina: sarebbe strano. Quindi, o non vuole mostrare di conoscerlo perché non gli sembra affatto una prelibatezza, o non lo conosce davvero. Forse, invece, non lo menziona perché vuole deprivare di romanità i bizantini.
  • l’imperatore attinge a uno stereotipo dei barbari. Nell’insulto c’è implicito anche che i romani sono loro (i bizantini). Questi occidentali agli occhi degli orientali sono evidentemente imbarbariti.

“nenie”: nonostante Liutprando sia un vescovo.

Aglio, cipolla, porri: alimenti da contadini. Eppure, sono anche alimenti da romani: vuol dire che in Oriente sono rimasti indietro di secoli oppure che, volendo aggrapparsi alle radici della romanità, hanno continuato a mangiare alla maniera romana?
Inoltre, nel passo non si capisce molto se Liutprando sia sarcastico o meno. Forse sta enfatizzando solamente alcuni aspetti.

La nuova identità dei barbari (e, di contro, le apparenti rimanenze di quella romana) è più visibile da fuori perché emerge maggiormente dallo scontro di cultura.

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Produzione alimentare in campagna: l’esempio dell’azienda curtense

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Un’idea di Europa si è formata anche attraverso gli scambi di idee, che circolano insieme agli uomini. Una delle testimonianze più notevoli è costituita dall’organizzazione della produzione agricola, nella quale si susseguono modelli simili in quasi tutto l’Occidente.
I contratti agrari sono infatti fonti fondamentali per la storia dell’alimentazione.
Il modello dell’azienda curtense e della contrattualistica agraria nasce tra la Loira e il Reno, ma da lì comincia a diffondersi come una “buona idea” anche, ad esempio, in Inghilterra. Essa è espressione del dialogo che caratterizza il mondo occidentale.

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Dalla villa tardoromana alla concentrazione delle terre nelle mani di pochi proprietari

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È una vasta azienda agricola per il cui funzionamento il proprietario prevedeva in modo praticamente esclusivo l’utilizzo di manodopera servile, veri e propri schiavi senza diritti legati alla terra che costituivano un supplemento di proprietà.
Quando cominciarono ad arrivare le prime invasioni, la manodopera schiavile e servile cominciò a diminuire, perché oramai erano i romani a dover diventare i servi.
Le incursioni indussero i piccoli proprietari a disfarsi delle proprie terre e a mettersi sotto la protezione dei grandi proprietari, che inglobarono le terre dei nuovi protetti. Si dice che la chiesa abbia esercitato un diritto di proprietà sulla maggior parte delle terre in questo momento, le quali le venivano donate anche da personaggi che erano stati convinti dai confessori a cedere la propria proprietà in cambio della vita eterna. In realtà c’è un problema generale legato alla conservazione di documenti: in questo periodo, la chiesa è l’unico ente che si pone come obiettivo la conservazione della propria documentazione per avere i propri diritti messi per iscritto, sancendo la nascita dei primi nuclei archivistici a livello territoriale. I proprietari terrieri laici, invece, non conservavano i loro archivi. Noi non riusciamo quindi a determinare l’estensione di questo tipo di proprietà, anche perché, magari, essa era regolata da patti orali.

Con i Longobardi si pose un nuovo problema: se ci sono grossi proprietari terrieri e gli schiavi sono pochi in proporzione all’epoca precedente, chi va a coltivare la terra? Per gli studiosi fu abbozzato in questo periodo un sistema “pre-curtense”: una parte della terra, anziché farla coltivare ai loro pochi schiavi, la cedono tramite un patto agrario a contadini liberi che in cambio rendono un canone in natura.

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26
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L’azienda curtense di epoca franca

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In epoca franca resta la ripartizione in due parti: dominicum (gestione diretta) e massaricium (gestione indiretta).
* Il dominico è la parte migliore delle terre e se ne occupano gli schiavi, detti prebendarii poiché ricevono dal proprietario la prebenda, che corrisponde al necessario per vivere (in sostanza, il vitto e l’alloggio).
* A coltivare il massaricio sono invece i coloni liberi, o massari, legati al proprietario da contratti di vario genere, ma tutti più o meno riconducibili a un modello: concessione del manso (la porzione del massaricio) in cambio di: a) corresponsione di canoni parziali – dunque, una percentuale sul raccolto, che varia in base alla tipologia dei prodotti; b) un donativo annuale simbolico; c) corvées, prestazioni d’opera da compiere sulle terre del dominico nei momenti di particolare necessità, quali per esempio la vendemmia e la mietitura.

Le corvées furono un’invenzione geniale: esse erano delle prestazioni all’occorrenza che rappresentano la trovata che razionalizzò l’intero sistema: permettevano al proprietario di evitare di mantenere stuoli di servi o schiavi che risulterebbero inutili nei periodi morti dell’anno agricolo e al tempo stesso crearono una coesione tra le diverse parti della proprietà.

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27
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Fonte: Il contratto di livello, una peculiarità italiana (anno 854)

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In Italia esisteva un tipo di contratto, quello di livello. Inventato in epoca romana (in seguito a una norma emanata nel 368 dagli imperatori Valentiniano e Valente) e diffusosi nell’Italia del sistema curtense, esso era stipulato tra il proprietario e il contadino e aveva una durata di 29 anni (una cifra strana, che era però legata a una faccenda legale: il limite da non oltrepassare era quello dei 30 anni, dopo i quali sarebbe scattato l’usucapione).

In questa fonte, la contessa Adelburga concede in locazione a Ermenperto del fu Raginaldo alcune sue terre ubicate nel territorio di Marzaglia, presso Modena:

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28
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La fine del sistema curtense: l’inizio della signoria rurale/territoriale di banno

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Il fenomeno dell’azienda curtense sparisce dopo il periodo carolingio. Perché? La sua decadenza è stata fatta risalire a un insieme di concause:
dell’azienda curtense vale per il periodo carolingio, poi sparisce. Perché?
* intorno al IX-X secolo quando, in concomitanza con le seconde invasioni barbariche, la piccola proprietà entrò definitivamente in crisi e i privilegi signorili cominciarono ad affermarsi. I proprietari recinsero le proprietà, tecnicamente si dice che le “incastellano”, ma così facendo incorporavano anche terre di proprietà altrui e uomini che non erano loro dipendenti o loro servi, ma semplicemente si trovavano a vivere e a lavorare in territori collocati tra l’uno e l’altro dei mansi incastellati (il fenomeno è chiamato «frittata con i fagioli» da Giuseppe Sergi. A quel punto si parla di «signoria rurale» o «territoriale di banno», su cui il signore esercitava il proprio potere e le proprie prerogative;
* la faccenda del recintare portava con sé la riduzione degli spazi incolti (messi quindi a coltivazione), a scapito delle aree boschive. Però i signori a caccia continuavano ad andarci: gli spazi per garantire quest’attività vennero recitati e nacquero le prime riserve di caccia. Questo causò un problema ai contadini, che nei boschi andavano a raccogliere la legna o a mettere una trappoletta per garantirsi un approvvigionamento carneo: la dieta media del contadino, quindi, si impoverì per mancato accesso all’area boschiva. Il signore poteva decidere di garantire l’accesso all’area boschiva gratuitamente o dietro pagamento di un canone.

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29
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La ripresa delle città (XI secolo)

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Nel passato, la città rivestiva un ruolo centrale nell’impero romano: era responsabile del coordinamento amministrativo, il perno della vita economica e politica dello Stato, su di essa convergevano le risorse agricole e le derrate alimentari (nei mercati e nei magazzini dei maggiori proprietari); la sua politica annonaria era presieduta da specifici funzionari.
Venuto meno l’impero, però, emersero altri punti di riferimento, come villaggi, abbazie, chiese e corti signorili: l’economia di sussistenza era basata sull’autoconsumo.
Nell’XI secolo anche gli spazi cittadini hanno lo stesso problema delle invasioni barbariche. Anche loro hanno necessità di essere recintate. Ma chi comanda nelle città? Chi può decidere di recintarle? In teoria ci sarebbe un imperatore in carica, ma l’autorità è vagamente latitante. Allora le città decidono di riorganizzarsi. Chi prende in mano la situazione è il vescovo (città vescovili), l’unico con un po’ di autorità. Assistiamo quindi alla costruzione di mura (non più di legno) a spese del vescovo della città. I comuni, invece, compaiono quando nascono magistrature laiche (il consolato, ad esempio).

Città significa:
* luogo di abitazione e di lavoro, in cui un’autorità singola o collegiale veglia sul benessere collettivo e s’impegna ad assicurare il pane quotidiano tramite un approvvigionamento alimentare costante e politiche di stoccaggio oculate per i momenti difficili;
* mercato, che mette a disposizione dei cittadini i prodotti provenienti dal contado e, per coloro che possono permetterselo, anche da più lontano;
* comunità, persone che vivono insieme avendo ciascuna il proprio compito specifico: tra costoro, preponderante è il numero degli artigiani; al loro interno, alcune categorie svolgono mestieri aventi a che fare con la produzione, la preparazione e il commercio del cibo.

La autorità cittadine si occupano di:

  • tutela del paesaggio agrario;
  • controllo dei processi di trasformazione dei prodotti (norme su mulini e forni);
  • controllo sui mercati (ad esempio imponendo norme di differenziazione sui dazi);
  • gli stessi proprietari terrieri che controfirmavano i contratti agrari erano gli stessi che detenevano il potere nelle città, quindi facevano gli interessi di quest’ultima, precisando i lavori che il contadino doveva svolgere e quali colture prediligere: il contadino divenne uno strumento di lavoro nell’ottica del profitto borghese.

La città inizia a godere di un potere e di un’influenza straordinaria, ma allo stesso tempo è quella maggiormente dipendente dai meccanismi del mercato e dalle calamità naturali: in caso di carestia e prezzi alti è la prima a subirne le disastrose conseguenze, con lo svuotamento dei mercati, la cacciata degli indigenti e la chiusura delle porte della città a chi moriva di fame. Anche i contadini affrontano condizioni rischiose, ma sono comunque a contatto con i mezzi di produzione.

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Il pane quotidiano: l’importanza dell’approvvigionamento cerealicolo

A

Il pane è un prodotto decisivo dall’XI secolo, la cui menzione ricorre in maniera ossessiva: i coltivi sono chiamati terre di pane; il prodotto dei campi il raccolto del pane. Una quota viene richiesta per l’affitto o per la decima delle terre; le scorte dei contadini sono costituite dal pane; la comunità familiare è l’insieme di coloro che vivono a uno pane e uno vino. La sua mancanza indica uno stato di emergenza: poiché ad esso si è assuefatti, nei periodi di crisi produttiva si utilizzano ogni sorta di prodotti surrogati (pani di carestia). È un atto di disperazione controllata e un modo di rispondere razionalmente al momento di crisi di cui parlano anche i trattati agronomici della Spagna musulmana, che mobilitando il sapere della farmacologia, dell’agronomia e della dietetica, introducono regole importanti che evitano di cadere in errori fatali, come l’utilizzo di erbe velenose. Col passare del tempo, però, la sua mancanza diventa insostenibile e diventa impensabile sostituirlo con qualsiasi surrogato.

Ci sono diversi tipi di pane:

  • pane bianco: benché il frumento torni a guadagnare terreno tra il XI e il XIII secolo, esso rimane ancora un lusso concesso ai proprietari terrieri che lo richiedono come canone, e ai cittadini che lo trovano sul mercato (anche se gli strati inferiori urbani consumano anche cereali inferiori, castagneti e leguminose). È di gran lunga il cereale che gode di un’attenzione maggiore nei trattati di agronomia. L’agronomo Paganino Bonafede si sofferma a parlare solo della coltivazione del frumento, perché il resto è conosciuto. Per garantirsi il rifornimento di frumento si ricorre persino alle armi e alle requisizioni nelle campagne.
    È presente tuttavia anche nei consumi rurali in Toscana, dove si cerca di imitare i modelli urbani, e nelle zone del Sud Italia, dove l’impianto produttivo ricalca ancora quello romano e dove il consumo di frumento si accompagna a quello dell’orzo;
  • pane nero/polente/zuppe/biade per il mondo contadino, ancora legato ai prodotti del podere.

L’autorità pubblica ha il dovere prioritario di assicurare un approvvigionamento alimentare tale da garantire la sopravvivenza del popolo. Questo significa, da parte dell’autorità pubblica, disporre di un potente strumento di controllo. Tuttavia, si tratta di un’arma a doppio taglio: nel momento in cui l’autorità pubblica incontra difficoltà nell’approvvigionamento, il rischio di rivolte e di sovvertimento dell’ordine aumenta sensibilmente. Per l’Europa, l’approvvigionamento alimentare maggiormente «sensibile» è quello cerealicolo.
Il pane non può mancare, altrimenti è un problema. Come assicurare quindi l’approvvigionamento cerealicolo? Bisogna evitare la dispersione: tutto il cereale prodotto in eccesso nel territorio, dunque quello che non serve all’alimentazione nel territorio stesso o alla nuova semina, deve pervenire ai granai cittadini: è normalmente fatto divieto di venderlo altrove. Il medesimo discorso vale per i mugnai, che lo riducono in farina per renderlo utilizzabile: anch’essi lavorano esclusivamente per il fabbisogno di quel territorio e di quella città e non possono esportare le loro farine.
Vengono anche fissati incentivi per chi importa “grani forestieri” a beneficio della città: costui usufruisce di agevolazioni fiscali sui dazi e, normalmente, anche di una simbolica ricompensa morale che fa di lui un benefattore della patria.
C’è una grande attenzione a come deve essere fatto il granaio: vengono lanciati allarmi se ci sono cali di produttività o se piccoli animaletti lo stanno distruggendo. A Bologna c’è anche l’ufficio del pane nel Medioevo, studiato da Francesca Pucci Donati.

L’attenzione al prezzo del pane è un ulteriore punto cardine del sistema di regolamentazione cittadina: le sue inevitabili fluttuazioni, soggette alla maggiore o minore disponibilità di materia prima, avvengono comunque entro intervalli prestabiliti dall’autorità e non possono oltrepassare certi limiti, in modo da assicurare a ognuno di non restarne privo neppure nei momenti peggiori.

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I forni delle città

A

In città molte case non hanno il forno; spesso i cittadini lo preparano a casa per poi portarlo al forno per la cottura; uso, questo, invalso anche per altre preparazioni alimentari, quali per esempio le torte e i pasticci.
Spesso, come retribuzione al fornaio che cuoce l’impasto, viene data della farina. Il fornaio spesso mischia insieme tutte queste farine ricevute per fare un pane di costo inferiore (visto che non è monograno).
In campagna, invece, generalmente il forno è presente (visto che il forno non è proprio dietro l’angolo…).

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La carne e un luogo per il macello

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I macellai, all’interno del mercato, sono la più sorvegliata delle categorie: non si tratta di un accanimento astratto, quest’attenzione al contrario deriva da una serie di buone ragioni:
* la carne, molto più dei cereali, è sottoposta e sottopone a forti rischi igienici e sanitari, sia al momento dell’abbattimento dei capi sia in tutte le fasi successive, sino alla vendita;
* i macellai sono, tra le corporazioni che hanno a che fare con il cibo, la più potente e pericolosa: gli strumenti del loro mestiere sono vere e proprie armi che, se rivolte contro le persone e non contro gli animali, provocano bagni di sangue. Non sempre questi ultimi sono considerati negativamente: nel caso di guerre tra città, per esempio, i macellai costituiscono talvolta un piccolo esercito di difesa e d’offesa che va ad aggiungersi a quello dei militari “professionisti” rafforzandone le schiere;

I macellai sono fatti quindi oggetto di disposizioni particolari e dettagliatissime.

La scelta di edificare un macello centralizzato è normalmente condivisa dai vari governi cittadini: si tratta di una garanzia d’igiene per l’ambiente, soprattutto per quanto riguarda l’immondizia prodotta da smaltire (sangue) o da riciclare (pelle), e d’igiene per la carne stessa, poiché l’esperto macellatore può meglio verificare la salute dell’animale al momento della macellazione.
Dove costruirlo? In linea generale, le città italiane optano per la periferia, immediatamente dentro o, meglio ancora, immediatamente fuori delle mura, ponendo l’accento sulla necessità di allontanare il più possibile la sozzura (e i brutti spettacoli) dal centro. Poi ci saranno lì vicino dei conciapelli.
Quelle francesi agiscono in modo contrario e preferiscono collocarlo adiacente al mercato, a due passi dalla piazza principale, purché vi scorra vicino almeno un piccolo canale di smaltimento: chiunque può così constatare che le bestie raggiungono la destinazione ultima diritte sulle loro zampe e in buone condizioni di salute, evitando il rischio di comprare carni di bestie già morte.

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Il mercato: garanzie per gli acquirenti

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  • Garanzie per gli acquirenti: vi erano prezzi esposti, etichette ante litteram a indicare le caratteristiche e la provenienza, sottolineata in particolare quando rappresenta un valore aggiunto rispetto alla merce venduta (quanti acquirenti sono davvero in grado di capire quale carne stanno davvero comprando? La vitella, ad esempio, costa il doppio del vitello. Si obbligano quindi a esporre sul bancone in corrispondenza della carne le zampette e il musetto dell’animale), bilance pubbliche affidate a funzionari comunali (“appesatori”, “ripesatori”) per verificare il peso dopo l’acquisto: sono questi alcuni dei provvedimenti adottati sul posto in modo da eliminare, o quantomeno limitare, le possibilità di frode.
    A parte i macellai, la categoria tenuta maggiormente d’occhio è quella dei rivenditori di generi vari, quali ortofrutta, uova e pollame e simili, che normalmente non sono produttori diretti della loro merce ma la acquistano a loro volta (quindi la fanno pagare di più). Per avvertire l’acquirente vi sono varie modalità e possibilità: imporre per esempio un’insegna ben visibile anche da lontano – alcune leggi forniscono persino la lunghezza del palo al quale dev’essere affissa – oppure collocare i banchi dei rivenditori in luoghi della piazza ben precisi, creando così una topografia del mercato che permette al consumatore di non perdersi all’interno dell’offerta.
  • Garanzie per i venditori: a loro volta si tutelano contro eventuali acquirenti disonesti chiedendo, per esempio, che i controlli su peso e qualità della merce venduta avvengano direttamente sotto ai loro occhi e non altrove, per evitare che questa venga dispersa o sostituita dopo l’acquisto.
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La gestione dell’accoglienza (studenti, lavoratori di transito, ecc.)

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Il rifiorire dei mercati e del commercio coinvolge non solo le singole città, ma anche i collegamenti che le uniscono le une alle altre. Questo comporta un rilancio degli spostamenti delle persone e la conseguente necessità di assicurare loro l’alloggio e un ottimo vitto quando si trovano a fare tappa o a soggiornare lontano dalla propria dimora. Un’accoglienza ben organizzata è anche un modo di dare lustro alla città che accoglie: garantendo un buon servizio si favorisce il ritorno dei visitatori e s’incoraggiano ulteriori nuovi arrivi. In parecchie città si trovano normative specifiche che impongono ai proprietari di osterie e taverne di assicurare alcune derrate, la loro varietà e freschezza, e di esporre i prezzi in modo che l’ospite non sia soggetto a inganni o a brutte sorprese.

Bologna, nel Medioevo e nella prima Età moderna, conosce fasi di abbondanza e fasi di carestia, a somiglianza della maggior parte delle città italiane ed europee. La sua peculiarità sta nella sua situazione geopolitica. Si trova infatti al centro di un territorio relativamente esiguo rispetto alle dimensioni della città. Inoltre, è costantemente sovrappopolata a causa della forte componente studentesca all’interno della società. L’approvvigionamento alimentare richiede pertanto una politica particolarmente attenta e può servire come caso di studio.

  • Riformagioni e provvigioni: quando si riuniscono i consigli comunali, che devono discutere dei problemi nella vita di tutti i giorni, la decisione viene presa a maggioranza (scrutinio palese o segreto) e ha forza di legge. Al mattino, il notaio fa l’elenco dei punti da discutere, poi parte la deliberatoria, che però spesso non corrisponde all’ordine dei punti.
    Se vi sono dei discorsi importanti, questi vanno a finire negli statuti; se si tratta di questioni di minore importanza, si finisce con una semplice decisione del consiglio. Le riformagioni e provvigioni gettano uno sguardo sulla vita quotidiana delle città: temi trattati sono la gestione delle acque (irrigazione e salute);
  • Statuti delle arti: parlano più di amministrazione dell’arte. Quello che le arti fanno per davvero è più negli statuti cittadini, poiché quello che fanno ha una ripercussione sulla città;
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L’informazione alimentare

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In età medievale le notizie prese dai consigli cittadini vengono o urlate da un araldo oppure lette dal celebrante della messa per essere comunicate alle persone; a partire dall’Età moderna, invece, cominciarono a esserci i bandi a stampa; è nel XVI secolo che scoppiano i bandi a stampa con sistemi di affissione regolamentati: nasce l’informazione alimentare che ha un legame con la politica. Se l’autorità politica ha modo di comunicare un provvedimento, vuol dire che ha a cuore il benessere della città.
Nei bandi il pane è sempre in cima, seguito da carni e poi a scendere tutto il resto.

In questi bandi (come in quello stampato a Bologna nel 1548) – stampati anche a «libriccino» – ci sono spesso preamboli dal tono politico; sembra che facciano propaganda. Mentre nel Medioevo bisognava essere più diretti, la stampa garantisce lo spazio necessario a inserire discorsi morali (“amorevolissimo padre”; “nemico della patria” chi non rispetta i provvedimenti).

  • il pane deve essere di qualità (bando di Bologna, 1558)
  • la carne grossa costa meno (bando di Bologna, 1576)
  • “beccai e salaroli”: i macellai non possono vendere carne salata, poiché si teme che utilizzino carne poco fresca e la salino per non buttarla via. Questa è venduta dai salaroli.
  • fruttivendoli/venditori di verdura: il consueto segno di riconoscimento è il bastone di legno che deve avere una certa altezza, e sopra c’è scritto TPR (trecoli, polaroli, revenderoli);
  • nella regolamentazione per gli osti (1566) vi è scritto quanto, cosa e come devono servire, quanto deve pagare il cavallo che mangia assieme al cliente, ecc;
  • il prezzo della carne deve essere esposto chiaramente al consumatore;
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Codici di comportamento alimentare nel Medioevo: Jaques Le Goff e Massimo Montanari

A

L’alimentazione è un marcatore di identità sociale. Particolare rilievo in questo campo ha l’immagine del contadino (si parla di “immagine”, come fa notare Montanari, perché è una storia basata sulla mentalità).

Secondo Jacques Le Goff, la letteratura nell’alto Medioevo mostra già il contadino come:
* un pagano superstizioso;
* un miserabile socialmente pericoloso;
* un rozzo illetterato.
La povertà era uno sfregio all’immagine. Se il povero è disperato può fare qualsiasi cosa e sovvertire l’ordine sociale.

Secondo invece Massimo Montanari, nell’alto Medioevo l’immagine del contadino è ancora vista come positiva. Per esempio, il modello di vita monastica propone insieme preghiera e lavoro (il labor, in origine, era il lavoro dei campi; e i monaci provenivano anche da famiglie nobili), dove il lavoro è quello del contadino, dunque il contadino è integrato nel quadro sociale e nel sistema di valori culturali.
Massimo Montanari accusa Le Goff di un anacronismo, di aver applicato parametri che sarebbero stati validi per il pieno e basso Medioevo e di averli proiettati sull’alto Medioevo.
Le palizzate che perimetrano le identità sociali ancora non recingono tutto e la società, perlomeno ora, continua a integrare anche il “fuori”, i contadini.

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L’alimentazione contadina

A

Cereali

Il signore e il monaco mangiano pane bianco (frumento). Il contadino mangia pane scuro (segale, orzo, spelta), polente e minestre di miglio, legumi, avena. È normale che si nutra di cereali minori perché la maggior parte del raccolto resta a lui, il signore prende solamente 1/3 e ¼ dei cereali minori, il resto che gli viene dato invece è frumento. Il contadino cerca di vendere i cereali più pregiati.
Gregorio di Tours narra che Gregorio vescovo di Langres mangiava pani d’orzo ma, per non apparire orgoglioso del sacrificio compiuto, li mangiava di nascosto, tenendoli sotto il pane di frumento che offriva agli altri e che fingeva di consumare con loro (così gli avrebbe imposto la dignità della sua carica).

Carne

Il signore mangia soprattutto il frutto della caccia. Il contadino si nutre del frutto della pastorizia (in particolare maiale e pecora; i bovini per i contadini servono più come bestie da tiro). Anche il contadino può utilizzare lo spazio incolto: i luoghi in cui attingere sono ancora i medesimi.
La vera differenza sta nelle quantità: nell’alto Medioevo il signore “deve” mangiare di più ( è un retaggio cultura germanica).

Fonte: Liutprando da Cremona (Antapodosis) - Il signore che non vuole mangiare di più: la storia di Guido da Spoleto, che non fu eletto re dei Franchi perché non mangiava molto.

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I poveri: circuiti di beneficenza

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Ci sono dei poveri che non sono poveri tutto l’anno: magari lo sono mentre aspettano il nuovo raccolto (giugno e luglio) e non ne hanno più del vecchio. È qui che la chiesa (ad esempio come indicato nel 780 dal capitulare episcoporum) organizza le elemosine e cerca di mantenere vivo il pauperes famelicos.
Quando si richiede di nutrire questi poveri si chiede normalmente di prenderne in carico 12 (= numero degli apostoli); altrimenti, se non si ha tanti denari 6 (anche le uova un tempo si vendevano solo 6 o 12). L’uovo è la classica elemosina data ai poveri perché è estremamente energetico. Ma per Gregorio Magno anche tutti i prodotti ricavati dalle proprietà ecclesiastiche possono essere dati ai poveri: frumentum, vinum, caseum, legumen, lardum, manducabilia animalia, pisces, oleum. Solo le spezie (pigmenta) e gli altri delicatiora commercia sono riservati alle mense dei ricchi. Diventano così un primo segno di distinzione.

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39
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La svolta per i contadini: IX secolo

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  • crisi della piccola proprietà: quando si comincia a creare il dentro e il fuori con aree boschive delimitate, viene a mancare al contadino una risorsa cui poteva attingere per nutrirsi;
  • progressiva affermazione dei privilegi del signore: da azienda curtense a signoria territoriale o di banno (ora possono anche amministrare la giustizia anche su personaggi non direttamente loro dipendenti che si trovano dentro questa zona ora è recintata).
  • nuovo modello monastico cluniacense: i monaci non lavorano più i campi, ma si dedicano alla produzione di codici miniati. Il labor viene subappaltato ai contadini: inizia il rifiuto, da parte delle classi elevate, di sporcarsi le mani.
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Riflesso delle modificazioni alimentari, produttive e sociali: il contadino inizia a essere visto come inferiore

A
  1. Nel nuovo modello monastico cluniacense i monaci non lavorano più i campi, ma si dedicano alla produzione di codici miniati. Il labor viene subappaltato ai contadini: inizia il rifiuto, da parte delle classi elevate, di sporcarsi le mani.
  2. A partire dal sec. IX, si teorizza una società tripartita:
    * oratores (chierici e monaci), che pregano per garantire a tutti la salvezza dell’anima;
    * bellatores (guerrieri), che proteggono la società dai suoi nemici;
    * laboratores (lavoratori), che nutrono l’intera società; sono gli unici che sono sia produttori che consumatori. Bisogna garantire loro sopravvivenza, altrimenti ci rimetterà la società tutta. Il termine indica più specificamente i “contadini”, i lavoratori della terra. Il contadino comincia a essere visto come inferiore rispetto al resto perché, a seguito dei cambiamenti verificatisi tra VIII e IX secolo, la sua alimentazione ha assunto un’impronta prettamente vegetale (seppur non sia stata stravolta), e la qualità sociale della sua persona inizia a essere definita a seconda di ciò che mangia nella grande catena dell’essere.

Fonte: da un dialogo tra il monaco Giovanni e l’abate di Cluny Oddone, si evince come l’alimentazione vegetale sembra connotare il mondo contadino fin nell’odore del corpo: il monaco Giovanni, biografo dell’abate di Cluny Oddone, non esita a confessare - vergognandosene, poi - di essersi allontanato dal maestro durante un viaggio a Roma, per non riuscire a sopportare il fetore di cipolla e d’aglio che promanava dal sacco di un contadino aggregatosi alla compagnia. Oddone rimproverò il monaco Giovanni: “Come sarebbe? Ciò che questo povero porta con sé, non puoi neppure vederlo? Ciò che lui mangia, non puoi neppure annusarlo?” Viceversa, se Oddone riesce a sopportare l’odore di aglio e cipolla significa che è davvero un santo.

  1. In seguito, nascerà la satira del villano (secondo la quale il contadino è un essere rozzo e molto sporco), che contrappone il contadino al cittadino.
    Il contadino ladro sottrae il dovuto al cittadino proprietario e mangia cibi che non gli spettano (pane bianco, le pesche…): questa è la morale della storia di Zuco Padella.
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L’opposizione tra città/campagna: schemi ideologici e realtà dei fatti

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La barriera tra città e campagna non è invalicabile; è un’utopia della classe dominante: Zuco Padella le pesche, alla fine, è sempre riuscito a mangiarle e in Italia vi sono anche prodotti e sapori contadini che entrano nella cucina di élite, nella condizione di venire poi nobilitati.
Montanari nota che i primi ricettari sono pieni di ricetta con agli, cipolle e scalogni: questi prodotti ci sono perché nel basso Medioevo non è tanto la quantità ad essere importante, quanto la varietà di cibi. I signori decidono di incorporare alla propria tavola i cibi del contadino per non ridurre la propria tavolozza alimentare. Un esempio è il Liber de coquina, che include delle modalità per nobilitare le verdure (“Prepara i cavoli delicati a uso dei signori” come contorno delle carni; “Le piccole foglie odorose si possono dare al signore”), o le “fave infrante” sono una semplice polenta di fave, arricchita però con spezie e zucchero. Anche lo stesso Sabadino degli Arienti scrive che l’aglio “sempre è cibo rusticano”, ma “a volte artificiosamente civile se fa, ponendose nel corpo de li arrostiti pavari”. Un libro di cucina veneziano del Trecento consiglia la “agliata” (salsa a base di aglio pestato nel mortaio) “a ogni carne”; un ricettario toscano del Trecento: “Togli raponcelli, bene bulliti in acqua, e poni a soffriggere con oglio, cipolla e sale; e quando sono cotti et apparecchiati, mettivi spezie in scutelle”. O ancora: “in ciascuna salsa, savore o brodo, si possono ponere cose preziose, cioè oro, petre preziose, spezie elette, ovvero cardamone, erbe odorifere o comuni, cipolle, porri a tuo volere”.

L’ideologia della differenza è una teoria che si costruisce su un dato di fatto, su una prassi che viene valorizzata per l’interesse di coloro che se ne servono. Comunque, essa ha potuto avere presa perché poggia su un terreno fertile che risale già all’alto Medioevo (per quanto relativamente ricca l’alimentazione del contadino in questo periodo, egli comunque si ritrova a mangiare tantissimi cereali minori e certa carne piuttosto che altra).

Però è anche vero che ci sono alcuni prodotti attorno al quale si costruisce la differenziazione tra l’alimentazione contadina e quella cittadina:
* il pane: per il cittadino è bianco, di frumento; per il contadino è scuro, di cereali inferiori;
* la carne: per il cittadino è fresca, acquistata al mercato; per il contadino è salata, a causa dell’economia di sussistenza in cui vive. È di pecora per il cittadino, porco per il contadino.

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Identità sociali nel Basso Medioevo: concezione gerarchica dell’alimentazione e disciplinamento alimentare (DISCIPLINAMENTO ALIMENTARE)

A

L’incremento tra tardo Medioevo e prima Età moderna di atteggiamenti pubblici di carattere “ostentatorio” ispira la regolamentazione giuridica delle manifestazioni del lusso attraverso l’emanazione di leggi suntuarie, già emanate nella Roma di Età repubblicana e imperiale.

Gli oggetti del disciplinamento delle leggi suntuarie:
* Vesti e ornamenti vengono colpiti a causa del loro impatto visivo. Durante la messa della domenica ci sono persino ufficiali comunali deputati ad assicurare l’ordine del lusso. Anche se una persona è particolarmente ricca non può ostentare troppo (anche se c’è comunque chi trasgredisce).
* Funerali perché quando muore un personaggio particolarmente potente lo si veste di tutto punto. Si fa concelebrare la messa da tanti sacerdoti e tanto denaro viene speso in cera, costosissima. Si fanno suonare le campane in varie chiese diverse. È sicuramente solenne per i defunti che ricevono tale trattamento, ma uno dei grandi problemi è la peste: bisogna evitare di radunare tanta gente nel funerale;
* Banchetti (di nozze ma non soltanto), perché quando il padre di una sposa vuole organizzare un banchetto sontuoso in onore del matrimoni di sua figlia, potrebbe competere col banchetto del grande signore della città. È infatti in queste occasioni che la tavola diventa più una tavola da guardare, e i cibi su di essa sono fatti più per essere guardati che per essere mangiati.
I grandi banchetti sono messi in piedi dai signori spesso per riaffermare il proprio potere quando questo risulta in declino, come nel caso del matrimonio Bentivoglio-Este; in questo caso, questi banchetti portano fama e gloria a tutta la città. In questo caso, il banchetto del signore non è visto come ostentazione, ma come valorizzazione della dinastia e della città. È agli altri che non è consentito fare la stessa cosa per non sminuire l’impatto politico e visivo del banchetto del signore.
Per fare sì che questo strumento politico non venga utilizzato da tutti si iniziano a varare delle leggi suntuarie che disciplinano il lusso e il suo eccesso. Essi hanno tra gli altri scopi quello di creare un’evidente distanza tra la popolazione cittadina e la corte.

Il caso degli statuti di Bologna (1288 - 1401)

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Come si fa a far rispettare le leggi suntuarie?

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  • multe: se una persona è ricca non avrà problemi a pagarle;
  • danno all’onorabilità sociale: bisogna far capire che non rispettare le leggi comporta il disonore. Ad esempio, le vesti lunghe sono ammesse solamente per le prostitute: se una donna vuole indossarle non ci sono problemi, ma sarà tacciata come una donna poco rispettabile;
  • punendo i cuochi attraverso multe o frustate in pubblica piazza (anche i “cuochi in affitto”, chiamati da coloro che vogliono fare un grande banchetto ma non hanno un cuoco in casa.
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Il ricordo del banchetto – I narratori di banchetti

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Il banchetto, in sé, è una delle forme d’arte più effimere che si conoscano. I suoi organizzatori lavorano accuratamente perché sia perfetto sin nei minimi particolari e la sua riuscita sia assicurata, ma in poche ore l’emozione è consumata, il cibo in eccesso è distribuito tra i servitori, magari talvolta rivenduto al mercato e, se non più allettante per gli esseri umani, dato direttamente in pasto ai cani.
È qui che entrano in gioco i narratori di banchetti, spesso incaricati dai nobili organizzatori di perpetuare il ricordo dell’esperienza passata; altre volte, invece, sono cronisti che ne intercalano le descrizioni agli altri avvenimenti di storia delle città. Si trovano anche testimonianze di cuochi, trincianti e soprattutto scalchi (per esempio Cristoforo Messisbugo, metà XVI secolo). Anche i libri di ricette contribuiscono alla fama della corte.

Fonte: Cherubino Ghirardacci – Il racconto dello spettacolo del banchetto (1487)

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45
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Il tempo della fame: uno sguardo generale sui secoli immediatamente successivi alla caduta dell’Impero romano

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Dopo il crollo dell’Impero romano ci furono anni difficili, in cui emersero nuove realtà politiche e amministrative; i popoli e le culture si rimescolarono e continuò la crisi delle strutture produttive iniziata nel III secolo, aggravata dal decadimento dell’agricoltura e dall’imperversare di guerre ed epidemie. Questo stato di emergenza iniziò nel III secolo e raggiunge il proprio apice nel VI secolo.
La curva demografica conobbe una parabola discendente e le avversità indebolirono le capacità di resistenza degli uomini, ma c’è un rapporto inverso tra (carico demografico)/(condizioni alimentari) , perché nelle fasi storiche di bassa pressione demografica i consumi individuali sono meglio garantiti; quindi, non possiamo dipingere una situazione alimentare catastrofica:

  • certo, si conoscono drammi, come guerre, siccità e carestie, ma con la fame si convive; non sempre si muore di inedia (questo succede solo se la fame è prolungata): si cercano soluzioni di ripiego, producendo pani di carestia. La cosa più importante, però, è differenziare il ventaglio di risorse attraverso la policoltura, che riduce i pericoli insiti nelle avversità climatiche;
  • ci sono però anche fenomeni per noi ripugnanti: molti si avventano a divorare le erbe e le radici che crescono spontaneamente dalla terra; ci sono anche episodi di cannibalismo. Tuttavia, esiste anche l’uomo ‘civile’ che usa la tavola e a volte la tovaglia.

Oltre a tutto questo, molti territori si svuotarono: le campagne erano desolate per mancanza di uomini a sfruttare le risorse, che pure non mancavano. Aumentarono le distese di incolto, detto anche saltus: molti territori non venivano messi a coltura dal III secolo per un pregiudizio culturale che impediva di sfruttarli nelle loro potenzialità.
Ma tra il V e il VI secolo emerse un nuovo modello produttivo e culturale nato dall’amalgama di scelte e opzioni che prima si erano combattute: il modello agro-silvo-pastorale (sintesi romano-barbarica), che sarà la fortuna dell’alimentazione e dell’economia medievale.

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I capisaldi alimentari del modello greco-latino

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Il modello greco-latino era costruito attorno ad alcuni punti fondamentali:
* la presenza di città, attorno alle quali si organizzava l’ager produttivo della campagna (vs saltus/incolto);
* diffidenza per l’incolto, ovvero la natura vergine, come le paludi e i boschi, considerati non umani e incivili. Un certo, seppur blando e marginale, sfruttamento dell’incolto era praticato da parte soprattutto degli sbandati. Ciononostante, questo veniva frequentato anche dagli imperatori, in occasione delle cacce, un momento piuttosto ‘esotico’;
* priorità all’agricoltura, all’addomesticamento della natura, all’orticoltura e all’arboricoltura: i prodotti-base erano quelli della cosiddetta «triade mediterranea», ovvero il grano, la vite e l’ulivo, che convivevano, però, anche con la pastorizia ovina (per ricavare latte e formaggi), con la pesca nelle regioni costiere e con una discreta quantità di carne.
La triade “mediterranea” (sebbene questo aggettivo sia da prendere con le pinze; la dieta mediterranea viene codificata in realtà nel Novecento): grano, vite e ulivo.
Elemento centrale è il pane: Omero (secc. IX-VIII a.C.) definiva gli uomini «mangiatori di pane».
L’ulivo si coltiva e dà frutti, ma non se ne abusa. L’olio di oliva serve soprattutto in medicina per guarire e nella cosmesi per realizzare unguenti (è infatti un prodotto che aiuta a illuminare). Bisogna tuttavia capire di che cosa sappia l’olio di oliva nel Medioevo: le olive erano diverse da quelle di oggi, così come le tecniche di produzione; il gusto doveva essere molto più forte (ce lo dimostrano alcuni trattati, che avvertono circa l’eccesso di olio: qui, gli autori scrivevano infatti che non bisogna condire molto, altrimenti l’alimento avrebbe avuto il sapore “di olio”).
Già Plutarco associò insieme questi prodotti: i giovani ateniesi giurano fedeltà alla patria, in cui “crescono il grano, la vite e l’ulivo” (dalla Vita di Alcibiade). Dalle Metamorfosi di Ovidio (secc. I a.C.-I d.C.): “Ogni cosa che le mie figlie toccavano si trasformava in grano, o in vino puro, o in oliva” (chi parla è Anio, re e sacerdote di Delo).
L’esistenza di questa triade, tuttavia, non impedisce a questi prodotti di coesistere con orticoltura e pastorizia, soprattutto ovina.
* dieta onnivora: spesso si dice che i romani erano vegetariani: non è vero; semplicemente caricavano di valore aggiunto alimenti vegetali (ovvero, ne mangiavano di più), ma si nutrivano anche di carne e prodotti animali. Oltretutto, spesso bisogna chiedersi quale sia la religione dei soggetti che andiamo a studiare: il politeismo, ad esempio, implicava la pratica di sacrifici animali, il che esclude il vegetarianismo: la divinità sente il profumo che sale dalla carne sacrificata che viene fatta arrostire, ma la carne deve poi essere consumata dagli uomini; sarebbe stato infatti assurdo non mangiarla: era come dire che non si aveva a pregio il dono offerto alla divinità).
Quelli antichi restano comunque regimi alimentari molto vari, in maniera tale da garantire approvvigionamento alimentare qualora venisse a mancare, per qualche ragione, un alimento.
* valore alimentare della misura e della moderazione: tutto è ammesso nella cultura alimentare greca e romana, ma tutto va consumato con misura e moderazione, tantoché l’eccesso alimentare dei barbari, soprattutto della carne, sarà notato come un elemento negativo; anche la varietà è nociva, perché vuol dire che si mettono in tavola tante cose diverse.

Fonte: Orazio (Satire), I sec. a.C.

«Ascolta, adesso: parliamo dei vantaggi che comporta il vivere frugale […]. In primo luogo, un’ottima salute. Non credi che la varietà del vitto sia nociva all’uomo? Ricòrdati allora di quel cibo genuino che un giorno si lasciò tranquillamente digerire; mentre, mescolando l’arrosto col bollito, i frutti di mare con i tordi, tutte queste squisitezze passeranno in bile, ed un muco vischioso metterà lo stomaco in subbuglio. Non vedi come ognuno, da una cena varia, imbarazzante, s’alzi pallido?».

Fonte: Svetonio (Vita dei Cesari), I-II sec. d.C.

Svetonio scrive una biografia di Augusto, ma potrebbe non aver detto la verità. Ci parla, infatti, dei valori della società romana, ottimamente distillati nella figura dell’imperatore Augusto.

[Augusto] «Spesso interveniva ai banchetti in ritardo e se ne andava in anticipo, in modo che gli invitati cominciavano a cenare prima del suo arrivo e rimanevano dopo la sua partenza. Offriva di solito una cena di tre portate e, quando la voleva molto abbondante, una di sei, senza eccessiva spesa ma con estrema cordialità. […] Gli piaceva particolarmente il pane di seconda qualità, i pesciolini piccoli, il formaggio di mucca, premuto a mano, e i fichi secchi primaticci e settembrini».

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47
Q

L’alimentazione dei “barbari” (celti e germani) si basa su alcuni capisaldi:

A
  • sfruttamento dell’incolto e predilezione per la natura vergine (caccia, pesca, raccolta dei frutti selvatici, allevamento brado nei boschi, con maiali e cinghiali);
  • consumo di carne (anche cruda, per i latini segno di ferinità), il valore alimentare di primo grado (soprattutto maiale, ma anche equini, bovini, cacciagione);
  • latte (vuol dire che almeno degli ovini allevati c’erano), latte di giumenta e liquidi acidi che ne derivavano, sidro da mele selvatiche, birra (questa si produce con vari cereali, non necessariamente frumento. Si utilizzano soprattutto cereali minori come l’orzo, molto semplice da coltivare e resistente; infatti, i cereali minori crescono rapidamente e sono meno soggetti a carestie e malattie. quando sarà creata la rotazione triennale, una parte del campo sarà riservata alla coltivazione di frumento e una a quella di cereali minori – l’altra a maggese. Il frumento crea maggiori problemi alla terra perché ‘succhia’ più sostanze nutritive.
  • un grande appetito, simbolo di forza e di vigore. Anche l’onomastica era presa a prestito dal mondo animale (Orsi, Lupi). Ci sono racconti che narrano le sfide di forza animalesca nell’Edda tra Loki, Thorr e Logi. La frugalità sarà disprezzata anche quando i valori alimentari germanici si imporranno nell’Alto Medioevo: basti pensare alla fine di Guido da Spoleto, rifiutato al trono del Sacro Romano Impero per il suo scarso appetito. Anche nel mondo ecclesiastico del nord Europa ci saranno porzioni ciclopiche per i membri del clero secolare (X secolo; i preti e i vescovi non sono monaci). D’altra parte, esistono rigorose privazioni per le regole monastiche, una evidente reazione polemica a una società che assegna al mangiare il primo posto (una risposta morale e religiosa, quindi, a un’etica sociale del potere.

Tuttavia, il quadro alimentare non era così rigido: i germani consumavano anche cereali, pappe d’avena o focacce d’orzo (Procopio scriverà tuttavia che i germanici mangiano i cereali senza ridurli in farina: non basta l’agricoltura a fare una civiltà, ma serve l’elaborazione e l’intervento sul cibo), e i romani mangiavano anche carne di porco.
Bisogna quindi valutare il ruolo specifico rivestito dai singoli prodotti nel regime alimentare, il posto e il peso che hanno in un sistema che si organizza come un’unità coerente in modi di volta in volta diversi. Vero è che, però, non possono non balzare agli occhi le contrapposizioni, che diventano segni di identità culturali descritte ampiamente da scrittori latini e greci.

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Il processo di integrazione tra i due sistemi (la sintesi romano-barbarica, che inizia nel V – VI secolo) - grazie al potere delle tribù germaniche

A

L’integrazione è possibile grazie all’affermarsi del potere politico e sociale delle tribù germaniche e al diffondersi del cristianesimo, e può reggere nel tempo anche grazie a un favorevole rapporto tra popolazione e risorse: la sopravvivenza viene garantita anche con un sistema poco redditizio, come quello basato sull’estensione dell’incolto.

Grazie all’ affermazione del potere delle tribù germaniche:

Si diffonde anche un atteggiamento mentale nuovo di fronte al paesaggio e nel modo di intendere la natura incolta. Avviene, cioè, un salto culturale. È proprio a partire da questa nuova valutazione positiva del saltus e dall’integrazione, da ambo le parti (non senza momenti di contrapposizione) della cultura del pane e della carne che nasce il modello romano-barbarico.

a) I boschi vengono valutati non più in termini di superficie, ma nel loro impatto reale a livello produttivo in base al numero di maiali che ghiande, faggiole ecc. consentivano di farvi crescere e ingrassare. Si tratta di un calcolo analogo a quello per i campi (misurati in grano), per le vigne (in vino), per i prati (in fieno). Il paesaggio inselvatichito viene messo a disposizione come pascolo brado per i maiali;
b) tutti possono usufruire dello spazio incolto, sia perché l’allevamento è prevalentemente allo stato brado, nei boschi e nei pascoli naturali, sia perché la caccia è aperta a tutti. Lo spazio alimentare è ancora aperto e non recintato. Ognuno riesce, quindi, a integrare la carne nella propria alimentazione (ad esempio il contadino, che mette la trappoletta per la lepre).
L’uso della natura incolta richiede anche la conoscenza del territorio, reperita, magari, informandosi attraverso gli abitanti del luogo. Questo perché bisogna distinguere ciò che è commestibile da ciò che è dannoso per l’uomo. La storia dell’anacoreta siriano raccontata nelle Vite dei santi Padri ci rivela la predilezione eremita per un modello alimentare di stampo naturale (vegetazione spontanea) e il ritiro in una cornice ambientale appartata e isolata. La natura è un fatto culturale, economico e sociale: l’anacoreta non cerca la solitudine in un deserto perché in quel momento è lo spazio incolto della foresta ad aver assunto grande importanza.
c) La carne diventa il valore alimentare per eccellenza: ad esempio, il medico Antimo, che indirizza un opuscolo al re dei Franchi Teoderico, scrive delle varie modalità di preparazione delle carni di maiale, dell’utilizzo del lardo laddove manchi l’olio, e della possibilità di mangiare carni crude (cosa normale per stomaci abituati a mangiare un solo genere di cibo, ma, forse, il pubblico dei suoi lettori non disdegnava del tutto la cosa).
Ma c’è carne e carne: anche se tutti la mangiano, nella dieta aristocratica il ruolo della carne è doppiamente speciale, perché il signore è di mestiere un guerriero, e la carne è ritenuta lo strumento alimentare della forza fisica. Simbolo del potere è soprattutto la selvaggina grossa, status-symbol alimentare del guerriero: cinghiali, cervi, orsi.
La caccia è l’immagine e la rappresentazione della guerra:
* in senso tecnico: armi, uso del cavallo, strategie. Iniziazione dei giovani;
* in senso simbolico.

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Il processo di integrazione tra i due sistemi (la sintesi romano-barbarica, che inizia nel V – VI secolo) - grazie all’affermazione del cristianesimo

A

Grazie alla diffusione del cristianesimo (dal IV sec. religione ufficiale dell’impero), il quale reca l’impronta alimentare della cultura greca, latina ed ebraica, assumendo come simboli i prodotti alimentari che di quelle culture erano la base materiale ed ideologica, si diffonde la cultura del pane, del vino e dell’olio. Sono simboli caricati di valenze metaforiche.

a) Il pane riflette, metaforicamente, una certa corrispondenza tra il processo di fabbricazione del pane e la formazione del nuovo cristiano (c’è bisogno di un certo numero di ingredienti, di lavorazione, di attenzione, di crescita e attesa). Ma è anche la metafora di Cristo: come il pane, Egli è stato impastato, cotto nel forno del sepolcro e ora distribuito ai fedeli.
b) Il vino è l’immagine e lo strumento del miracolo eucaristico. Inoltre, i santi, per diffondere la fede, piantano le vigne e mettono a coltura il frumento. Esso conferisce forza ed entusiasmo: a Clodoveo viene dato da bere prima di sferrare l’attacco contro l’ariano Alarico. Il vino si contrappone talvolta alla birra, la quale pare emanare una forza malefica, mentre a volte convive con essa in maniera cordiale, tantoché nel monastero fondato a Luxeuil da San Colombano la birra era la bevanda abituale dei monaci.
c) L’olio era indispensabile per la liturgia e per la somministrazione dei sacramenti, nonché per l’accensione delle luminarie.

All’interno di questo processo di diffusione dei simboli alimentari greco-latini ora fatti cristiani, un ruolo chiave fu giocato dai Franchi, che si convertirono precocemente alla nuova religione per assicurarsi l’insediamento all’interno dei territori dell’Impero. Furono loro a fare ‘proseliti’ e ad esportare questo modello alimentare.

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L’incontro tra le opzioni romane e barbariche cosa garantisce tra VI e X secolo?

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Le culture alimentari romane e germaniche si confondono e si mescolano, entrando in simbiosi: ad esempio, il Concilio di Aix (IX sec.) fissa la tavola delle corrispondenze che i canonici possono consumare di vino o di birra. Il vino, inoltre, inizia a diffondersi nei territori settentrionali, mentre la birra viene importata in quelli meridionali.
Il loro incontro garantisce un sistema alimentare tra VI e X secolo piuttosto articolato e ricco:
* La coesistenza tra attività agricole e sfruttamento dell’incolto non è una completa integrazione: esistono varie realtà intermedie, rappresentate dagli orti, che si inseriscono nella frequentazione del mondo vegetale spontaneo, dagli alberi da frutto, dalla presenza di animali che possono trovarsi sia addomesticati sia allo stato selvatico (cervi, porci domestici). Esiste quindi un confine labile tra economia selvatica ed economia domestica. Inoltre, non era scevra da problemi: a) esistevano pochi animali da lavoro, b) il concime andava disperso per i boschi; c) la produttività dei campi era bassa quindi erano necessarie ampie superfici per la semina (carattere estensivo della produzione); il terreno a prato veniva ridotto al minimo indispensabile e con esso l’allevamento stabulare, che avrebbe permesso di disporre di un maggior numero di animali da lavoro e di una maggiore quantità di concime: era un circolo chiuso.
d) Ci furono 29 carestie generali in Europa tra il 750 e il 1110, con una media di una ogni 12 anni.
Nella seconda metà dell’VIII secolo e il IX si ha una più alta concentrazione di carestie, che scemano nel X per poi rincrudirsi nell’XI secolo, anche a livello nazionale e regionale. Provocano fame, sottonutrizione, malattie (come l’ergotismo, legato all’abuso della segale cornuta, attaccata da un fungo tossico), epidemie e una grande mortalità; questi fenomeni erano più impattanti a mano a mano che cresceva la dipendenza dai raccolti.
Con il XII secolo si ha una fase di assestamento: si è creato un nuovo equilibrio e si è fondata una cultura agraria.
Queste due dimensioni coesistevano a tal punto che la stessa nozione di ‘carestia’ – di cui ci parla, ad esempio, Gregorio di Tours –, legata all’andamento produttivo di settori economici e a ritmi stagionali diversi, comprendeva la nozione di carestia forestale e di carestia agricola.
* Le fonti di approvvigionamento erano piuttosto differenziate: la tavolozza alimentare era variegata. Carne, pesce, formaggio, uova, pane, farinate verdure: il consumo di tutto ciò era garantito anche dalla normativa ecclesiastica, che amalgamava gli usi e favoriva la costruzione di consuetudini più omogenee, fissando, nel calendario liturgico, i prodotti da consumare in giorni di magro e giorni di grasso. Se la carne era generalmente consumata, essa veniva però evitata nei giorni di magro: a questo punto, doveva essere sostituita con qualcos’altro. Ciononostante, ceti superiori e ceti inferiori non mangiavano, tuttavia, allo stesso modo, sia per ragioni di natura eminentemente pratica, produttiva, ‘commerciale’, potremmo dire (se ai contadini rimaneva del frumento dopo averlo dato in corresponsione al signore, preferivano comunque venderlo piuttosto che utilizzarlo per fare il pane), sia per ragioni di distinzione e prestigio sociale, soprattutto dal Basso Medioevo.

Ceti superiori

Pane bianco di frumento
Pane fresco
Pane lievitato
Cottura del pane al forno
Pane
Carne fresca

Ceti inferiori

Pane scuro prodotto con cereali inferiori
Pane raffermo
Pane meno lievitato (es: il pane d’orzo).
Cottura sul testo o in mezzo alla cenere
Zuppe e polente
Carne conservata sotto salagione e attraverso l’affumicatura.

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Il cambiamento: verso l’VIII – IX secolo: l’agrarizzazione dell’economia

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Il modello romano-barbarico raggiunge il suo momento di massimo equilibrio (con la coesistenza di incolto e coltivazione) tra il VII e l’VIII secolo. Ma la crescita della curva demografica tra l’VIII e il IX secolo portò a un aumento della domanda di cibo, quindi alla necessità di allargare gli spazi coltivati, abbattendo alberi e ampliando lo spazio coltivato ampliando (= agrarizzazione dell’economia).
* La pressione demografica non poteva essere affrontata più in quel modo: l’economia della foresta e della predazione è insufficiente.
* Questa differenziazione in base alle nuove esigenze porta con sé anche un certo scontro ideologico tra le opzioni selvatiche, espresse dal gusto venatorio della nobiltà, e quelle domestiche, ad esempio degli ecclesiastici.

Furono proprio i monaci a farsi importanti imprenditori di imprese di disboscamento e messa a coltura degli spazi, iniziative che sono anche delle risposte a una domanda di civiltà. Nel farlo, entrarono però in conflitto con i contadini, che si sentivano attaccati nel loro uso degli incolti.
Il processo di colonizzazione ed erosione dell’incolto fu lento e progressivo, correlato con le crisi produttive e alimentari. In alcune zone si procedette ad abbattere solamente la selva infruttuosa (quella che non produce ghiande e altro cibo per gli animali). Il bosco, inoltre, non solo veniva eroso, ma anche addomesticato e messo a coltura, facendovi crescere, ad esempio, il castagneto da frutto (da cui si poteva ricavare la farina) al posto degli antichi querceti.

Montanari definisce questa scelta una «scelta coatta», dettata dalla necessità più che dalla volontà, come bene si evince da una giustificazione all’interno dell’inventario del monastero di Bobbio dell’883. Essa rivela una contraddizione tipica del IX sec. tra la volontà di preservare le aree incolte e l’inevitabilità di privarsene per ragioni di pressione demografica.
L’alternativa tra cereali o carne, infatti, dipende dal carico demografico: per far ingrassare degli animali servono parecchi ettari di terreno, mentre i cereali possono sfamare molte più persone, sono versatili, si conservano più facilmente e in maniera più duratura.

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Lotte per il controllo degli incolti (monaci, signori locali, città) – VIII – XIV sec.

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Le modificazioni nell’ambito produttivo causano modificazioni di ordine sociale: aumenta la concorrenza per lo sfruttamento degli incolti e si restringono i diritti d’uso su di essi. Si affermano così alcuni privilegi legati all’esercizio del potere, che attraversano freneticamente il mondo nobiliare, dove si inizia a far sentire la crescita demografica.
* Tra l’VIII e il IX secolo sono i monaci i detentori del potere; essi si scontrano con i contadini.
* Tra il X e il XI sono soprattutto i signori laici ad assoggettare uomini e terre, arrogandosi il controllo delle attività produttive oltre che della pubblica amministrazione e della giustizia (spesso anche i beni di chiese e monasteri sono fatti oggetto di rapine e violenze). In questo periodo nascono anche le prime riserve di caccia, che escludono i ceti rurali dall’attività venatoria, perseguendo in maniera sistematica i fenomeni di bracconaggio. Vengono regolamentate anche le attività pastorali, introducendo dei limiti nel diritto di erbatico, di ghiandatico e di spigolatura.
* Tra il XIII e il XIV secolo i diritti sono pressocché scomparsi in Italia: persistono nelle aree marginali e anche le città partecipano all’espropriazione, contenendosi con la nobiltà rurale i diritti signorili del territorio (i diritti dei cives, i boschi del comune).

Tutto ciò dimostra la centralità dei diritti d’uso sull’incolto, mentre la preoccupazione contadina conduce spesso a scontri e rivolte sanguinose (come nel 966 in Normandia, nel 1381 in Inghilterra e nel 1525 in Germania).
Nel frattempo, però, anche il mondo contadino sta cambiando: con la rinascita dei commerci e l’economia monetaria, molti contadini ricchi si ritagliano uno spazio nell’economia di mercato, molti continuano a vivere nella tradizionale autarchia di consumi, mentre cresce la categoria dei salariati.

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L’alimentazione si differenzia sempre di più

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Il fenomeno dell’incastellamento e la riduzione degli diritti sull’incolto conduce necessariamente una differenziazione dell’alimentazione tra ceti superiori e inferiori in senso più marcatamente qualitativo: i ceti inferiori iniziano a mangiare soprattutto cibi di origine vegetale, anche se la carne non sparisce dalla loro dieta (tantoché Pietro Abelardo può affermare che è un cibo piuttosto comune e visto ancora come un complemento nutritivo indispensabile per la dieta povera, a differenza del pesce, che è una ghiottoneria per palati fini e borse capaci; a fine Duecento Riccobaldo da Ferrara scrive che fino a 50 anni prima si mangiava carne «solo» tre volte a settimana). Solo in un primo momento l’apporto carneo autonomo calerà, dovuto alla difficoltà di praticare caccia e allevamento.
I ceti superiori, invece, possono ancora permettersi la carne fresca, vero e proprio status symbol.

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Il XII secolo: una nuova epoca di benessere

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Il XII secolo inaugura una nuova fase di benessere e di floridezza parziali (perché sono soprattutto le città a beneficiarne), nonostante la crescita abbia comportato anche fenomeni di emarginazione e sperequazione sociale, con un equilibrio tra popolazione e risorse che resta fragile, come dimostrano i continui disboscamenti, indicatori che i bisogni alimentari crescenti sono rimasti insoddisfatti.
* Le carestie diminuiscono e diminuisce anche la loro incidenza, permettendo alle campagne di tirare un sospiro di sollievo.
* Grazie alla capacità produttiva dei contadini (strumento di lavoro nell’ottica borghese), possibilità di consumo si diffondono tra strati più ampi della popolazione. Riccobaldo da Ferrara scrive, riferendosi all’epoca di Federico II, come a un periodo di costumi «rozzi», in cui i popolani non consumavano carne fresca che tre volte la settimana.
Persino i contadini vorrebbero mangiare meglio e avvicinarsi allo stile dei signori, quindi i ricchi spostano più in alto la soglia di distinzione sociale. Non è più la quantità e la qualità di cosa si mangia a differenziare i ceti umili da quelli superiori (anche se il modello tradizionale del molto mangiare rimane un segno distintivo della nobiltà), ma è anche come si mangia.

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Il ritorno della fame a fine Duecento e miglioramenti dopo la peste

A

A partire dal 1270, si ha una grave battuta d’arresto nella crescita economica. Al crescere della popolazione non si riesce più a rispondere in modo adeguato: lo spazio coltivabile si è eccessivamente dilatato e un limite invalicabile è stato raggiunto. Procedere oltre non servirebbe a nulla perché sarebbe inutile sfruttare terreni marginali, inadatti alla crescita del grano (= arretramento delle colture cerealicole). Con il calo della produzione agricola, tornano fame, carestie (la prima metà del Trecento ne è particolarmente segnata: durissime quelle del 1328 – 1330 e del 1347 in Italia) e malattie, come risultato di ripetuti stress alimentari che indeboliscono il corpo già malnutrito: infatti, le carenze nutritive preparano il terreno alla diffusione delle malattie, perché il tenore di vita favorisce o ostacola la difesa del sistema immunitario ai processi infettivi (tantoché i meno colpiti furono gli abitanti delle coste dei Paesi Bassi, dove allevamento e pesca fornivano il giusto apporto di proteine e grassi animali).
Nuove tensioni dividono cittadini e contadini: se è vero che la città era la più esposta ai periodi di crisi e alle calamità naturali perché dipendente dai meccanismi del mercato, generalmente, però, i cittadini erano anche i più protetti in questi periodi di crisi, attraverso l’introduzione di prezzi politici al grano e alla farina. Allo stesso tempo, però, gli indigenti si riversavano in città (sia i contadini verso la città, che i cittadini delle città minori verso le maggiori), ma se le scorte erano insufficienti in città, allora anche i cittadini si riversavano verso le campagne e i borghi rurali (come nel romano, 1338), visti i mercati vuoti o inaccessibili alle tasche dei più poveri.

Dopo la peste del Trecento, tuttavia, abbiamo testimonianze di abbondanza di cibo. Si è finalmente ritrovata la voglia di vivere e, assieme a questa, il desiderio di ostentare e mettere in mostra ricchezze: si iniziano a vietare eccessive manifestazioni di lusso per non alterare l’equilibrio sociale (= leggi suntuarie). I protagonisti in assoluto di questa nuova fase di abbondanza sono la carne e il pesce: nelle cronache, il pane, i cereali, i legumi e le verdure sono troppo comuni per essere ricordati. Aumenta il consumo carneo (Montanari parla di un’Europa carnivora fino alla prima metà del Cinquecento), anche per i ceti inferiori. Ciò è favorito dalla ripresa di pascoli e prati naturali a seguito dell’arretramento delle colture cerealicole e del crollo demografico di metà Trecento: in Francia e in Lombardia molte aziende agricole danno spazio alle colture foraggere e, ancora più a nord, come in Baviera, sorgono aziende specializzate nell’allevamento del bestiame. La carne viene importata anche da zone lontane: si riforniscono i mercati cittadini con facilità, si verifica un ribasso dei prezzi che, assieme al rialzo dei salari (conseguente alla crisi demografica) determinano un’esplosione nei consumi (per non parlare dell’autoconsumo domestico di porci, pecore e pollame, non registrato dai calcoli), soprattutto nei Paesi del Nord e tra i ceti medio-alti o urbani. Per i contadini la carne non è rara, ma ci sono maggiori difficoltà di approvvigionamento; c’è ancora un contrasto nella distribuzione sociale del cibo: i bovini, cibo per i cittadini, che viene macellato da industrie specializzate (a causa della sua stazza, non è un affare di famiglia), ma anche il manzo e il vitello; pecore e castroni per gli strati popolari delle città (che comunque dimostrano di emanciparsi rispetto allo stile alimentare della campagna); e i suini, simbolo di un’economia familiare tendenzialmente autarchica, figlia della vecchia economia del bosco (il porco salato). Per conquistare la simpatia dei ceti umili, tra Quattro e Cinquecento si aprono temporaneamente le riserve.
Sebbene gli incolti siano stati sottratti allo sfruttamento comune e l’allevamento stabulare abbia acquisito maggiore centralità rispetto al pascolo brado, i medici continuano a sconsigliare le carni di animali ‘incarcerati’, sostenendo che si debbano preferire gli animali cacciati in montagna, una rarità.

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L’aumento del consumo di carne: conseguenze nelle prescrizioni ecclesiastiche

A

Nei giorni di magro (circa 140 – 160 giorni l’anno), eremiti e monaci si astengono dalla carne, confermando così la sua centralità. Il modello viene allargato alla società intera, confortato dalle prescrizioni delle autorità ecclesiastiche, limitato ad alcuni giorni della settimana e a certi periodi dell’anno (vigilie, piccole e grandi Quaresime).
I motivi dietro l’astensione dalla carne:

  • ordine penitenziale: rinuncia a questo tipo di piacere;
  • immagine pagana del consumo di carne (ad esempio, sacrifici animali);
  • convinzione che il consumo di carne favorisse l’eccesso di sessualità;
  • tradizioni di pacifismo vegetariano greco e latino.

La carne veniva sostituita quindi da cibi alternativi, quali legumi, formaggio, uova e pesce, il surrogato per eccellenza della carne, simbolo dei periodi di magro. La sua affermazione non fu incontrastata:

  • Fu ammessa la liceità del suo consumo dal IX/X secolo, ma furono esclusi i pesci grassi e di grande taglia, la cui polpa era sanguinosa come quella degli animali terrestri;
  • Netta opposizione con la carne e netta divisione dei ruoli nei menù, un artificio retorico che cela una profonda integrazione culturale. Carne e pesce sono opposti ma cavallerescamente alternati;
  • Un gioco chiave fu giocato dal cristianesimo e dal processo di evangelizzazione delle terre attraverso i vescovi, che insegnano ad esempio agli anglo-sassoni pagani come pescare;
  • Il pesce ha però problemi di deperibilità che non lo rendono una derrata comune. Per questo motivo, hanno più fortuna i pesci di acqua dolce, più rapidi da trasportare, come l’anguilla, e quelli conservati, per i quali, a poco a poco, si perfezionano le tecniche di salagione, messa a sott’olio, essiccazione, affumicatura. Quest’ultimo tipo di pesce richiama nozioni di povertà economica e subalternità sociale.

Quali pesci si consumano?

  • Aringa salata del Baltico dal XII secolo, che costruisce la fortuna della Lega anseatica e dei pescatori di Olanda e Zelanda. Tra il Trecento e il Quattrocento, quest’aringa abbandona il Baltico e viene rincorsa a largo delle coste inglesi e scozzesi;
  • Carpe salate o essiccate, pescata dal Duecento nel Danubio. Sono state introdotte qualche secolo prima dai monaci e fanno la fortuna della Boemia;
  • Merluzzo, pescato dalla fine del Quattrocento, che si trova in quantità inesauribile sui banchi di Terranova, a tal punto che Francia e Inghilterra competono per il controllo di quelle acque;
  • Lucci e trote in montagna;
  • Salmone, lampreda e storione, seccati e salati, protagonisti del commercio di mercanti veneziani e genovesi.
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Identità sociali nel Basso Medioevo: concezione gerarchica dell’alimentazione e disciplinamento alimentare (CONCEZIONE GERARCHICA)

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Il periodo di grande mobilità sociale rappresentato dai primi secoli del Basso Medioevo, in cui emergono ceti borghesi che minacciano il ruolo storico della nobiltà tradizionale, porta al rafforzamento di una concezione gerarchica dell’alimentazione e al «disciplinamento alimentare».

CONCEZIONE GERARCHICA DELL’ALIMENTAZIONE

I trattati medici, da Ippocrate in poi, prescrivevano un’alimentazione secundum qualitatem personae. Ma la qualità, insieme delle caratteristiche fisiologiche e delle consuetudini proprie di ciascun individuo (età, sesso, complessione umorale, stato di salute, clima), riceve a poco va poco una connotazione prevalentemente sociale. Qualità arriva a indicare un’identità sociale immanente alla persona, uno status rigido e inflessibile conferito dalla posizione gerarchica, dalla ricchezza e dal potere. È cambiato qualcosa dal punto di vista concettuale: i corpi sono corpi sociali; le ideologie e le mentalità influenzano la scienza medica.
Nasce l’ideologia cortese del cibo. Le regole alimentari rimandano alla necessità di non evadere l’ordine sociale per preservare il proprio stato di salute; quest’urgenza viene confermata dai medici come una necessità fisiologica.
La qualità di una persona deve trovare corrispondenza in quello che è presente alla sua tavola, e se nell’Alto Medioevo lo status symbol del sovrano-guerriero si manifestava attraverso un grande appetito, nel Basso Medioevo a definire il rapporto tra regime alimentare e stato sociale sono:
* la qualità delle vivande: quale cibo si addice a chi è definito dalla grande catena dell’essere: i cibi pesanti, più a contatto col suolo, saranno adatta all’alimentazione del contadino che, svolgendo lavori pesanti e manuali, potrà mangiare anche cibi indigesti perché il suo corpo produce già calore attraverso la fatica fisica, e sarà pertanto facilitato nella fase digestiva. I ceti elevati, che oramai nel basso Medioevo non vanno più in guerra, svolgono invece un’attività sedentaria: il loro corpo non produce calore, quindi avranno più difficoltà a digerire; per questo motivo devono mangiare cibi leggeri, aggiungendo le spezie che facilitano il processo.

Fonte: Chanson de Renart (lingua d’oil) – L’alimentazione del contadino (XII – XIII secolo)

Fonte: Sabadino degli Arienti (le Porretane), XV sec. – La storia di messer Lippo dei Ghisilieri e di Zuco Padella

Fonte: Sabadino degli Arienti (le Porretane) – La storia di Bondeno alla corte Estense

  • i codici di comportamento alimentare (come si mangia, come ci si atteggia in un contesto conviviale). Nasce la civiltà cortese e delle buone maniere. Il cibo è un semplice contorno: di esso nei romanzi due-trecenteschi si parla poco (si parla in generale di “pietanze” e di “vivande”). Al centro dell’attenzione c’è la bellezza della tavola, del vasellame, della ritualità conviviale fondata su conversazioni eleganti e sull’apparente distacco nei confronti del cibo. Chi conosce le buone maniere sicuramente ha un certo interesse nei confronti del cibo (anche perché è in questo periodo che vengono scritti i primi libri di cucina), ma è anche molto attento a distinguere le buone dalle cattive vivande: il protagonista del romanzo di Joanot Martorell (Tirant lo Blanc) è un conte eremita che vuole diventare gentiluomo, ma per dimostrare di essere correttamente iniziato alla vita cortese dovrà distinguere le buone dalle cattive vivande.

L’ideologia della differenza è una teoria che si costruisce su un dato di fatto, su una prassi che viene valorizzata per l’interesse di coloro che se ne servono. Comunque, essa ha potuto avere presa perché poggia su un terreno fertile che risale già all’alto Medioevo (per quanto relativamente ricca l’alimentazione del contadino in questo periodo, egli comunque si ritrova a mangiare tantissimi cereali minori e certa carne piuttosto che altra).

Ovviamente la barriera tra città e campagna, ricchi e strati più umili non è invalicabile; anzi, ci sono dei rimandi tra piano dotto e piano popolare:
* i** ceti privilegiati non conoscono la fame ma conoscono la paura della fame** (l’urgenza di ostentare quel che si ha non si può comprendere al di fuori della cultura della fame);
* i ceti popolari conoscevano in determinate circostanze il mondo dell’abbondanza e dell’ostentazione: hanno sempre desiderato riempirsi la pancia e nelle occasioni festive si lasciavano andare a grandi abbuffate (= sperpero rituale e propiziatorio), che facevano parte di un immaginario alimentare ben preciso, quello del Paese di Cuccagna, versione popolare delle colte mitologie edeniche che si diffonde ampiamente tra Due e Trecento.
Il Paese di Cuccagna è un mondo felice, utopico, dove ogni desiderio trova risposta e immediata soddisfazione: il desiderio di riempirsi la pancia, di vivere una sessualità libera e spensierata, di guadagnare sempre di più senza fare assolutamente nulla («dove chi più dorme più guadagna»).
Ha avuto varie declinazioni: era presente nelle zoocrazie comiche antiche (nelle “Bestie” di Cratete, dove oggetti semoventi si offrono spontaneamente all’uomo; nelle “Anfizioni” di Teleclide, un tempo in cui le cose si offrono già pronte nelle tavole; e ne “I minatori” di Ferecrate), in un testo francese del Duecento (il “Pais de Coquaigne” dove addirittura è scritto che il papa stesso ha suggerito di recarsi in questo luogo pieno di libagioni per perseguire la purificazione spirituale) e in una novella di Boccaccio, dove è chiamato “Il paese di Bengodi” (luogo in cui è presente una montagna di formaggio grattugiato da cui rotolano ravioli e maccheroni che poi si tuffano in un lago di burro, tre fiumi (Moscatello, Trebbiano e Mangiaguerra), un fiume di latte, etc.
* vi sono anche prodotti e sapori contadini che entrano nella cucina di élite, nella condizione di venire poi nobilitati.
Montanari nota che i primi ricettari sono pieni di ricetta con agli, cipolle e scalogni: questi prodotti ci sono perché nel basso Medioevo non è tanto la quantità ad essere importante, quanto la varietà di cibi. I signori decidono di incorporare alla propria tavola i cibi del contadino per non ridurre la propria tavolozza alimentare. Un esempio è il Liber de coquina, che include delle modalità per nobilitare le verdure (“Prepara i cavoli delicati a uso dei signori” come contorno delle carni; “Le piccole foglie odorose si possono dare al signore”), o le “fave infrante” sono una semplice polenta di fave, arricchita però con spezie e zucchero. Anche lo stesso Sabadino degli Arienti scrive che l’aglio “sempre è cibo rusticano”, ma “a volte artificiosamente civile se fa, ponendose nel corpo de li arrostiti pavari”. Un libro di cucina veneziano del Trecento consiglia la “agliata” (salsa a base di aglio pestato nel mortaio) “a ogni carne”; un ricettario toscano del Trecento: “Togli raponcelli, bene bulliti in acqua, e poni a soffriggere con oglio, cipolla e sale; e quando sono cotti et apparecchiati, mettivi spezie in scutelle”. O ancora: “in ciascuna salsa, savore o brodo, si possono ponere cose preziose, cioè oro, petre preziose, spezie elette, ovvero cardamone, erbe odorifere o comuni, cipolle, porri a tuo volere”.

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Lo scambio colombiano

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Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento si guarda con curiosità al nuovo paese al di là del mare, che condensa una certa “utopia cuccagnesca”: si crede che in America si possano trovare non tanto prodotti esotici, ma quelli già noti, un inventario della migliore gastronomia europea di Quattro e Cinquecento, come formaggio, erbe, latte, ricotta e pane bianco.
C’è una certa difficoltà ad accettare e a comprendere il diverso, ciò che è estraneo rispetto agli equilibri strutturali del modello di consumo europeo: bisogna quindi filtrarlo attraverso il nostro sistema di valori. A volte è talmente difficile classificare teoricamente i nuovi prodotti (ad esempio piante diverse da quelle conosciute) che si tentano traduzioni acconciate: ad esempio il mais viene descritto – forse da un compagno di Cortés in Relazione d’alcune cose della Nuova Spagna – come un grano «a guisa di cece».
C’è quindi una certa disattenzione verso la nuova cultura, o almeno fino ai momenti in cui ci sarà invece necessità dell’integrazione dei nuovi prodotti (‘500 e ‘700).

Dall’America all’Europa:

  • Mais, patata, manioca, batata o patata dolce, fagiolo, arachide, peperoncino piccante e altre varietà di peperoni, pomodori, alcune varietà di zucca, girasole;
  • Frutti tropicali, tra cui ananas, avocado e papaya;
  • Cacao e piante aromatiche come la vaniglia;
  • Tacchino

Dall’Europa all’America:

  • Cereali come grano, orzo, segale, avena;
  • Legumi come lenticchie, ceci, fave;
  • Ortaggi come lattughe, cardi, bietole, verze, cavolfiori, carciofi, spinaci, rape, barbabietole, carote;
  • Frutti come pesche, ciliegie, melograni, meloni, manghi;
  • Vite, ulivo, riso, caffè, canna da zucchero;
  • Animali come cavalli, asini, muli, vacche, maiali, capre, pecore e volatili da cortile

I prodotti di andata e ritorno sono zucchero e caffè, considerati attualmente tipici prodotti americani; essi furono introdotti in America dagli Europei. Acclimatatisi rapidamente nelle regioni calde dell’America, altrettanto rapidamente arrivarono a competere sul mercato europeo con le produzioni delle regioni di cui erano originari.

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Le fonti e i principali produttori di fonti dello scambio colombiano

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Non abbiamo molte fonti indigene, quindi possiamo solamente fidarci di ciò che dicevano/scrivevano gli europei.
L’importanza storica delle fonti del XVI secolo risiede non soltanto nel quadro che stilano della cultura nativa, ma anche nel fatto di costituire un riflesso della cultura del Nuovo Mondo e della sua percezione da parte del resto del mondo, quando ne viene a contatto.
Le uniche zone in cui si trovano documenti nativi e non spagnoli sono il Messico e il Guatemala del XVI secolo. La maggior parte dei codici preispanici è stata infatti distrutta nelle varie campagne volte a sradicare l’idolatria pagana.

I principali produttori di fonti durante la fase della conquista sono:

* Conquistadores
* Personaggi in cerca di fortuna o in fuga dai loro Paesi
* Ordini religiosi missionari
* Personaggi facenti parte dell’amministrazione, che stilano resoconti sulle condizioni generali degli indiani o raccolgono informazioni specifiche sulla cultura nativa per un uso pratico immediato;
* In seguito, studiosi di storia naturale, botanica e biologia delle specie animali e vegetali

Con che obiettivi gli europei si recano nelle Americhe?

  • ricerca di ricchezza e potere
  • conversione delle popolazioni indigene
  • ordini religiosi missionari
  • come affermò il conquistador Bernal Diaz del Castillo, “siamo venuti per servire Dio e la sua e sua Maestà, per dare luce a coloro che sono nelle tenebre, e anche per acquisire quella ricchezza che la maggior parte degli uomini brama”
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I conquistadores: tra sorpresa e senso di superiorità

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Gli Spagnoli e in generale gli Europei che giungevano nelle Indie osservavano sorpresi la nuova realtà. La convinzione di appartenere a una civiltà superiore che li autorizzava a dominare il mondo provocava disprezzo nei confronti dei popoli indigeni e della loro alimentazione, considerata come barbara e primitiva.
È più rassicurante trovare prodotti che si conoscono in madrepatria, piuttosto che mangiare quelli dei nativi. Spesso gli europei portavano il proprio cibo “da casa” (significava piantarlo e allevarlo in loco). Lo scambio colombiano non è uno scambio che avviene per beneficenza, ma perché si ritiene di poter avere così del cibo più sicuro.
I nuovi prodotti si diffusero in Europa grazie alla curiosità, talvolta anche scientifica, che avevano provocato. La Francia, invece, ignora per secoli completamente i prodotti americani.

Arrivano a coesistere due atteggiamenti: attrazione per il nuovo, che presuppone di ampliare e diversificare le tradizionali risorse alimentari e che porta a studiare i prodotti e a integrarli nel sistema culinario; e rifiuto verso ciò che è sconosciuto e dunque potenzialmente pericoloso, appartenente a un sistema alimentare differente e considerato primitivo e inferiore.

Fonte: Francisco López de Gómara sul ritorno di Colombo (Historia General de las Indias, 1552)

Fonte: Pietro Martire d’Anghiera sull’ananas (De orbe novo, inizio XVI sec)

Fonte: José de Acosta, gesuita e scrittore spagnolo sull’ananas (Historia moral y natural de las Indias Ocidentales, 1589)

Fonte: Castore Durante, botanico italiano sul pomodoro (Herbario nuovo, 1585)

Fonte: Bernal Dìaz del Castillo sulla salsa di pomodoro azteca (metà XVI sec)

Fonte: Colombo sul peperoncino, un prodotto popolare (annotazioni dal suo diario; Hispaniola-Haiti, 15 gennaio 1493: primo viaggio)

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Il primo momento di necessità dei nuovi prodotti: la crisi del Cinquecento

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  • grande aumento demografico un po’ ovunque in Europa (ad esempio, la Castiglia in sessant’anni da esportatrice si fece importatrice di cereali attraverso mercanti inglesi e olandesi), ma risorse insufficienti;
  • le strutture di produzione risultano indebolite e l’insufficienza produttiva si protrae per più tempo rispetto al Quattrocento, complice l’insufficiente resa agricola (non più di 5x1 semente) e l’insufficiente concimazione dei campi nonostante le tecniche agricole e le intuizioni messe a punto da certi agronomi del Cinquecento – come la necessità di inserire foraggere nel ciclo di rotazione delle colture, integrando coltura e allevamento (foraggio = animali allevati = maggiore concimazione dei campi);
  • diverse carestie nei decenni centrali del secolo e negli ultimi decenni (anni Cinquanta e anni Novanta)

Si cerca di risolvere la situazione attraverso metodi tradizionali:

  1. allargamento dello spazio coltivato con bonifiche e dissodamenti: polder nei Paesi Bassi, iniziative capitalistiche in campo agrario con creazione di monocolture (risaie in Lombardia), restringendo i terreni a pascolo pur mantenendo non coltivati i pochi prati a pascolo che rimangono (ci sono limitazioni in questo senso varate dai governi)
  2. scrivendo trattati di agronomia che prestano attenzione al lavoro dei campi e saggi dedicati alla fame, insegnando ai poveri come sfruttare ogni risorsa, anche la più inusitata. Un esempio di questo è il Regime de sante pour les pouvres, facile a tenir e di Jacques Dubois.

O adottando soluzioni nuove, ad esempio impiegando nuovi prodotti, alcuni già conosciuti parzialmente, altri provenienti dall’altra parte dell’oceano (che hanno un’avanzata piuttosto lenta; nel Seicento tornano nell’ombra per poi riemergere nel Settecento):

  • riso: prima era impiegato con grande parsimonia. Non sappiamo se giunse in Europa attraverso gli Arabi di Sicilia o attraverso la Spagna, da cui poi raggiunge i Paesi Bassi;
  • grano saraceno: già coltivato, ma ora è ampiamente diffuso. Dai Paesi Bassi raggiunge la Germania, la Francia e poi l’Italia, dove vengono prodotte polente con grano saraceno che assumono un colorito grigiastro;
  • mais: la sua è una vicenda turbolenta. Portato da Colombo nel 1493, viene messo a coltura precocemente nella Penisola Iberica (Canarie e Andalusia). Fernández de Oviedo (aristocratico spagnolo autore della prima storia naturale delle Indie) attesta l’esistenza di una coltivazione ad Avila (Spagna) nel 1530. Poi raggiunge la Francia del sud-ovest e l’Italia del Nord (in particolare le Venezie). Da qui raggiunge la Pannonia e la Penisola Balcanica.
    Il mais viene impiegato come foraggio sui terreni a maggese, determinando un aumento dei capi di bestiame e un’integrazione di nutrienti nei terreni, e furtivamente negli orti, zone franche dei poderi e realtà minori messe a coltura per beneficio domestico, visto che non forniscono nulla al proprietario terriero e sono esenti da canoni. Il contadino può piantarvi quello che vuole. Il suo nome viene nascosto dietro quelli di altri cereali: in Francia è chiamato “miglio”, in Italia “sorgo”. Nonostante la sua grande resa la sua avanzata è momentaneamente contenuta: è un grano da bestie, i ceti dominanti sono piuttosto indifferenti e dopo le carestie cinquecentesche si verifica una ripresa minima della produttività, nonché un arresto della crescita demografica a fine secolo;

Fonte: Il mais dai diari e dalle relazioni di Colombo

  • patata: non esisteva nelle Antille, fu scoperta dai colonizzatori solo con l’estendersi della conquista al confine con le Ande, dalla Colombia fino al nord e centro del Cile, dove costituiva il sostentamento di popoli poveri. Fu conosciuta dagli spagnoli attraverso il Perù, riceve maggiore attenzione in Italia, nota come “tartuffolo”, “tartufo bianco”. A fine Cinquecento è attestata in Inghilterra ma dobbiamo attendere il Settecento.

Fonte: Pedro Cieza de Léon, conquistador sulla patata (Cronica del Perù, 1555)

Fonte: Gonzalo Fernàndez de Oviedo y Valdés, aristocratico spagnolo autore della prima storia naturale delle Indie (1526)

  • tacchino: Il tacchino fu accolto rapidamente tra gli uccelli da cortile. Divenne praticamente dall’inizio un cibo considerato degno delle migliori tavole. La corte e le classi nobiliari lo consumavano con frequenza, mentre per le classi inferiori rappresentava il cibo della festa, destinato dunque a particolari occasioni.
    Il tacchino sembra un pollo grande, esotico. Il termine non si sa da dove derivi, ma in francese il tacchino si chiama dindo (“d’India”: allude alla provenienza esotica).

Fonte: Il tacchino nei diari di Colombo

Fonte: Hernán Cortés, conquistador sul tacchino (Cartas y relaciónes, 1522)

Fonte: Gerolamo Benzoni, esploratore italiano sul tacchino (Historia del Mondo Nuovo, 1572)

  • cacao e cioccolata: L’importanza del cacao in America fu rilevata quando Hernán Cortés conquistò il Messico.

Fonte: Cortes sul cioccolato

Fonte: Bernal Dìaz del Castillo, conquistador (metà XVI sec)

Fonte: José de Acosta, gesuita e scrittore spagnolo sul cioccolato (1589)

È un dibattito all’interno dell’ordine gesuita per capire se la cioccolata si può consumare in periodo quaresimale. Alla fine, si decide di consumarne, ma non in maniera eccessiva.

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Il Cinquecento: fine dell’”Europa carnivora”: aumenta invece l’attenzione verso il pane

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Dalla metà del Cinquecento in poi diminuisce il consumo di carne per i ceti popolari, ma nelle zone di montagna a vocazione pastorale rimane un prodotto importante.

Il suo consumo diminuisce perché:
* trasformazione agraria e riduzione di prati e boschi;
* diminuzione di salari reali;
* addensamento edilizio e divieti di tener bestie in città;
* contrazione delle importazioni dall’Est dopo la conquista dell’Ungheria da parte dei Turchi ottomani.

Di conseguenza, aumenta l’attenzione per il pane, un alimento indispensabile cui tutti devono accedere, sebbene in razioni e qualità variabili a seconda del luogo, delle possibilità d’acquisto, dell’andamento del raccolto e del periodo dell’anno. I cereali, infatti, forniscono un importante apporto calorico utile a soddisfare circa il 70/75% percento del fabbisogno calorico giornaliero: la sua mancanza determina gravi carestie e penurie intense di cereali nel Seicento (1630, 1648, anni Sessanta, 1680/85, anni Novanta). Le farinate, invece, sono ancora più importanti del pane, perché permettono di sfuggire al monopolio signorile di mulini e forni.
Gli standard di consumo del pane sono pressocché invariati tra Tre e Seicento, con una tendenza ad una crescita complessiva in rapporto alla diminuzione dei consumi carnei, tantoché i limiti superiori di Tre e Quattrocento, col tempo, diventano la norma (se ne consumano ora circa 500/600 gr, con punte fino a 700/1000 gr, ad esempio in Sicilia e a Siena). Ciò, tuttavia, non vuol dire un miglioramento del regime alimentare; anzi, si tratta piuttosto di un deterioramento qualitativo della dieta e di una certa monotonia alimentare.
Ci sono, inoltre, pani e pani (gerarchia sociale del pane): il pane bianco per i ricchi, quello chiaro ma non bianco per i ceti intermedi (magari prodotto con spelta e misture con segale), quello scuro prodotto con orzo, avena e cereali per i contadini, coloro che sono abituati a una vivanda così indigesta e che vendono sul mercato i grani più pregiati.

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Le due Europe dell’età moderna: topos e contrapposizioni nazionali

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Topos e contrapposizioni nazionali rimangono ben presenti nonostante una certa omologazione della cultura alimentare europea favorita dalla normativa ecclesiastica. Nord e Sud diventano antitesi geografiche astratte, che tagliano orizzontalmente la compattezza presunta. Non dobbiamo però rischiare di esacerbare questo quadro: esiste comunque una grande varietà di situazioni locali.

  • Nord: voraci e carnivori. Il tedesco è definito in maniera canzonatoria un “ubriacone” che mangia carne condita con salse e contorni, mentre i francesi sono naturalmente golosi, carnivori anche loro. Anche gli inglesi si cibano di molta carne, pur avendo un regime ricco e articolato, meno sensibile al variare dei prezzi del grano e all’andamento dei raccolti.
  • Sud: sobri e frugali, legati ai prodotti della terra. Gli italiani non mangiano molta carne: Giacomo Castelvetro, modenese esule nel Seicento in Inghilterra per motivi religiosi, scrive che il suo paese ha dovuto trovare nutrimento in altri modi, per ragioni di povertà e di clima (è troppo caldo per mangiare la carne).

È la Riforma protestante il momento decisivo di lacerazione e approfondimento dei solchi alimentari. Essa, infatti, rigetta la normativa dietetica della Chiesa romana, perché le disposizioni alimentari sono da avocare alla sola scelta e coscienza dell’individuo (a Dio, dicono, non interessa ciò che mangiamo). Quindi via al consumo di:

  • carne (incoraggiato anche attraverso trattati confezionati ad hoc tra Cinque e Seicento);
  • birra (che grazie alla potenza olandese guadagna terreno verso sud);
  • grassi come il burro, sebbene la Chiesa già da tempo lo avesse spesso ammesso tra gli usi, perché non poteva chiudere gli occhi davanti all’evidenza delle realtà produttive e delle preferenze del gusto. Molti nobili, infatti, avevano chiesto dispense e il burro era già stato ammesso come cibo di magro nel 1365 al Concilio di Angers che ridà corpo a contrapposizioni mai veramente sopite, , mentre Roma risponde inasprendo le misure di controllo sui comportamenti privati, attraverso i trattati di dietetica quaresimale;
  • nuovi prodotti importati al Nord (ad esempio in Inghilterra) da esuli, ad esempio religiosi (= fenomeni di integrazione e scambio). In Inghilterra, nel 1699, viene dato alle stampe un opuscolo/trattato sulle insalate, l’Acetaria, a Discourse of Sallets di John Evelyn. Proprio in quell’Inghilterra dove Castelvetro nel 1614 compose il suo Brieve racconto dove aveva fatto una rassegna della gastronomia italiana, colta nel suo aspetto più originale e distintivo delle radici, erbe e frutti vegetali, di cui Castelvetro sentiva la mancanza nella carnivora Inghilterra.
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Mutazioni del gusto tra Cinque e Seicento: disseminazione europea e ritorno

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Sebbene la normativa ecclesiastica abbia cercato di amalgamare e omogeneizzare usi e consumi anche nel Nord Europa, a partire dal Quattro e dal Cinquecento si verificano alcune mutazioni del gusto, ancora più evidenti nel Seicento.
La mutazione del gusto è autonoma da cause esterne; magari, certo, può essere facilitata da alcuni fattori, ma non ci sono delle necessità che richiedono l’impiego di salse grasse. È una rivoluzione che si manifesta sul piano del desiderio; il gusto sfrutta le circostanze per venire allo scoperto, cavalca il favorevolissimo momento della Riforma protestante.
La rivoluzione viene lanciata dai ceti alti, che non erano preoccupati di impiegare un prodotto come il burro perché a buon mercato; anzi, cercavano la rarità. Piuttosto è il contrario: il nuovo orientamento del gusto contribuisce per la sua parte a certe trasformazioni dell’agricoltura europea:

  • la cucina analitica: Il carattere della cucina moderna e contemporanea è prevalentemente analitico, tende cioè a distinguere i sapori – dolce, salato, amaro, agro, piccante… – riservando a ciascuno di essi un proprio spazio autonomo, sia nelle singole vivande, sia nell’ordine del pasto. A tale pratica si collega l’idea che la cucina debba rispettare, nei limiti del possibile, il sapore naturale di ciascun alimento. «La zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa» (Nicolas de Bonnefons, metà XVII secolo).
    L’agro si separa dal dolce, sapore resto prima con il miele, poi con lo zucchero, che fino a quel momento era utilizzato come medicinale. Il suo utilizzo come ingrediente che mitiga l’acidità di cibi e salse viene attestato in Italia, in Spagna e Inghilterra, poi in Germania e in Francia. Nel Cinquecento si impiantano monocolture si canna da zucchero nel continente americano. Nel Seicento dilaga in Europa, considerato oramai indispensabile: viene utilizzato non solo dalle élite, ma distribuito anche ai poveri, come attesta una fonte di un monastero dell’appennino emiliano.
    Nel momento in cui dobbiamo valorizzare la patrimonializzazione di un prodotto, capire da dove viene, averlo di buona qualità e saperlo distinguere dagli altri.
    L’innovazione viene da Versailles, che, soprattutto tra XVI e XVII secolo, cerca con tutte le maniere di diversificarsi dalle altre capovolgendo il canone dello stupore: ora lo scopo è valorizzare l’ingrediente in maniera che abbia il suo sapore naturale per servirlo in tutte le sue varianti possibili, anche fuori stagione: è così che si può vedere quanto è grande e potente il re.
    Tra i Paesi europei, l’Italia è l’ultima ad adeguarsi: è un Paese in cui le corti sono tante, tanti gli scalchi e organizzatori di banchetti, che sono i più conservatori.
  • scomparsa delle spezie: nel Cinquecento non sono più un genere esclusivo. Ora disponibili in quantità abbondanti, stancheranno, perché non sono più un segno di distinzione e privilegio sociale. A partire dalla corte di Francia, vengono allora recuperati prodotti indigeni, contadini, della cultura povera, come erba cipollina, scalogno, funghi, capperi, acciughe, più adatti alla nuova cucina grassa. Tuttavia, le spezie e i contrasti tra sapori forti rimangono nei Paesi dell’Est e del Centro-Nord, come Germania, Olanda, Polonia, Russia, forse perché qui le spezie sono arrivate più tardi.
  • il caso dell’olio e del burro (l’affermazione delle salse grasse): se è vero che l’olio d’oliva – come scriveva John Evelyn – era impiegato a crudo come condimento delle insalate in Inghilterra (perché la normativa ecclesiastica costringeva a farlo, vietando l’uso di grassi animali almeno un giorno su tre nell’arco dell’anno), l’olio che vi arrivava era scuro, torbido (tantoché esisteva un detto «scuro come l’olio»), e la sua qualità scadente fu un terreno fertile per una seconda invasione di abitudini nordiche.
    Inizia infatti a essere impiegato il burro come fondo cottura e condimento a caldo. L’olio d’oliva sopravviverà solamente nelle insalate, anche se nel Seicento in Olanda anche queste sono condite con burro fuso.
    La sua fortuna è favorita dai cambiamenti della produttività europea, dal diffondersi dell’allevamento bovino e dalla presenza di animali da latte, privilegiati nelle pratiche zootecniche.
    Lo stesso ricettario di Maestro Martino segna l’ingresso del burro, in pieno Quattrocento, nella cucina italiana. Nel Cinquecento la cucina di corte fa ormai posto regolarmente al burro. L’Opera di Bartolomeo Scappi contempla tre livelli distinti di utilizzo dei grassi: lardo e strutto nei giorni «di grasso»; burro per i giorni «di magro» (il venerdì e il sabato); olio (d’oliva o di mandorle) per le vigilie e la quaresima.
    Le salse grasse al burro si affermano nell’alta cucina europea del XVII secolo. Fino al Trecento tutte le salse erano a base di liquidi acidi e non grassi (agresto, aceto, vino, succo di agrumi e frutti selvatici) e, nel caso si voglia ispessire e ‘legare’ la salsa, si impiegano mollica di pane, mandorle, noci, rosso d’uovo, fegato e sangue. Solamente la senape, come salsa magra, è sopravvissuta fino a noi.
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La rivoluzione culinaria francese in Italia: Bartolomeo Stefani

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È abbastanza evidente a partire dall’opera di Bartolomeo Stefani. Cuoco bolognese alla corte dei Gonzaga, a Mantova, scrive L’arte di ben cucinare et instruire i men periti in questa lodevole professione, dove anco s’insegna a far pasticci, sapori, salse, gelatine, torte et altro, di Bartolomeo Stefani cuoco bolognese, all’ill.mo et ecc.mo sig. marchese Ottavio Gonzaga, prencipe del Sacro Romano Imperio de’ marchesi di Mantova e signor di Vescovato, etc., in Mantova, apresso gli Osanna stampatori ducali, 1662.

Lui attinge un po’ dalla vecchia cucina e un po’ da quella nuova; da quella nuova, oltre a ricavare salsa d’acciughe e salse grasse, presta particolare attenzione al prodotto singolo: ad esempio, alla fine del suo ricettario inserisce un breve capitolo: “Vi ho dato ricette di cui avrete difficoltà a trovare ingredienti fuori stagione”.
Stefani impiega le spezie in quantità moderata, utilizza lo zucchero solo in certe salse, introduce l’acciuga nelle salse (abitudine che resterà, in Italia, fino all’Ottocento e oltre) e fa un uso più convinto dei grassi – soprattutto del burro. Sapori e profumi stentano tuttavia a cambiare: cannella e zucchero sulle minestre, come ai tempi di Scappi; noce moscata, garofano, pepe e, inossidabile, l’agrodolce: agrumi o aceto, zucchero e spezie sono ancora i componenti decisivi della maggior parte delle salse, di inequivocabile antico sapore. Accanto alle salse magre di tradizione medievale e rinascimentale compare una «salsa di butiro», stemperata con rossi d’uovo e succo di limone, che potrebbe far pensare alle nuove salse grasse – maionese ecc. – della «nuova cucina» francese: Stefani però non resiste ad aggiungervi noce moscata, polvere di garofani e zucchero.

Fonte: il fuori stagione per Stefani

Gaeta serve le stesse cose di Napoli e la Sicilia e rifornisce i mercati di Roma. I destrieri possono fermarsi quindi anche prima di Gaeta, ovvero a Roma.
Effettua poi un salto concettuale: dal prodotto fuori stagione che si trova a Bologna al prodotto tipico (mortadelle che si conservano perché non hanno stagione).

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Il Seicento - L’aggravarsi della situazione alimentare determina episodi di rabbia e violenza

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Come conseguenza dei problemi sperimentati nel Cinquecento, rabbia e violenza imperversano nelle forme più esasperate tra Sei e Ottocento, con episodi come saccheggi dei forni e sommosse, legati alle carenze produttive e allo sviluppo del capitalismo e di un processo di proletarizzazione. Contadini e miserabili si accalcano alle porte della città, dove si stanno verificando episodi di emarginazione sociale. In tutta risposta, le città allontanano in maniera forzata le bocche in sovrannumero (Troyes, 1573; Ginevra, 1693; Bologna, 1590): è la “ferocia borghese” che si inasprisce tra la fine del Cinquecento e il Seicento. Un esempio sono le poor laws emanate in Inghilterra, leggi contro i poveri simbolo della sistematica persecuzione razionale dell’emarginato.
Il re diventa garante dell’equilibrio alimentare dei sudditi; la sua figura è mitizzata: un “re fornaio” che deve nutrire il popolo, altrimenti può scoppiare una rivolta.

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Vecchie e nuove droghe nel Seicento

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C’era sempre stato un altissimo consumo di bevande alcoliche (per il vino, difficilmente scendeva al di sotto del litro per persona; per la birra i consumi sono ancora più alti).
Le motivazioni:

  • sete, visto il grande utilizzo del sale per la conservazione dei cibi;
  • apporto calorico;
  • virtù terapeutiche attribuite (ad esempio virtù tonificanti e curative del vino), tantoché l’alcol veniva impiegato nella preparazione di farmaci;
  • antisettico che permetteva di correggere l’acqua, che difficilmente era potabile;
  • aspetto ludico/uso euforico della bevanda: l’alcol favorisce l’aggregazione e l’evasione sociale. Anche se nell’Europa cristiana il fenomeno non è così vasto come nei casi di “ubriachezza sacra” nella religiosità pagana; anzi, esso viene combattuto dai predicatori cristiani sin dal IV sec., perché questi viaggi estatici verso orizzonti mistici appaiono connotati da tensioni demoniache e stregonesche e perché la cultura cristiana fa opera di propaganda a favore del vino, lo strumento sacrale della nuova fede.

Ma nel Seicento compaiono nuove ‘droghe’, che arrivano ad avere più fortuna nei paesi di impianto che in quelli di origine. Sono mode che attraversano prima il campo elitario, per poi approdare a quello popolare. Erano droghe con funzioni difficilmente ammissibili per l’Europa cristiana del tempo: euforia/evasione, gusto, socializzazione ed energia (quest’ultimo punto ebbe molta fortuna, considerando l’Europa tormentata dalla fame). Pertanto, sono i medici a cercare di giustificarne l’uso ai fini della loro ammissione: vengono rispolverate le ragioni della salute per sorreggere le ragioni del gusto.
* distillati: è una tecnica figlia dell’alchimia, già conosciuta, probabilmente un’invenzione egizia poi perfezionata dagli arabi. Gli alchimisti europei utilizzano il procedimento della refrigerazione delle serpentine: ne nasce l’acquavite (utilizzava a scopi chimico-farmaceutici, ad esempio come anestetico, ma anche nelle case e nelle taverne), poi il rum (distillato di melassa), distillati di frutta, di cereali (vodka, whisky, gin) e liquori dolci (rosolio, ratafia). Se hanno avuto successo è perché già era alto il consumo di alcol;
* caffè: dall’Etiopia raggiunge le regioni dell’Africa orientale. Viene importato nell’Arabia del sud-ovest (Due/Trecento) e qui viene messo a punto il procedimento per la preparazione della bevanda (anche se gli arabi lo fanno risalire a un pio personaggio dello Yemen del Trecento, che l’avrebbe utilizzata per prolungare le veglie mistiche). Poi attraversa l’Egitto, l’Impero turco, l’India e dagli anni Cinquanta del Cinquecento viene importato in Europa dai veneziani. Iniziano ad essere impiantate delle piantagioni nei possedimenti coloniali (ad esempio a Giava dagli olandesi, nelle Antille dai francesi, nelle colonie di Spagna e Portogallo nell’America del centro-sud). Arriva a Parigi nel 1643.
C’è spesso scetticismo e diffidenza nei confronti del caffè; anche una certa ostilità. Per Francesco Redi è meglio bere il veleno, e spesso i medici ne consigliano un uso esclusivamente medicinale. Presto, però, sin dagli anni Settanta del Seicento iniziano ad essere inaugurati locali per la vendita e la degustazione (come a Parigi, dove viene inaugurato il più antico caffè d’Europa, Il Procope da un italiano, Procopio Coltelli. La moda si diffonde anche negli altri Paesi, ed è la volta di Londra, nel 1687/88 con un caffè nella Tower Street.
Il caffè è però ben presto accolto come simbolo della cultura razionalistica, della lucidità, dell’acume, della veglia e della libertà del pensiero. È la bevanda dei borghesi, preoccupati di restare produttivi sempre più a lungo per seguire gli affari lavorativi.
Alla fine del Settecento diventa una droga di massa e arriva, spesso, a sostituire il vino, motivo per cui viene spesso considerato «autoritario», perché rischia di occupare la nicchia ecologica del vino pur essendo peggiore della «feccia del vino» (parole del dottor Colomb pronunciate al collegio medico di Marsiglia del 1679).
* il di origine cinese, conosciuto dagli europei in India. Il primo carico di tè arriva ad Amsterdam nel 1610, poi in Francia nel 1635. Oltremanica solo dopo la metà del secolo.
È una bevanda popolare di cui i medici consigliano spesso un uso smodato. Essa attecchisce soprattutto in Inghilterra, dove diventa di uso popolare negli anni Venti e Trenta del Settecento, iniziando a sostituire ogni sorta di alcolici (come la birra, sostituita dagli operati del Middlesex e del Surrey con il tè) e persino il caffè.
* cioccolata: in uso in Italia e Spagna, rimase un prodotto elitario consumato sia da laici che da religiosi. I gesuiti lo diffusero come bevanda di magro, ma rimane a lungo simbolo di mollezza e oziosità aristocratiche.

Fonte: l’adattamento europeo del cioccolato in Antonio de León Pinelo, gesuita (Questión moral. Si el chocolate quebranta el ayuno eclesiàstico, 1636)

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La crisi del Settecento

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  • rapidissima espansione demografica di dimensioni ingigantite (195 milioni di persone in Europa alla fine del XVIII secolo);
  • insufficienza produttiva e penuria cronica di cereali per le classi povere, anche se un’economia ora basata sugli scambi può farvi fronte con maggior efficacia;
  • carestie a intervalli regolari;
  • problematiche nutrizionali: non si muore di fame (altrimenti sarebbe incomprensibile l’exploit demografico), ma la condizione oramai normale di vita è fatta di sottonutrizione e malessere assimilati.

Si cerca lo sviluppo agricolo attraverso soluzioni tradizionali:

  1. espansione dei coltivi: vengono messi a coltura centinaia di migliaia di ettari incolti in Inghilterra, prosciugati acquitrini e paludi in Italia;
  2. si sperimentano nuove tecniche produttive per soddisfare gli interessi imprenditoriali dei proprietari terrieri, cosa che ha spesso implicazioni di natura sociale: ad esempio, a) recinzioni (enclosures) e abolizione degli ultimi diritti di uso apre la strada al capitalismo agrario, alla gestione imprenditoriale delle terre finalizzata alla crescita del mercato e all’economia industriale; b) inserimento delle leguminose da foraggio in rotazione con cereali per superare la storica divaricazione tra attività pastorali e agricole e accrescere i rendimenti del suolo, perché le leguminose fissano l’azoto nel terreno.

Inoltre, le nuove colture che erano state timidamente accolte tra Quattro e Cinquecento vengono riscoperte: sono ritenute robuste, sicure e redditizie:

  • riso: nel Settecento riscoperto come alternativa ai cereali tradizionali; da prodotto esotico, diventa un cibo povero;
  • grano saraceno: diventa un cibo povero;
  • mais e patate: mettono in ombra i tradizionali cereali inferiori per la loro resa straordinariamente alta (il mais arriva ad assicurare 80x1) e per la loro maggiore resistenza ad avversità climatiche. Il loro successo si spiega pensando alla grande rilevanza che cereali e prodotti ad alto contenuto di carboidrati avevano rivestito sino ad ora. Non rivoluzionarono il modo di mangiare degli europei, perché fu solo un’evoluzione interna del sistema europeo che modificò l’iniziale diffidenza nei loro confronti (è la situazione di urgenza ed emergenza che ne richiede l’utilizzo). Inoltre, hanno avuto successo a seguito di un processo di omologazione culturale che ne ha modificato le modalità d’uso: vengono adattati a preparazioni locali, come la polenta, fatta con la farina di mais, o il pane, anche se si capirà che fare il pane con sole patate è impossibile.

I nuovi prodotti sono al centro di un fervido dibattito scientifico e culturale: nasce una trattatistica sui cibi di carestia (Giovanni Targioni Tozzetti scrive nel 1762 un trattato su come trarre il pane dalle ghiande) e si promuovono ricerche e sperimentazioni da accademie scientifiche con premi per chi riesca a inventare nuovi cibi per sfamare la gente (ad esempio nel 1772 viene pubblicato un bando dell’Accademia di Besançon vinto da Augustine Parmentier con un trattato sulla coltivazione della patata).

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La contrastata ascesa del mais

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Aprì la strada a una nuova produzione e quindi a un nuovo tipo di rapporti economici, basato sull’accumulo di crediti per i proprietari e su un meccanismo che sfocia nel capitalismo agrario.

I. Allargamento della coltivazione del mais: nell’Italia nord-orientale era già una realtà economica significativa a fine Cinquecento, ma ora i proprietari vogliono farne una coltura in campo aperto richiedendolo come canone, al pari dei cereali tradizionali, perché si sono resi conto della sua altissima produttività, che può assicurare entrate costanti, sfamare a basso costo i contadini e garantire l’aumento dell’esazione di prodotti più pregiati come il frumento (quindi la forbice tra frumento e cereali inferiori, ora sostituiti dal mais, si allarga sempre di più). Di conseguenza, l’entusiasmo dei contadini si raffredda, ora che sono costretti a consumare il mais e ad avere una dieta sempre più povera;
II. Ci sono fenomeni di resistenza per contrastare il regime signorile;
III. Nei decenni centrali del Settecento, soprattutto in seguito a fenomeni di carestie, il mais si afferma e appare nei Balcani al fianco di miglio e orzo. Con il mais si producono gallette, farinate di mais e polenta. Viene elogiato per la sua resa, la sua bontà e le sue facoltà nutritive (ad esempio dall’agronomo Giovanni Battarra), ma…
IV. … un suo consumo eccessivo può provocare la pellagra, malattia tipica di un consumo esclusivo di mais, prodotto carente della vitamina B3 (niacina), indispensabile per l’organismo. La pellagra provoca piaghe purulente, conduce alla pazzia e spesso anche alla morte. La prima epidemia è attestata in Spagna nel 1730, poi in Francia e in Italia, soprattutto nelle zone rurali dell’Italia settentrionale, poi nei Balcani fino a Ottocento inoltrato.
Le epidemie sollevano vari dibattiti: chi sostiene la pellagra sorga in seguito al consumo di mais o farina avariata (quindi sciocchi sono quei contadini che hanno voluto farne ugualmente uso) e chi ritiene sia conseguenza della monotonia alimentare.

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La diffusione della patata

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La patata si diffonde come un cibo di carestia di cui, a poco a poco, vengono propagandate le virtù nutritive. Sviluppandosi sottoterra, è al riparo dalle devastazioni e dalle scorrerie belliche.
Si diffonde nelle campagne dell’Europa settentrionale e centrale, in maniera speculare al mais (area germanica, Prussia, Alsazia, Lorena – dove è di grande aiuto dopo le crisi alimentari legate alla guerra dei Sette Anni e dopo la carestia del 1770-72, Fiandre, Inghilterra, Irlanda, Svezia, Norvegia, Polonia, Russia, Balcani – dove la sua coltivazione viene imposta dagli asburgici). In alcune zone climaticamente intermedie le colture si sovrappongono, come nella Francia meridionale o nell’Italia del nord.
Viene impiantata come un cibo contadino da riempimento: si specifica che l’impianto della nuova coltura non danneggerà i mercanti di grano, perché è pensata come un cibo per contadini, sebbene vi siano da parte loro delle resistenze, perché i primi esemplari di patata sono di cattiva qualità e poco appetitosi (hanno la polpa acida e acquosa). Per incentivarne la messa a coltura, le autorità ricorrono alla collaborazione dei parroci, per insinuare nel popolo la convinzione dell’utilità di questa pratica e anche a una certa coercizione giuridica, ad esempio inserendo nei patti agrari una clausola che obbliga il nuovo conduttore di un fondo a riservare una parte del terreno alla coltivazione delle patate.
Anche la patata provoca uno scadimento qualitativo della dieta in senso sempre più monotono, ma non comporta gravi reazioni come la pellagra da monofagismo maidico. Ciononostante, la monotonia alimentare è sempre un pericolo, perché un approvvigionamento è tanto più sicuro quanto più il ventaglio delle risorse è diversificato: infatti, quando due raccolti di patate andarono a male nell’Irlanda del 1845/46, perché attaccati dalla peronospera, un terzo della popolazione fu colpito da fame e malattie infettive e l’isola si spopolò. Questa fu l’occasione buona per eliminare la piccola proprietà e commutarla in latifondo pastorale per rifornire il mercato inglese di carne e di lana.
A differenza del mais, però, la patata sarà usata agli inizi dell’Ottocento anche per preparazioni gastronomiche raffinate, occupando uno spazio culturale socialmente eterogeneo e diversificato.

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Mangiamaccheroni: la diffusione della pasta

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La pasta inizia ad attirare attenzioni tra Sette e Ottocento, soprattutto nell’Italia del centro-sud. Ha le stesse funzioni del mais e della patata: è un cibo che garantisce un buon apporto calorico, saziante e da riempimento.

I)
* L’uso della pasta fresca è antico, diffuso nell’area mediterranea e in Cina. Probabilmente, però, vista la sua deperibilità, è considerato un prodotto di lusso e una ghiottoneria.
* La pasta secca, invece, viene essiccata dopo la sua fabbricazione ai fini di renderla conservabile più a lungo. La tradizione vuole che l’essiccazione sia un’invenzione araba (e che gli arabi l’abbiano escogitata per rifornirsi durante gli spostamenti nel deserto) ma è una nozione che sembra assente nella cultura gastronomica araba. Le prime testimonianze di pasta secca risalgono alla Sicilia, dove nel Duecento è attestata un’industria di pasta secca (Itrija, da «tria», parola araba per designare pasta di forma allungata) a Trabia; poi in Liguria, dove i mercanti genovesi smerciano le paste siciliane nel Nord della Penisola; e anche in Toscana, dove si producono e commerciano i «vermicelli», ovvero la pasta lunga. Nel Quattrocento abbiamo testimonianze di pasta secca anche in Puglia. Al sud, inoltre, il terreno era più adatto alla crescita del grano duro (meno fine ma più nutriente) che è anche facilmente conservabile. Al Nord, come Emilia e Lombardia, invece, si rimane maggiormente legati alla tradizione della pasta fresca.

II)

L’importanza della pasta rimane a lungo circoscritta: nel Cinquecento i siciliani sono chiamati «mangiamaccheroni» e al Sud è ancora avvertita come uno sfizio di cui si può fare a meno: ad esempio, nel 1509 a Napoli si proibì la sua produzione nei periodi di rincaro dei prezzi per guerra e carestia. È ancora, inoltre, un prodotto costoso: nel Cinquecento in Sicilia fu soggetta a calmiere, e maccheroni e lasagne hanno ancora un prezzo superiore a quello del pane.
La pasta non ha uno statuto a sé ben definito: si confondono paste lessate e fritte, salate e dolci, semplici e ripiene. La sua destinazione e il suo uso sociale rimangono indefiniti, tantoché possiamo pensare che esistano due livelli di consumo socialmente e regionalmente contrapposti: a) popolare (per tutti coloro che necessitano di derrate a lunga conservazione); b) di lusso (il fatto che esista il sogno di grandi abbuffate di pasta sembra relegare questo prodotto a gruppi ristretti di consumatori).

III)

La seconda introduzione della pasta prende avvio da Napoli, dove avviene la svolta a partire dal Seicento, dietro la spinta della necessità. Tanti, infatti, erano i problemi:
* sovraffollamento demografico;
* crisi politica ed economica: le autorità non riuscivano a garantire un approvvigionamento adeguato;
* la rivoluzione tecnologica portata dall’uso della gramola e del torchio meccanico consente di produrre pasta a un prezzo molto conveniente.

Alla pasta viene assicurata così un’ampia diffusione, tantoché nel Settecento il termine «mangiamaccheroni» arriva a designare i napoletani. Qui, infatti, i cereali prendono il posto dei consumi carnei.
L’accoppiata pasta + formaggio, un condimento semplice, prende il posto del tradizionale binomio cavolo + carne.

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Q

Crescita demografica tra Sette e Ottocento

A

A cavallo tra Sette e Ottocento la popolazione continuò a crescere in maniera intensa e continua (da 195 milioni di persone a fine XVIII secolo a 288 a metà Ottocento). La crescita agricola riuscì a sostenere, in qualche modo, l’exploit demografico.
Ma è stato un miglioramento delle condizioni alimentari a determinare un’inversione di tali proporzioni della curva demografica?
* Sì se per “miglioramento” intendiamo che le carestie provocarono meno morti;
* No se con esso intendiamo un regime alimentare più ricco e variegato. Anzi, il regime alimentare delle classi popolari risultò atrofizzato e impoverito in tutti i paesi: a) il frumento e la carne erano esposti sui mercati urbani come derrate di lusso, perché il potere d’acquisto dei singoli individui si era andato riducendosi dal 1750 in poi; b) i livelli nutrizionali erano vicini al limite inferiore dello stretto fabbisogno, tantoché si verificò in questo periodo una diminuzione della statura media in diversi paesi, come nella monarchia asburgica, in Svezia e a Londra.
Migliori, invece, erano le condizioni dei ceti popolari delle zone marginali, meno coltivate e urbanizzate nei periodi pre-industriali (come nelle zone di montagna), perché meno soggette alle crisi acute dei circuiti commerciali. Le pratiche pastorali e la raccolta delle castagne rendono più abbondante e variegato il regime alimentare.

Allora dobbiamo piuttosto rovesciare i postulati: è la crescita demografica a determinare un impoverimento della dieta. Infatti, c’è una proporzionalità inversa tra carico demografico e condizioni alimentari: il ristagno e il regresso demografico determinano una maggiore ricchezza e varietà della dieta popolare, per via dell’allentarsi della domanda. Non possiamo dire che la popolazione settecentesca fu talmente penalizzata dallo scadimento qualitativo della dieta da incorrere in crisi di mortalità (anzi, ci fu un boom demografico), perché, invece, dimostrò una grande capacità di adattamento alla fame.

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Q

Il gusto contadino: lo sguardo della filantropia settecentesca

A

Non abbiamo testimonianze del gusto contadino, sono stati piuttosto i trattatisti che appartengono ad altri ceti a fornirci una descrizione ambigua e superficiale del modello alimentare contadino. Basandosi sui soli comportamenti visibili e senza tenere conto della differenza tra abitudini e scelte forzate e gusto e aspirazioni, essi individuavano nel cibo cattivo e indigesto un cibo da villani e in quello fresco un cibo da nobili.
Ma a partire dal Settecento i ceti dominanti, permeati da spirito filantropico e illuminato paternalismo, ammorbidirono il loro cinismo, furono meno attenti alla distinzione sociale imperniata su diversi modelli alimentari ma rimangono comunque presenti giudizi e intromissioni grottesche: se i contadini – scrivono – pur essendo liberi di scegliere, decidono di nutrirsi di alimenti grossolani è perché sono stupidi e vogliono mangiare male.

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Q

La carne fa male

A

Sembra nel Settecento una privazione che fa bene ai ceti popolari. Non è scritto, in fin dei conti, da nessuna parte che si debba mangiare carne. Il ruolo della carne nella dieta è al centro di accesi dibattiti di natura ideologica e filosofica prima che scientifica. Le scelte vegetariane – che nel Settecento sono propagandate dagli illuministi – coinvolgono assetti sociali e visioni del mondo.
I motivi:

  • il vegetarianismo veicola immagini della tradizione cristiana, valori di pace, non violenza, frugalità e leggerezza corporea;
  • l’invito a consumi moderati e razionali permette di acquisire la leggerezza necessaria a permettere l’elevazione dell’intelligenza e della ragione;
  • è una scelta sociale e politica, una risposta igienica e pulita al vecchio ordine dell’Ancien Regime, caratterizzato da opulenza, eccesso e feudalità.
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Q

L’Ottocento: ancora consumo di cereali… ma due novità

A

I cereali hanno avuto un ruolo preponderante fino ai decenni centrali dell’Ottocento: l’apporto calorico che fornivano non era mai inferiore alla metà del fabbisogno giornaliero complessivo, e se si sono registrate delle diminuzioni nel loro consumo, ciò è dovuto all’importanza assunta da altri prodotti ugualmente energetici, come mais, pasta, riso e patate (molto diffuse nel XVIII secolo in Inghilterra e in Olanda). Il pane scuro era ancora in netta maggioranza: nell’Europa centro-settentrionale veniva prodotto con segale, spelta, grano saraceno, avena e orzo; nell’Europa meridionale il frumento veniva mischiato con cereali inferiori (spelta, granoturco, orzo).
Ma ci sono due grandi novità:
1. il pane bianco conquista fasce più larghe di consumatori, grazie all’utilizzo di nuovi mulini con cilindri di ferro, impiegati per la prima volta in Ungheria, che assicurano una farina più bianca e asciutta, benché più povera dal punto di vista nutrizionale. Dall’1870 – 1880 vengono utilizzati dei cilindri in porcellana per espellere l’intero germe di grano, anziché schiacciarlo con tutto il chicco.
Il bianco è ancora un colore attrattivo, simbolo del lusso e del pregio: molti prodotti vengono resi più bianchi, come il riso e lo zucchero;
2. nell’Ottocento il ruolo dei cereali viene ridimensionato per dare spazio al consumo di carne.
La diffusione dei consumi carnei è confermata in controluce anche dalla circolazione di istanze vegetariane. A Manchester, nel 1847, sorge la prima società vegetariana inglese, i cui membri sono accomunati da una nuova attenzione umanitaria per il benessere animale e dall’adozione di nuovi modelli alimentari distintivi: in una società dove i consumi carnei sono più accessibili, infatti, è opportuno ricercare altrove il criterio di distinzione sociale. È, secondo Norbert Elias, il segnale dell’avvio di un processo di civilizzazione all’interno degli ambienti cittadini e borghesi.

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Q

La rivincita della carne nell’Ottocento

A

L’aumento ottocentesco dei consumi carnei si spiega con la logica della produzione industriale, come dimostra l’esempio inglese.
I. L’agricoltura cambia il suo statuto economico: da produttrice di cibo diventa fornitrice di materie prime all’industria alimentare.
II. Questa, basandosi su una produzione su larga scala, ha tutto l’interesse a raggiungere quanti più consumatori possibili. Non più, quindi, solo l’alta borghesia, ma anche la classe operaia/lavoratrice si vede offrire i prodotti dell’industria, come tè, cacao, zucchero e carne.
III. Inoltre, tra questi consumatori ci sono anche gli stessi operai delle industrie che, percependo un salario, possono - a seconda della loro situazione economica - permettersi di acquistare i prodotti dell’industria, tra cui la carne.

Dietro a questo allargamento sociale dei consumi c’è una congiuntura favorevole, costituita da:

  • progressi nella zootecnia, sapere affrontato ora con metodo scientifico: selezione e incroci tra razze, specializzazione del bestiame per la produzione di latte o carne;
  • innovazioni tecnologiche: 1) messi a punto sistemi di conservazione, come a) l’inscatolamento ermetico di carni, verdure e minestre grazie alle ricerche di Nicolas Appert e Louis Pasteur; b) refrigerazione e congelamento per trasporto di derrate da regioni lontane (come Argentina, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda); 2) miglior efficienza del sistema dei trasporti, con l’introduzione della macchina a vapore che rivoluziona la ferrovia: è infatti lungo le linee ferroviarie che si possono trasportare carcasse pesanti e ben conservate dal luogo di produzione ai mercati in poco tempo.

Con la nascita della produzione industriale e del commercio, sorgono anche le prime diffidenze nei confronti della qualità dei prodotti industriali: il pericolo della sofisticazione e dell’adulterazione del cibo deve essere ritenuto sempre dietro l’angolo se nel 1820 Frederick Accum denuncia, attraverso un trattato, le frodi alimentari inglesi e se la prima commissione d’inchiesta sul tema, nominata dal Parlamento inglese nel 1834, approva nel 1860 l’Adulteration of Food Act.

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Nonostante le differenze di sviluppo in Europa, ci sono alcuni punti fermi

A

Le modifiche della rivoluzione alimentare si affermano con lentezza e con tempi diversi, giacché non si può parlare di Europa a livello generico senza tener conto dei profondi dislivelli nello sviluppo interni al continente (l’Inghilterra e la Francia si industrializzano già nell’Ottocento, mentre in alcune realtà, come Spagna e Italia, il processo sarà portato a compimento solo nella metà del XX secolo).

Ci sono però alcuni punti fermi da tenere a mente:

  • La delocalizzazione del sistema alimentare elimina i vincoli fra cibo e territorio e libera la fame e il desiderio dall’incertezza delle stagioni. A ciò concorre la rivoluzione dei trasporti, i metodi di trasformazione e conservazione dei prodotti, l’adeguamento dei sistemi produttivi di aree lontane e non industrializzate ai bisogni alimentari euroasiatici, che aggrava le condizioni di altri paesi, le cui popolazioni produttrici dipendono, per la loro sussistenza, dalla vendita di prodotti destinati al commercio con l’Europa. Ad esempio, l’America latina in questo periodo dilaga la produzione di carne bovina in funzione del mercato dell’hamburger, mentre dall’altra parte cala il consumo interno di carne.
  • Maggiore uniformità al sistema alimentare europeo, a causa degli interessi dei grandi produttori, delle lusinghe della pubblicità, dell’ampliarsi dei rapporti e delle conoscenze, determinato da una nuova mobilità sociale (per lavoro o per turismo), della perdita della ritualità dei cibi, il cui consumo non è più legato a festività religiose e dall’allentarsi dei vincoli stagionali.
    Via libera, quindi, a sperimentazioni e accostamenti gastronomici inediti, come carne e pesce, che tutt’ora convivono nei menù della ristorazione dei nostri giorni.
  • Il sistema alimentare acquista sempre di più un carattere urbano: i modelli urbani diventano la norma che anche le popolazioni rurali si sentono spinte a seguire, anche se oggi spesso si verifica il contrario (vale a dire che la nostalgia della campagna sembra essere la risposta al disagio ingenerato proprio da questo sistema più uniforme. Ma è sempre all’interno della ricchezza urbana che si possono concepire immagini di una felice povertà rurale…)
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Q

La fine della stagionalità del cibo

A

I moderni sistemi di approvvigionamento non hanno completamente alterato il rapporto armonico tra uomo e natura: ci hanno solo disorientati culturalmente, perché:
* Ora il consumatore è lontano dai processi produttivi e non ha modo di vedere come essi si svolgono;
* Ora che il cibo abbonda, l’offerta è così varia che non siamo mai davvero certi della provenienza dei prodotti, mentre in passato l’appartenenza territoriale era un fattore scontato, come dimostrano le tantissime rassegne della migliore gastronomia italiana di età moderna, dove i prodotti tipici sono mappati territorio per territorio.

Tuttavia, è sempre esistito il desiderio di superare i legami col territorio: l’estrema simbiosi con i ritmi della natura era avvertita come una forma di schiavitù. Quindi si ricercavano cibi esotici, provenienti da altre zone del mondo, da altri territori, proprio per scavalcare e sconfiggere questo vincolo costrittivo che lega i consumatori al proprio territorio (Cassiodoro richiedeva per il re Teodorico i prodotti migliori di ogni regione). L’unica differenza è che oggi sono in molti a potersi permettere cibi esotici, perché si è allentata la presa della divaricazione sociale.

Ma c’erano dei lati positivi nel seguire la stagionalità dei prodotti:

  • È vero anche che seguire la stagionalità dei prodotti era consigliato anche dai medici – come Ippocrate – per ragioni di salute, ma solo chi poteva permettersi di diversificare il proprio regime alimentare poteva fare certe valutazioni: i ceti popolari – attanagliati dalla paura della fame e dall’incertezza del futuro (se c’è una carestia in estate, è impossibile adattare la mia dieta alla stagionalità dei prodotti, perché non posso mangiare i prodotti reperibili in estate). I ceti popolari, quindi, conservano (attraverso cotture plurime, ovvero la lessatura preliminare del cibo che consente una sua migliore conservazione e che oggi è alla base delle nostre pratiche di inscatolamento e surgelamento; salagione; messa sott’olio…): la conservazione è un modo per sconfiggere le stagioni, mantenendo costanti i propri standard di consumo. Avere la dispensa piena di alimenti conservati è un come avere un luogo dove tutto è sempre disponibile, una sorta di paradiso terrestre.
  • A volte l’irriverenza della nobiltà che richiedeva cose rarissime e fuori stagione con cui riempire la propria tavola era messa sotto accusa: Pietro Chiari, a metà Settecento, si scagliò ferocemente contro questa nobiltà stravagante e ostentatrice.
    Ma dall’altra parte Bartolomeo Stefani, cuoco alla corte dei Gonzaga nel Seicento, dichiarava che i cibi non sono mai fuori stagione e che è giusto sfruttare tutte le ricchezze che l’Italia ha da offrire, ovviamente per chi ha buon destriero e buona borsa.

Questi due atteggiamenti, quindi, convivono, ma è innegabile il desiderio dei nostri padri di allentare il legame soffocante con il territorio.

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Il piacere, la salute, la bellezza

A

I modelli salutari ed estetici sono variabili:

I. In passato, forte era il desiderio alimentare ed estetico di grasso, fonte di vitamina D.La sua penuria era causa di rachitismo e malformazioni. Tuttavia, non era spesso disponibile per i più: l’olio e il burro erano molto costosi, quindi i ceti popolari ricorrevano a grassi derivati dal maiale (lardo e strutto) o all’olio di noce o di vegetali, spesso di scadente qualità (colza, lino e canapa).
Il grasso, inoltre, era segno di ricchezza e benessere alimentare e invidiare il grasso significava soprattutto invidiare l’altrui consumo di carne, che era considerata un’ottima fonte di grassi, più che di proteine (come siamo abituati noi oggi a pensare), tantoché la bollitura era quella tecnica di cottura che permetteva di non disperdere nulla di quelle sostanze preziosissime, concentrandole invece nel liquido/brodo.
II. Il valore della magrezza si afferma tra Sette e Ottocento, in parallelo con il diffondersi della cultura razionalista e dell’ideologia della produttività borghese (simboleggiata dal caffè, bevanda adatta alla veglia che si sostituisce gradualmente alle bevande alcoliche): il corpo magro ha bisogno di leggerezza per soddisfare le esigenze del profitto.
Inoltre, la democratizzazione dei consumi e il nuovo privilegio alimentare richiedono la definizione di nuovi modelli di potere e prestigio da esplicitare attraverso la tavola. Se un piacere è troppo condiviso (come nell’Ottocento sono, ad esempio, la carne e il pane bianco), perde inevitabilmente di attrattiva. Ora che sono i ceti inferiori a imitare quel vecchio atteggiamento ostentatorio delle classi dominanti, ecco che i nuovi potenti aderiscono a nuovi codici per ridefinire socialmente il proprio status: i “veri” signori sono coloro che conoscono la moderazione e la parsimonia. Un esempio di tutto ciò è la pubblicazione de L’arte di convitare spiegata al popolo di Giovanni Rajberti, in cui si accusano i ceti popolari di mangiare senza misura.
III. La rivincita della carne dopo il 1950, simbolo, ancora, di grasso e di benessere alimentare.
IV. Oggi, invece, si è verificato uno slittamento semantico del termine «dieta» che da semplice «regime alimentare» è arrivato a indicare «ristrettezza», «limitazione». L’eccesso alimentare è un pericolo sempre dietro l’angolo, da scongiurare attraverso la riproposizione di atteggiamenti quasi penitenziali nei confronti del cibo, per non tradire le ragioni estetiche, igieniche e utilitaristiche (è la magrezza, ancora una volta, a essere simbolo dell’efficienza produttiva). Il piacere, invece, continua a spaventare, in una società dove la Chiesa ci ha insegnato a collegare il piacere al peccato: quando non vogliamo proprio rinunciarvi, ricorriamo ancora una volta alla scienza e alle ragioni della salute per giustificare le nostre scelte gastronomiche.

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La definizione di Laurioux di “ricettario”

A

Con il termine “libro di cucina”, Bruno Laurioux per il Medioevo intende “ogni gruppo indipendente di ricette culinarie”, cioè aventi per oggetto la preparazione di alimenti destinati al consumo umano. Esclude pertanto “le opere non culinarie che contengono ricette di cucina”. Ma ciò non vuol dire che non possiamo servirci, a livello di fonte per la storia della cucina, di testi che non rientrano esplicitamente nella categoria di “ricettari”, come manuali per scalchi e trincianti, libri misti e trattati medici.

  • I manuali per scalchi e trincianti sono attestati a partire dal XVI secolo e possono contenere tecniche di taglio della carne, arte di disporre la carne tagliata e di servirla con salse appropriate, modi di conservare la carne e di correggerne l’eccesso di sale o il gusto affumicato; tecniche di conservazione dei frutti e di preparazione di bevande. Gli scalchi devono conoscere le ricette per poter andare al mercato a fare compere.
  • I libri misti non nascono né per essere testi medici né per essere testi di cucina. L’esempio italiano più conosciuto è il De honesta voluptate et valetudine di Bartolomeo Sacchi detto il Platina.
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Q

I primi ricettari manoscritti: libri di cuochi e per cuochi?

A

I primi ricettari manoscritti risalgono alla fine del XIII sec. – inizi XIV. Prima non c’è nulla: vuol dire che è passato circa un millennio dalla scrittura di Apicio (IV sec. d.C, che rispecchia la cucina di età imperiale romana; il testo di Apicio fu copiato per tanti secoli fino al VIII-IX sec, come un’opera di letteratura). Forse i primi ricettari compaiono anche prima del XIII secolo, ma è strano che non ce ne sia pervenuto neppure uno.
In questo lasso di tempo, ovviamente, la cucina è andata avanti, anzi, la cucina medievale prende le distanze da quella tardo-antica abbandonando il garum o aggiungendo nuove spezie. Essa veniva tramandata oralmente, quindi le evoluzioni che ci sono state non sono state annotate da una fonte.

L’oggetto della ricetta è, essenzialmente, ciò che riguarda l’arte e la funzione del cuoco. La cucina è l’insieme delle operazioni necessarie per trasformare gli alimenti in vivande commestibili e, nel Medioevo, la cucina passa sempre attraverso la cottura. Conserve, confetture, bevande entrano solo raramente nei ricettari.
I primi ricettari sono spesso privi di titolo e autore. L’ordine degli argomenti non è sistematico; l’unico elemento che si può riscontrare di frequente è la suddivisione grasso/magro. Non vi compaiono dati relativi a tempi di cottura, proporzioni, e spesso neppure gli ingredienti. Non serve neppure la lista degli ingredienti, perché la spesa la fa il grande scalco, che tiene la dispensa aggiornata sempre con tutto, perché se mai dovesse capitare a tavola il grande signore all’ultimo minuto bisogna preparare qualcosa. Tuttavia, all’apparente mancanza di precisione fa da contraltare un lessico professionale specializzato già presente all’inizio del XIV sec. I primi libri di ricette sono quindi scritti o trascritti da un cuoco che dà testimonianza delle sue tecniche a un cuoco dello stesso livello; quest’ultimo saprà già come fare senza bisogno di ulteriori dettagli e ci metterà del suo. Spesso è anche il grande personaggio presso il quale il cuoco lavora a chiedere al cuoco di mettere per iscritto il proprio ricettario: non era più sufficiente offrire banchetti sontuosi, occorreva anche farlo sapere.
(La cucina degli avanzi non è stata ancora codificata; a volte lo scalco si interfaccia col cuoco, per fare in modo che nulla vada sprecato. Non c’è un riciclo espresso, ma si tenta comunque di risolvere il problema degli avanzi e delle eccedenze).

Quando l’autore inizia a comparire, si tratta quasi sempre di un cuoco al servizio di un re o di un’alta personalità laica o ecclesiastica (= cucina di corte; altrimenti non si metterebbero per iscritto: il cuoco detta, non scrive; è il copista all’interno della corte a farlo).
Le ricette dei cuochi “di catering” (a noleggio) sono invece più dettagliate perché sono meno professionisti.

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Q

Perché i ricettari ricompaiono nel XIV secolo?

A
  • È nel XIV secolo che si fa strada l’idea della scrittura per le ricette culinarie, all’interno di un clima intellettuale più favorevole alle cosiddette “arti meccaniche”.
    Nel periodo tra Apicio e il XIV secolo, che comprende le prime invasioni barbariche, impero carolingio, le seconde invasioni (eccetera), la scrittura è relativamente meno frequente e si concentra solo su quegli argomenti che meritano di essere messi per iscritto; il cuoco in quel periodo è poco più di un servo che sta in cucina. È nel XIV secolo che i cuochi e il personale addetto alla cucina passano alla condizione onorevole di “artigiani”.
  • Inoltre, i** medici sono interessati alle preparazioni di cucina perché le utilizzavano come medicine** (sono ricette sia quelle dei medici che quelle dei cuochi) Nel momento in cui il medico, che è portatore di un’arte scientifica e universitaria già riconosciuta come tale, si interessa a questo, si sarà pensato di mettere per iscritto quelle culinarie perché c’entrano con questa materia.
  • Altra possibilità: c’era chi amava semplicemente leggerle.
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La trasformazione dei libri di ricette: la standardizzazione

A

A partire dalla fine del XIV secolo, il libro di cucina va standardizzandosi: di piccolo formato, scritto su carta, comprende spesso anche testi medici e ricette per la salute.Il potenziale pubblico dei ricettari si allarga (la carta è un supporto poco costoso, che permette quindi una maggiore alfabetizzazione). Ma, soprattutto, i ricettari vengono firmati: significa che qualcuno ci sta mettendo la faccia e vuole insegnare la cucina.
Con l’allargamento del pubblico, anche il testo deve adeguarsi: la ricetta comincia a diventare più precisa, a fornire prodotti alternativi; spesso si occupa della qualità degli ingredienti e di come sia possibile rimediare a eventuali errori di cottura o di condimento.
Le operazioni che la ricetta prevede però sono spiegate molto bene, in sequenza (anche generi di cottura per lo stesso piatto). Il linguaggio che viene utilizzato è estremamente semplice per essere memorizzato più facilmente: se non tutti sanno leggere, è meglio mandare tutto a memoria.
Con ogni probabilità, il cuoco è costretto a servirsi di un copista, al quale detta le ricette. Il copista è responsabile della forma che il ricettario viene ad assumere.

Ovviamente si tratta di tendenze, non regole assolute.

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Trasmissione orale e trasmissione scritta: il bricolage testuale

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La storia di un ricettario non è fatta solo di tradizione testuale alterata da copisti (ciascun copista fa degli errori). I manoscritti di cucina hanno un problema in più. È facile che molti manoscritti culinari siano stati dispersi (la cucina è una posizione pericolosa per tenerli, tantoché a volte erano appesi come rotoli di scottex per evitare che occupassero il piano da lavoro).
La cucina si tramanda oralmente anche quando i ricettari vengono messi per iscritto: questo ha una grossa implicazione sui libri di ricette che vengono per esempio copiati in un luogo diverso da dove sono stati generati (varianti locali): supponiamo un determinato manoscritto realizzato in area toscana, probabilmente a Firenze; uno decide di realizzarne una variante veneziana che avrà differenze di linguaggio; inoltre, i fiorentini si approvvigioneranno da pesci del Tirreno, i veneziani dall’Adriatico; il pesce che a Firenze si chiama in un certo modo, a Venezia si chiama in un altro); alcuni prodotti non si trovano ovunque; ci sono ricette che il copista veneziano conosce e quello toscano no, allora perché non aggiungerle?
Un esempio di questo processo è quello rappresentato dal libro destinato ai “dodici ghiotti”: se diversi ricettari, pur non riportando costantemente le solite ricette, riportano sempre l’indicazione di dodici invitati allora, probabilmente, potrebbero appartenere a quella tradizione.
Sono costanti, in senso generale, gli ingredienti, le proporzioni, l’indicazione sistematica del colore e della consistenza. I filologi, infatti, si servono di alcuni dati che restano costanti per individuare delle famiglie di ricettari che risalgono a una tradizione comune, anche se apparentemente sembrano molto diversi tra loro.

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I possessori dei ricettari

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Possono essere svariati. I cuochi non si servono dei libri di cucina, ma tramandano oralmente il proprio sapere. Scalchi e trincianti, al contrario, utilizzano i ricettari per apprendere le tecniche utilizzate dai cuochi. I medici utilizzano i libri di cucina per analizzare il valore dietetico delle preparazioni culinarie. I sovrani non se ne servono personalmente, ma li conservano per «ragioni politiche», in quanto opere propagandistiche.
Ecco quindi che capiamo come spesso il ricettario non è conservato per il suo utilizzo nelle preparazioni culinarie: ricorrente assenza di titolo, indice, numerazione delle ricette… È un paradosso che rende spesso i ricettari opere destinate alla semplice lettura.

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Q

Caratteristiche della cucina medievale

A
  • sintesi  La cucina rinascimentale, come quella medievale e, retrodatando ancora, quella romana antica avevano elaborato un modello di cucina basato principalmente sull’idea dell’artificio e della mescolanza dei sapori. Sia la preparazione delle singole vivande, sia la loro dislocazione all’interno del pasto rispondevano a una logica sintetica più che analitica: tenere insieme, più che separare. La cucina era percepita come un’arte combinatoria volta a modificare, a trasformare il gusto «naturale» dei cibi in qualcosa di diverso, di «artificiale». A ciò miravano la mescolanza dei sapori e, per estensione, l’uso sistematico di coloranti (che in qualche modo assimilava l’arte del cuoco a quella del pittore) e la ricerca di forme e consistenze particolari, attraverso un sapiente impiego dei modi di cottura e abili tecniche manipolatorie.
  • uso delle spezie  Le spezie sono confettate e servite a fine pasto, come digestivo di lusso, e vengono incorporate nella cucina testimoniata dai libri di ricette medievali.
    Qualcuno ha chiamato in causa influssi della cucina araba, speziata anch’essa, ma risulta più verosimile l’ipotesi di una continuità con quella della tarda antichità. Il trionfo della quantità e soprattutto della varietà è però completamente medievale. Le spezie entrano nelle salse, insaporiscono i brodetti e le torte, impreziosiscono le preparazioni a base di verdure e completano i piatti di carne e quelli di pesce.
    Il pepe, già ampiamente in uso nella cucina tardo - romana, si mantiene in voga nell’arco dell’intero Medioevo, con un leggero declino nei secoli centrali e un rilancio verso la sua fine; man mano, però, vede crescere intorno a sé il numero delle spezie, tutte diverse tra loro non solo per tipologia, ma anche per provenienza.
    I nomi delle spezie e le loro singole tipologie si evincono dai libri di ricette e anche dalle liste di prodotti oggetto di traffici mercantili. Esemplare in questo senso è il manuale di mercatura di Francesco Balducci Pegolotti, redatto a Firenze nella prima metà del XIV secolo, che ne fornisce una lista corposa. Pepe bianco, nero, lungo, poi zenzero, cannella, cinnamomo, garofano (chiodi, fusti e foglie), noce moscata, macis, cardamomo, galanga, zafferano, zucchero e altre minori
    Nelle ricette le spezie compaiono separatamente o in miscele realizzate secondo precise proporzioni: per esempio, in un libro di cucina veneziano del Trecento si trovano: a) una miscela “universale” (un’oncia di pepe, una di cinnamomo, una di zenzero, mezzo quarto di chiodi di garofano, un quarto di zafferano), b) una “dolce” (un quarto d’oncia di garofano, un’oncia di zenzero, una di cinnamomo con aggiunta di folio, forse identificabile con l’alloro), c) una “forte” (mezzo quarto di garofano, due once di pepe, due noci moscate con aggiunta di pepe lungo).
  • il piacere dei colori  L’occhio gode dei colori, che spesso servono a definire i piatti e diventano un elemento della scelta gastronomica. L’esigenza del bianco suggerisce una base di riso e mandorle, un complemento di carne di pollo, un condimento di zenzero e zucchero, quella del giallo tuorli d’uovo e zafferano. Importante anche qui, come nelle spezie, la varietà (l’idea di realizzare brodetto “bianco”, “giallo”, “verde”): i due colori preferiti sono il bianco e il giallo, con il giallo forse inteso come colore base (tantoché quello che quello che chiamano solo “brodetto” è giallo, mentre esiste la specificazione di “brodetto bianco”).
    I colori possono essere ottenuti in vari modi: verde: foglie (bietole, spinaci…), erbe (prezzemolo, basilico…); color pelo di cammello: cannella e uva passa; paonazzo: succo d’uva nera; celeste: polpa delle more; nero o «saraceno»: uva passa scura, prugne, fegatini di pollo, pane abbrustolito; rosso: succo del legno di sandalo, radice di alcanna…
  • agrodolce: L’agrodolce rappresenta – fin dall’Età romana – una costante di lungo periodo della storia del gusto, giustificata anche sul piano dietetico dalla logica del «temperamento per opposti» e della commistione dei sapori.
    Esistono differenze «nazionali»: in Italia, progressiva affermazione del dolce sull’agro, in Francia progressiva affermazione dell’agro sul dolce. Inoltre, dal Medioevo in poi la gamma dei prodotti utilizzati per comporre l’agrodolce si articola in modo più complesso rispetto alla cucina romana, centrata sulla coppia miele -aceto.
    Come ottenerlo: dolce: zucchero di canna (Sicilia, Andalusia, Oriente), miele (poco), vini dolci, mosti naturali o cotti, frutta secca, uva, datteri, prugne… * Agro: aceto, agresto (ovvero uva acerba presa prima del tempo), succhi di frutta acerba o di foglia aspra (acetosa), succhi di agrumi (limone, limetta, melangola, arancia, melagrana aspra).

L’idea di fare salse grasse viene in Età moderna. La base delle preparazioni, per tutto il Medioevo, è invece agrodolce. Come si fa però a fare una salsa consistente con questi ingredienti? Utilizzando ad esempio il pane (bianco per salse chiare).

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La prima famiglia italiana di codici: il Liber de coquina

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La prima famiglia di codici attestata annovera codici in lingua volgare accanto a codici in latino. È quella del Liber de coquina (redatto alla corte angioina di Napoli, all’inizio XIV secolo, ma una studiosa, Anna Martellotti, ha sostenuto che ci sono delle prove che l’originale di questa famiglia è andato disperso, ed esso risaliva alla Sicilia di Federico II).
Si tratta di un ricettario concepito all’interno di una corte: non ci sono tanti dettagli, non è fornita l’indicazione delle dosi, non ci sono proporzioni tra gli ingredienti, non conosciamo i tempi di cottura…
Il Liber originale (napoletano) è anonimo e in un latino semplicissimo, di cui ignora la sintassi. Gli altri sono in lingua volgare (come il Liber de cocina, toscano, della stessa famiglia, compilato verso la fine del XIV secolo).

Fonte: Incipit del Liber de coquina

Solo in Italia poteva succedere (per Montanari); di solito si inizia dalle carni. Ma l’autore ci dice che inizia per semplicità dalle verdure. È l’unica traccia di didattica che si trova in questi ricettari (il discorso didattico sarebbe infatti nato più avanti).

Fonte: ricette cortissime del Liber de coquina: cavoli delicati per uso dei signori

Icavoli vengono accostati alle carni per essere nobilitati. L’utilizzo di ingredienti umili si deve alla volontà di proporre varianti sul tema.
Noi oggi chiameremmo questo piatto “contorno” (anche se oggi, con l’attuale, grande valorizzazione delle verdure, potrebbe essere considerato anche un piatto principale)
Alla fine del Settecento, un autore (Vincenzo Corrado, Vitto Pitagorico) scrive un libro incentrato solo sulle verdure per i nobili che devono essere leggeri. Usa anche le carni, ma ha cambiato la struttura del pasto: la verdura costituisce il piatto principale (che però non esclude il resto).

Fonte: nobilitazione in un giorno di digiuno (dal Liber de coquina)

La cipolla è umile, ma le spezie ne permettono la nobilitazione.
Le erbe aromatiche, a differenza delle spezie, non fanno digerire (sono più fredde; le verdure a foglie sono considerate fredde e umide): sono degli insaporitori profumati. Quando le spezie passeranno di moda, le erbe aromatiche resteranno. Lo scalogno è un altro insaporitore che poi diventerà di moda.

Fonte: variazione all’uso di Campania (dal Liber de coquina)

Compaiono già ricette già con toponimi, ma non è vero. Altro esempio di nobilitazione dato all’accostamento di finocchio + cannella + zafferano + carne

Fonte: Brodo alla provenzale (dal Liber de coquina)

Questi brodetti si differenziavano attraverso i toponimi, anche se la separazione tutto sommato è la stessa.
Il brodo (o brodetto) non è necessariamente liquido: probabilmente l’idea nostra di brodo liquido nasce dal consommé. Si faceva solido versandolo sul pane. Si capisce se un brodo è liquido o solido dai piatti (si utilizzano le “scodelle” per i liquidi; le “minestre” erano piatti fondi, quindi quando si dice “12 minestre di qualcosa” ci si riferisce al contenitore; il piatto piano è invece chiamato “tagliere”)

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La seconda famiglia italiana di codici: i «dodici ghiotti»

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Il capostipite di questa «famiglia» sembra collocabile attorno al 1338-39, probabilmente a Siena. Non più una corte come quella napoletana, dunque, bensì un comune cittadino a forte impronta «borghese» (aggettivo da usare con molta cautela in un contesto sociale come quello delle città italiane medievali, che vedevano fortemente mescolati, nell’esercizio del potere ma anche nei modelli culturali, le famiglie della nobiltà tradizionale e i nuovi ceti legati al commercio, all’artigianato, alle professioni).
Questa tradizione è stata attribuita a un cuoco senese del Trecento impegnato a lavorare per la cosiddetta “brigata spendereccia” di cui fa parte Niccolò de Salimbeni, ricordata da Dante (Inferno, XXIX, 124-132), che menziona i chiodi di garofano provenienti dall’India come un’usanza inutile e costosa che solamente i vanitosi senesi potevano concepire. L’ipotesi riguarda l’esistenza di una compagnia di dodici ricchi commensali senesi che attorno al 1297, mettendo in comune una cospicua somma di denaro, nel giro di dieci mesi la vedono dissipata nel consumare sontuosi banchetti.
Benvenuto da Imola, primo commentatore della Commedia, scrive che alla fine del Duecento c’era una brigata spendereccia che aveva deciso di accumulare una gran fortuna e spenderla in banchetti.
Le “brigate spenderecce” dovevano avere una certa diffusione: per esempio, sono menzionate anche da Boccaccio (Decameron, VI, IX).
L’ipotesi, tuttavia, è messa in discussione da parecchi studiosi, soprattutto in tempi recenti.

I testi afferenti a tale famiglia sono molto dettagliati: finalmente ci sono le dosi esatte degli ingredienti. Forniscono delle indicazioni che ci orientano su quanto più o meno devono estendersi i tempi di cottura: ad esempio, ci dicono quanto deve essere spessa una pasta.

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Terza famiglia di codici di manoscritti: il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino

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Si tratta di un manoscritto stavolta firmato: Libro de arte coquinaria di Maestro Martino. Nato nella valle del Blenio (oggi nel Canton Ticino, che al tempo faceva riferimento all’Italia), Maestro Martino lavorò innanzitutto nella Milano di Francesco Sforza, poi passò al servizio del cardinale Ludovico Trevisan, patriarca di Aquileia. Con questi personaggi visitò gran parte dell’Italia e si rivelò sensibile alle pratiche e alle realtà regionali e locali con cui venne in contatto. A Roma rivestì l’incarico di cuoco segreto dei papi Paolo II (questi morì per un’indigestione di meloni), poi Sisto IV, tra il 1464 e il 1484.
Il Libro fu redatto intorno agli anni Sessanta del Quattrocento. La prospettiva aperta dal Libro di Martino è completamente nuova: nel repertorio – sono rare le ricette che ne ricalcano altre –, nei toni e nello stile della cucina non si può non notare una rottura aperta con la produzione precedente. Cambia l’ordine delle ricette – o, per meglio dire, le ricette ricevono un ordine molto più chiaro e rigoroso, per preparazioni e non per prodotti di base – e cambia la chiarezza al loro interno. Le indicazioni fornite sono molto più precise e, oltre alle dosi degli ingredienti, troviamo molto di frequente anche i tempi di cottura, prima d’allora piuttosto rari. Si vuole apertamente “insegnare” la cucina, a partire da regole generali per arrivare sino a ricette complesse e dettagliatissime.

  • Capitolo terzo riservato alle salse: c’è continuità con la cucina medievale.
  • “Caso” e “uova”: quando le carni non possono essere mangiate.

Fonte: Maestro Martino inizia dalle carni, ma non dà subito una ricetta

C’è ancora la carne di orso anche se poi non vi sono ricette che ne prevedono l’utilizzo e non ci sono neanche ricette di orso nei ricettari precedenti (in fin dei conti non si cacciava più; eppure è strano…)

Fonte: come avere un buon lesso (Maestro Martino)

Il trattamento della gallina vecchia: nessuno avrebbe dato informazioni del genere prima di quel momento.

Fonte: per fare un buon arrosto (Maestro Martino)

Fonte: una ricetta catalana (Maestro Martino)

Cosa ci fa una ricetta catalana qui? Probabilmente perché prima c’era stato il primo papa Borgia.

Fonte: la magnificenza del pavone (Maestro Martino)

  • preghiere come unità di misura;
  • “il gusto comune”: si presuppone che si sappia che cos’è il gusto comune. Il cuoco deve avere ben presente qual è il parametro dell’epoca.

Fonte: minestra di lattughe che sembrano zucche (Maestro Martino)

Quando non è ancora la stagione delle zucche, metti la lattuga che sembra fuori stagione, ma in realtà c’è sempre.
Qui emerge la volontà di distanziarsi dalla natura per creare qualcosa di originale.

Fonte: frittelle a forma di pesce (Maestro Martino)

Fonte: bestino (gatto di mare) più conveniente a zappatori che a uomini perbene (Maestro Martino)

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Perché Maestro Martino ha scritto il Libro? La risposta ce la dà Platina

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Colto umanista, nato a Piadena nel Cremonese (da cui deriva il suo pseudonimo) nel 1421, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, vive a lungo tra Firenze e soprattutto Roma, dove riveste incarichi presso la Curia pontificia alternando periodi di fortuna a cadute in disgrazia.
Platina studia soprattutto latino, filosofia, storia, iniziando a lavorare come precettore. Alcuni amanti dei classici come lui si avvicinano all’epicureismo (anche se sono dei buoni cristiani…). L’epicureismo è godere con moderazione dei beni che si hanno poiché il futuro (la vita eterna) non esiste; la retribuzione in bene o in male della religione non esiste, secondo gli epicurei. Ma a Roma c’è il papa. Quando sale al soglio Pio II, Enea Silvio Piccolomini, che ha una mentalità piuttosto aperta, gli epicurei hanno ancora vita facile e Platina trova subito lavoro come “imbreviatore”, quello che deve scrivere bene i documenti emessi dalla curia pontificia. Ma Pio II poi muore. Gli succede Paolo II, che non ha la stessa apertura mentale del suo predecessore: la vicinanza degli esponenti della Accademia Romana non gli piace.
È affiliato di tutto rispetto dell’Accademia romana, sodalizio composto da filosofi, filologi, letterati, storici: intellettuali accomunati dallo studio del passato in generale e dall’ammirazione per il mondo classico in particolare. A somiglianza della maggior parte di quegli accademici, Platina è autore fecondo.
La sua vita è tutt’altro che tranquilla e passa dall’incarcerazione a Castel Sant’Angelo in seguito a una congiura finalizzata all’assassinio di papa Paolo II, ordita in seno all’Accademia romana e sventata appena in tempo, al periodo d’oro sotto il pontificato di Sisto IV, che gli affida la responsabilità della Biblioteca Pontificia.

Platina è autore del trattato De honesta voluptate et valetudine, probabilmente la prima forma di scrittura che possiamo definire autenticamente «gastronomica». È un libro di letteratura, quindi è uno dei primi a essere stampato. Viene rapidamente tradotto: francese, italiano volgare, tedesco.
Probabilmente frutto della collaborazione con Maestro Martino, il cui Libro de arte coquinaria Platina riversa interamente nella sua opera, traducendolo dal volgare in latino, il De honesta voluptate unisce alle ricette uno studio storico-dietetico sui singoli prodotti, ciascuno dei quali viene trattato in un capitolo a sé stante, e aggiunge consigli di dietetica, d’igiene alimentare, in generale di stile di vita, finalizzati all’ottenimento di quel piacere onesto (honesta voluptas) e di quella buona salute (valetudo) che, lungi da una prospettiva meramente edonistica, troneggiano tra gli ideali epicurei di cui un certo umanesimo si fece portatore. È proprio in questa prospettiva che un letterato umanista può occuparsi di argomenti quali il piacere e il cibo.

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La struttura dell’opera di Platina

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L’opera è suddivisa in 10 libri, preceduti da una lettera dedicatoria, indirizzata al cardinale Bartolomeo Roverella, nella quale definisce ciò che per lui è il piacere incontrando la posizione della chiesa e dell’epicureismo. Definisce anche la ragione principale della sua opera: insegnare come vivere bene:
* usando la moderazione;
* mangiando bene: trae le notizie dagli autori antichi (dai trattati di agronomia e da Plinio). Ci sono infatti informazioni di storia, di tipo organolettiche-sensoriali, di dietetica, tutte recuperate dai classici romani (non inventa nulla, infatti, fino più o meno alla metà dell’opera, fino al VI libro circa). Ma da questi testi non può assorbire tutto: non può ad esempio recuperare la loro cucina, perché da Apicio è passato troppo tempo.
Prende allora informazioni da Maestro Martino, pur continuando comunque a integrarle nozioni dietetiche recuperate da Plinio. Anzi, probabilmente Maestro Martino scrive il suo Libro perché glielo ha chiesto Platina. In fin dei conti perché avrebbe dovuto farlo? Forse si sono incontrati? Platina cita Maestro Martino nel capitolo sul cuoco (XI), in cui offre la prima descrizione del mestiere del cuoco.
Maestro Martino è quindi solo funzionale a creare la scrittura gastronomica. Ma è Platina il vero punto di nascita; è lui ad essere massimamente consapevole di cosa sta facendo.
Inoltre, intende mostrare che ci sono dei validi talenti anche al suo tempo: in fin dei conti, se anche i classici hanno trattato della cucina, pur essendo considerato un argomento basso, allora anche i suoi contemporanei possono occuparsi delle stesse cose.

Fonte: struttura dei libri dell’opera di Platina

Fonte: il rapporto con Maestro Martino – Il capitolo sul cuoco

Fonte: il rapporto con Maestro Martino – dalla ricetta del biancomangiare

Da come scrive è ovvio che si sono conosciuti: come fa a sapere come parla se non si sono mai conosciuti?

Fonte: il capitolo sulle ciliegie (all’opera di Platina): È un capitolo su prodotti che trae da autori antichi e non prevede una ricetta; ne parla come se fosse un trattato medico (ma antico, perché Platina non conosce la medicina del suo tempo e attinge solamente a nozioni classiche).
Anche per quanto riguarda il formaggio recupera le informazioni quasi tutte da Plinio. È quando si inizia a parlare delle carni che Maestro Martino impatta con Plinio.

Fonte: le carni (nell’opera di Platina)

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Le ricette: Maestro Martino e Platina a confronto

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La differenza tra un libro di cucina come quello di Maestro Martino e un libro “misto” come quello di Platina si coglie anche confrontando tra loro le singole ricette. A partire dal libro sesto, Platina procede in parallelo con Maestro Martino.

Fonte: Mirause alla catalana di Maestro Martino e di Platina

Platina aggiunge una nota dietetica e un pettegolezzo.

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Una polemica umanistica sui volatili commestibili

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Platina è imbevuto di cultura romana, di modestia e di moderazione. Invece Maestro Martino è quasi agli antipodi: in fin dei conti riporta la ricetta di un pavone che sputa fuoco dal becco!

Fonte: i volatili commestibili (Platina)

Fino a qui il discorso è il solito: ognuno stia al proprio posto.

Qui se la prende con i parvenu, con i moderni Trimalcione, utilizzando l’ironia.

Alcuni intellettuali hanno rifiutato la ricchezza, andando a ricercare cipolle e aglio, prodotti promossi dagli autori antichi come simbolo di modestia.
Qui c’è la prima attestazione dell’idea di vegetarianismo (non per motivi etici, ma per richiamarsi a valori opposti a coloro che mangiano volatili commestibili).

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L’invenzione della stampa e il testo di Platina

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La grande diffusione del volume di Platina è anche determinata dal fatto che è scritto in latino e che la stampa è stata inventata. Forse scriveva già con la prospettiva di mandare in stampa il suo libro, ma è un processo costoso. Si prevede che gli editori facciano un buon investimento. I libri di ricette non rappresentano una priorità per gli editori e restano in secondo piano: si tratta, in fondo, di vettori di un sapere più “pratico”, di quel genere definito in inglese “howto”.
Ma l’opera di Platina contiene insieme cibo, storia, filosofia, letteratura, ricette, nozioni di dietetiche. Le ricette che propone, come abbiamo visto, sono al tempo stesso una summa della conoscenza culinaria medievale e il suo passaggio verso il Rinascimento, ma quel trattato non è un semplice libro di ricette. Alle indicazioni culinarie e medico-dietetiche unisce infatti un solido apparato teorico; anzi, da quell’apparato prende il via per sviluppare un discorso gastronomico. È un genere intermedio tra un classico della letteratura, un’enciclopedia di scienza naturale e di dietetica e (persino) un libro di ricette, una fortunata mescolanza che viene percepita dagli editori come un target.
Può essere considerato quindi il primo testo gastronomico stampato in Europa. Tra il 1470 e il 1475 viene stampato e subito tradotto in lingua volgare. Il testo originale di Platina è in latino: stampato molto presto in Italia, rapidamente è ripreso in altri paesi, in particolare in Germania e nei Paesi Bassi (il latino è una lingua che accomuna i vari Stati europei). Il latino sta allora iniziando la propria parabola discendente e la circolazione di testi con il conseguente aumento dell’alfabetizzazione in città, assicurati dalla stampa, contribuiscono alla sua lenta scomparsa, ma al tempo stesso è l’unica lingua che attraversa, almeno a certi livelli della società, i differenti paesi; in Spagna e in Inghilterra, invece, il latino è rifuggito in favore della lingua vernacolare ed è per questo che Platina non vi approda. In italiano se ne segnalano cinque differenti incunaboli a Venezia a partire dal 1487. Per vedere la comparsa delle traduzioni francese e tedesca occorrerà attendere le cinquecentine stampate per la prima volta rispettivamente a Lione nel 1505 e ad Augusta nel 1542.

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La traduzione francese di Platina: Didier Christol

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Se vogliamo considerare prevalenti gli aspetti di classico della letteratura e di enciclopedia, allora il latino funziona ancora perfettamente, alla fine del Quattrocento e all’aprirsi del secolo successivo. Il punto, quello che tocca, è il terzo aspetto, quello del libro di ricette.
Accade anche a Platina il rimaneggiamento tipico dei manoscritti. Quando viene tradotto in italiano resta più o meno simile; la volgarizzazione può contribuire a renderlo in tutto e per tutto anche un libro da utilizzare in cucina.
Quando arriva in Francia le cose cambiano: qui lo traduce un medico di Montpellier, Didier Christol. Volendo ottenere un testo utilizzabile nelle cucine del suo paese, si trova a fronteggiare un problema completamente nuovo: la sua soluzione è quella di rinunciare alla traduzione letterale in favore di un adattamento a gusti e prodotti locali. Inoltre, per deformazione professionale considera le note di dietetica infilate da Platina come cose superate; lui ha altri tipi di fonti e pratiche su cui basarsi – il discorso dietetico si sviluppa di più e con più autori. Toglie le ricette che fanno male, come i cavoli alla romanesca. A prodotti utilizzati da Platina aggiunge, quando possibile, alternative francesi, quando addirittura non sostituisce i corrispettivi francesi a prodotti italiani, facendo scomparire questi ultimi. Intitola il trattato tradotto “Il Platine en françois” (“il Platina in francese”, ma questo presuppone che il lettore sappia di che cosa parla quel libro).

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La cucina di età moderna: tra continuità e cambiamenti

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La cucina rinascimentale e di prima Età moderna si pone in sostanziale continuità con quella medievale. Ma qualcosa a partire dalla Francia inizia a cambiare.
Due sono gli autori fondamentali: Cristoforo Messisbugo e Bartolomeo Scappi.
Messisbugo è il primo autore per scalchi: scrive ricette di cucina e fornisce istruzioni su cosa si debba sempre avere pronto in dispensa; scrive inoltre una bellissima descrizione di 14 banchetti che ha organizzato e che dona ai suoi lettori come esempio di organizzazione di eventi del genere

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Bartolomeo Scappi

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Bartolomeo Scappi è un cuoco segreto alla corte papale nel XVI secolo (sotto Pio IV e Pio V); scrive un trattato, “Opera”, che poi fu rinominato. Esso viene stampato a Venezia ma viene concepito a Roma. L’editore è Michele Tramezzino, il più grande editore di cose gastronomiche
Nel ritratto si fa raffigurare con un ricco vestito da cuoco; è in posa per ¾ e si fa realizzare stemma, in cui la coppa simboleggia la corporazione dei pasticceri di Roma e il cane alla catena che scappa rimanda foneticamente al suo cognome (stemma parlante).

Fonte: La premessa dell’”Opera”

Discrezione: adattare la ricetta alle necessità del suo momento. Se non ha un ingrediente di un certo tipo lo sostituirà.
Esperienza”: cambia anche le ricette a livello formale (parla in prima persona “io ho visto”; “io ho fatto”).

Fonte: La struttura dell’Opera di Scappi

Il conclave è cambiato molto del corso dei secoli. Nel Rinascimento erano chiusi a chiave lì dentro perché non dovevano subire influenza dall’esterno. Ciascuno è abituato alle proprie pietanze, al proprio cuoco; bisogna stare attenti agli avvelenamenti, ai bigliettini nelle torte.

Fonte: Le circostanze necessarie al maestro cuoco (Scappi)

  • Paragona il cuoco ad architetto: è come dire che è un artista;
  • Bisogna conoscere bene le cose per applicare la “prudenza” (= discrezione);
  • sobrio”: problema dell’etilismo diffuso tra i cuochi;
  • “ricco di partiti”: il cuoco deve avere tante idee;
  • piacevolezza”: il cuoco aveva qualche contatto con i convitati? Perché deve piacere se sta chiuso nella sua cucina?

Fonte: Scappi e la sua esperienza

Fonte: quello di Scappi è il primo volume iconografico

Il corposo volume dello Scappi contiene 28 tavole che mostrano la cucina e i suoi oggetti. Si tratta della riproduzione ideale della cucina della corte papale.

  • murello con pignatte;
  • tavola per imbandire: le vivande vengono prese da qui dai camerieri perché in cucina c’è generalmente molta confusione;
  • ordigno come portacoltelli;

Notevole specializzazione dell’attrezzatura da cucina come la borsa per le spezie, su ispirazione della borsa degli usurai.
Inoltre, in Scappi c’è la prima attestazione di coperti/posate individuali.

Bartolomeo Scappi rappresenta il frutto più maturo e completo dello splendore della cucina italiana del XVI secolo, che ha portato al suo apice quella medievale. Tuttavia, quando scrive (1570), in Europa la cucina sta cambiando.

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Libri di cucina italiani: la fase di declino

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Le trasformazioni di Età moderna sono definite anche come “Rivoluzione culinaria francese” che in Italia si afferma con calma.
Dopo il libro di Stefanie lo Scalco alla moderna di Antonio Latini (scalco presso il reggente della corona spagnola di Napoli) (2 voll., 1692-94), la letteratura gastronomica, in Italia, tace e il silenzio persiste per tutta la prima metà del XVIII secolo.
Anziché produrre nuovi libri di ricette si ristampa Scappi, Stefani e Latini e si iniziano a tradurne altri dal francese, che sono pieni di innovazioni proposte dalla Francia. La traduzione significa accettazione a livello alto: la cucina scritta è ancora appannaggio delle élite sociali; chi fa cucina in casa la fa a prescindere da libri di ricette.
Nel 1682 esce a Bologna la prima edizione del Cuoco Francese di La Varenne, traduzione italiana di una delle sue opere. Quella data segna l’«ingresso ufficiale» della francesizzazione culinaria in Italia. La francesizzazione è un fenomeno europeo, ma in Italia assume la funzione aggiuntiva di permettere la coesione culinaria di realtà politicamente diverse.

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Francesizzazione e autoctonia non sono in conflitto

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Si inizia ad andare in una direzione che interessa a tutti, ovvero la valorizzazione del prodotto locale. È qui che ci si incontra col discorso francese: il cittadino normale utilizza i prodotti che trova al mercato.
Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi (stampato a Torino, 1766) non ha un autore (sembra di tornare indietro; in realtà è anonimo perché è a sua volta una traduzione di un trattato francese uscito vent’anni prima: La cuisinière bougeoise di Menon (1746). L’aggettivo “borghese” ci consente di ragionare sul fatto che questo tipo di cucina sta scendendo di livello. È qui che si pone il punto di demarcazione: i libri di ricette riescono ad abbordare anche a un pubblico basso. Ma si intitola “la cuoca”, femmina; nelle corti le femmine lavorano nelle cucine, ma fanno soltanto le cose semplici in cui non ci si può sbagliare.
L’autore anonimo prende le ricette francesi borghesi ma fa un passo in più: prende prodotti autoctoni: inutile cercare chissà cosa in chissà quale luogo. Il modello francese, quindi, è riformulato con derrate autoctone (ad esempio, dice che è meglio il formaggio Piacentino piuttosto che il Gruyère).
Cosa fa per tradurre e adattare? Ci sono termini dell’alta cucina francese che non sono traducibili in italiano. L’autore fa anche degli errori di traduzione: cerca di modificare i vocaboli che non gli sembrano congeniali.

Fonte: Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi

Mette la t finale in Camargot, quando la ballerina, in realtà, era italiana (Marie Camargo).

Moscovita”: cosa ci fa una ricetta moscovita qui? In realtà originariamente era definita “roussir”, che vuol dire “arrostita”. Da qui il fraintendimento.

Cardi: li chiama di Chieri (Piemonte), ma nella ricetta sono spagnoli. Sa che a Chieri sono più raggiungibili e saranno perfetti per la sua ricetta.
Anche i tartufi i più stimati si trovano in Piemonte:

Crescione alla noce”: da cresson alenois (significa “di Orleans”).
Le salse originariamente “alla provenzale” diventano “alla provinciale”.

Sul formaggio si distacca completamente dalla sua fonte “noi = noi in Piemonte”.

Sebbene con l’anonimo siamo scesi di ceto sociale di destinazione (la stampa gastronomica si sta diffondendo in maniera molto capillare), ciò non significa che non escano più i trattati per le grandi corti. Anche Giovanni Vialardi scrive un libro di ricette che non vuole essere di corte, cercando di ‘abbassarlo’ un po’. Quando muore, un editore cerca di farne una sintesi, eliminando ricette complesse e gli ingredienti costosi, e lo intitola “Il piccolo Vialardi”.

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Un tentativo di sintesi: Francesco Leonardi

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Francesco Leonardi (L’Apicio moderno, 1790), pur attenendosi alla cucina francese, riunisce ricette di provenienze diverse e trasmette un patrimonio alla definizione del quale diversi Stati italiani hanno contribuito.
Partendo da un quadro delle preparazioni francesi del maiale, Leonardi apre un’appendice di mortadelle, salami, cotechini, zampetti, cervellate, salsicce di fegato alla milanese, mettendo in evidenza la loro ricezione nell’area romano-napoletana. Dalle sue indicazioni emerge l’esistenza di un’identità locale, statale, indirettamente italiana della cucina, che verrà consolidata dai ricettari municipali nel corso dell’Ottocento.

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I ricettari municipali

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Tutto ciò produce un’esplosione: comincia a scoppiare il fenomeno dei ricettari municipali. Tante città italiane cominciano a produrre il proprio ricettario (la maggior parte di questi sono anonimi). Queste ricette non sono state inventate tutte in quegli anni, ma c’è un affiorare di conoscenze e competenze che prima di allora non aveva senso mettere per iscritto. Sono ricettari molto legati agli ingredienti di territorio: hanno una parte però comune che è espressione del dialogo tra città presente già nel Medioevo.

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E un ricettario nazionale?

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Nel periodo tra le due guerre di indipendenza, c’è il dubbio che manchi un ricettario italiano. Viene pubblicato Il cuciniere italiano moderno (Livorno, 1832) ma è un libro di cucina livornese. A causa del titolo, divenuto patriottico, è ristampato nel 1861 e nel 1862, ma resta un’opera minore. Alla fine, ci si accorge della ‘fregatura’.
I cuochi che operano alla corte di Torino (a partire da Giovanni Vialardi) sono legati alla cucina francese e non risultano adatti a definire una cucina nazionale.
Un tentativo: Il cuoco sapiente (Firenze, 1871), destinato alla borghesia cittadina fiorentina e toscana. Non è però né modello di uno stile italiano nuovo né precursore di una cucina regionale.

Mancano alcune cose:

  • Una codificazione dei piatti che permetta di ripeterli all’esterno;
  • Un linguaggio adeguato che escluda i dialettismi;
  • Un modello che rifletta non la grande ristorazione o le corti principesche, ma l’ordinario di una famiglia borghese;
  • Un approvvigionamento e un mercato che garantiscano la reperibilità degli ingredienti nelle differenti città.
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Storia di Pellegrino Artusi

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La svolta è rappresentata da Pellegrino Artusi, figlio della famiglia borghese più importante di Forlimpopoli, ovvero il figlio del titolare dell’emporio (supermercato piccoletto). Il commercio che arricchisce il padre, però, è soprattutto quello di tessuti.
Pellegrino avrebbe voluto studiare, tantoché andò a seguire lezioni di antropologia.
In quegli anni tra il Nord e il Sud del Paese si afferma la piaga del brigantaggio (“Il passator cortese” di Carducci): una sera una banda va a Forlimpopoli per saccheggiare tutto quello che trova nel negozio Artusi. Ma quella sera a teatro c’è una rappresentazione, quindi sono tutti fuori casa. Saccheggiano e distruggono tutto; a casa Artusi violentano le sorelle. Questo era considerato un grande disonore, quindi il giorno dopo la famiglia si trasferisce a Firenze. Pellegrino diventa da questo momento in poi il capofamiglia potenziale. Aveva già girato molto per l’Italia (quello che era raggiungibile), anche avvalendosi delle prime tratte ferroviarie. Tuttavia, non riuscirà mai a raggiungere il sud Italia.
Morta la famiglia va all’università di Firenze, fa amicizia col professore e va a lezione senza laurearsi. Si interessa agli usi delle popolazioni che inizia a frequentare. Si iscrive alla Giovine Italia e durante i suoi viaggi ne approfitta per raccogliere ricette; nel frattempo, si arricchisce sempre di più, con cameriere e gatti.
Una volta giunto in pensione, decide che è giunto il momento di pubblicare qualcosa per mostrare il suo lato intellettuale: ci prova con La vita di Ugo Foscolo, che non ottiene il successo sperato; rilancia con un commento a sei sonetti di Giuseppe Giusti, ma va peggio di prima. I suoi amici sanno che lui ha una grandissima raccolta di ricette, e insistono affinché vi metta ordine: il libro che esce da questo lavoro è quello che poi sarà La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. L’editore non glielo pubblica. Alla fine, decide di pubblicarlo a sue spese.
Artusi regala un libro di ricette all’Italia (475 ricette). Ma come può fare per incrementare le vendite? Mette allora in copertina il suo indirizzo di casa, scrivendo qualcosa del genere: “se lo volete ve lo faccio spedire in contrassegno; se volete darmi consiglio io vi ascolto”. Gli editori tornano indietro appena si esaurisce tutta la prima edizione. Le lettrici (la cucina sta infatti diventando una faccenda femminile) cominciano a scrivergli fornendogli ricette. Lui raccoglie tutte le lettere, le gira al cuoco e alla cameriera che provano a vedere se la ricetta corrisponde ai suoi canoni:

  • riproducibilità in tutta Italia;
  • possibilità di essere modificata (le ricette non devono mai essere statiche ed esclusive, ma modificabile a uso personale; non si ricerca un codice omologante, ma uno spazio di condivisione di saperi e pratiche (rete);
  • a portata di chi fa cucina di casa.

Se la ricetta funziona la inserisce nelle edizioni successive: nel 1909 l’opera esce con 790 ricette. Di fatto, la sua opera è il risultato di un work in progress collettivo.

Nel 1911, alla fine di marzo muore a quel punto il notaio apre il suo testamento. I diritti sulle vendite del suo libro li cede al cuoco e alla cameriera; il resto lo lascia al comune di Forlimpopoli (dove non aveva più messo piede). Forlimpopoli fa un avviso funebre dicendo che avrebbero fatto tante cose col suo patrimonio, ma l’avviso esce il 1° aprile e nessuno ci crede. Dovette essere ripubblicato.

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I caratteri artusiani

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  • Mentre corregge le ricette inviategli, corregge anche dal punto di vista lessicale, perché vuole dare alla cucina una lingua nazionale: il suo è un italiano semplice e puro, come scrive qualche volta chi è nato in Romagna ed è educato alla maniera toscana, ma senza le affettazioni toscane; non sempre ci riesce (cerca di chiamare “intriso” il roux).
  • È un patriota che spera di produrre un modello gastronomico rivolto alla borghesia alfabetizzata, ma i consumi della città sono debitrici della cucina rurale. Egli si rivolge alle classi agiate con ricette popolari («Lo sa il popolo e il comune che per ottenere il brodo buono bisogna mettere acqua ghiaccia a far bollire nella pentola adagino adagino»), sviluppando pertanto una strategia in cui gli spaghetti e il risotto risultano in buona posizione. In generale, riserva grande spazio alla pasta, sia industriale sia domestica, concorrendo di fatto alla formazione dello stereotipo dell’italiano mangiamaccheroni.
  • Grande sensibilità antropologica: preferiva lavorare sul campo, pescando dalle tradizioni locali le ricette che gli sembrano proponibili a un pubblico più ampio.
  • Aperto alle modifiche.
  • Dà anche un’altra struttura (grammatica) al pasto: codifica antipasto, primi e secondi, che in Italia già esistevano, ma adesso lui li codifica. Era una struttura maturata in ambito borghese (i contadini ancora non possono permetterselo). Mette le sue ricette in quell’ordine lì. Il nuovo sistema gastronomico è centrato sulla “minestra”, intesa come minestra in brodo ma anche come pastasciutta. La “minestra” come primo piatto – che, per definizione, presuppone l’esistenza di un “secondo”.
  • Promuove le carni “povere”, disprezzate dall’alta cucina (come il coniglio), guadagnando il consenso delle classi meno fortunate.
  • La cucina che fa preparare al suo cuoco o alla sua cameriera, Marietta, con prodotti del mercato di Firenze, secondo ricette chiare e alla portata delle casalinghe, incontra un’accoglienza molto favorevole e diventa un modello trasmesso da una generazione all’altra.
  • Pesca nelle tradizioni locali le ricette che gli sembrano proponibili a un pubblico più vasto.
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L’identità italiana in cucina - L’imperio di Federico de Roberto

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È possibile parlare di identità gastronomica italiana? Al momento dell’unificazione, esiste una cultura gastronomica comune? Una risposta viene da un romanzo ambientato in quel periodo ma scritto alcuni decenni dopo, negli anni Venti del XX secolo: si tratta de L’imperio di Federico de Roberto.
Nel passo che segue, l’autore mette in scena, a Roma, un pranzo al quale partecipano alcuni deputati, un commendatore e un giornalista.

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“Si cominciava naturalmente dai maccheroni”: il ruolo della pasta

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Il ruolo della pasta è uno dei tratti originali della cucina italiana sin dal Medioevo e dai primi ricettari. La cultura della pasta non è esclusivamente italiana: in quei secoli, anche i ricettari francesi o inglesi la includono. Ma appare italiana la varietà dei tipi e dei formati. Per esempio, nel ricettario di Cristoforo Messisbugo (1549) possiamo trovare tre varianti di maccheroni, differenti per forme.

All’inizio, la pasta secca è cibo da élite, perché costa molto (il mancato avanzamento tecnologico comporta una produzione ancora pressocché artigianale).
Fino al XVII secolo si essiccava al sole e venivano promulgati divieti di produrre la pasta nei periodi di carestia poiché, quando il cereale scarseggiava, era opportuno utilizzarlo per il pane, un cibo per tutti.
La sua diffusione ‘di massa’ a livello popolare avviene però nella Napoli negli anni Trenta del XVII secolo: è quanto per primo teorizza Emilio Sereni, che parla del passaggio, in una città come Napoli, in rivolta contro gli Aragonesi (è il periodo di Masaniello), da una dieta a base di carne e verdura, non più possibile a causa della crisi, a una dieta a base di pasta e formaggio. La pasta in particolare, grazie a una piccola rivoluzione tecnologica fondata sulla maggiore diffusione della gramola e sull’invenzione del torchio meccanico, cominciò a essere prodotta a costi più bassi, favorendone la promozione a cibo ‘di base’. Se fino ad allora essa era stata un prodotto fra i tanti, persino connotato da una certa immagine di lusso (al punto che, nel XVI secolo, a Napoli se ne proibiva la fabbricazione degli anni di carestia, per non diminuire la produzione di pane), ora la pasta diventò, per la prima volta, un cibo veramente popolare, il piatto-base del regime alimentare quotidiano dei ceti poveri urbani.
Inoltre, la pasta diventa un cibo enormemente saziante: ci si rende conto dalle situazioni più difficili (determinate dalla mancanza di carne) si poteva uscire vivi nutrendosi di pasta con formaggio, il ‘naturale’ condimento della pasta già dal Medioevo, cui i nobili aggiungevano zucchero e spezie.
L’accoppiata pasta-formaggio, a cui si aggiunse nell’Ottocento la salsa di pomodoro, prese il sopravvento sul tradizionale binomio cavolo-carne: soluzione dietetica a suo modo geniale, che garantì un buon apporto calorico oltre al desiderato ‘volume’ alimentare. Secondo Piero Camporesi, “La nuova cucina artusiana […] nazionale è debitrice dell’ingresso trionfale del pomodoro a quella che potremmo chiamare cucina risorgimentale o meglio ancora garibaldina perché, dopo l’impresa dei Mille, i pomodori percorsero trionfalmente tutta la penisola, dando polpa e sapore alla eclettica e spersonalizzata cucina romantica, in gran parte tributaria della Francia […]”.

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Le torte: un genere italiano e medievale

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Altro cibo distintivo della cucina medievale sono le torte di pasta dura, ripiene di carne, formaggio, pesce, verdura.

Ce ne sono di vari tipi.

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Pasta e torte: metafore della cucina italiana

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Secondo Massimo Montanari, i molteplici formati della pasta e le illimitate varianti delle torte sono quasi una metafora della cucina italiana e del suo carattere di fondo:
* la riconoscibilità complessiva, l’esistenza di elementi comuni che definiscono un’identità culturale forte e precisa;
* in cui si innestano varianti locali, fortemente radicate negli usi dei territori e delle città in cui tale identità si articola e si declina, che sono perfettamente legittime nel loro contesto d’uso. Varianti che possono essere confrontate tra di loro senza la presunzione di desumere da queste varianti un modello unitario, visto che l’Italia è una «rete» di città in cui le conoscenze circolano. Infatti, non esiste una torta italiana, esiste la torta come genere. Italiana è la rete di consuetudini, saperi, gusti che di volta in volta qualificano concretamente e diversamente l’oggetto comune.

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Il dialogo tra cibi poveri ed élites sociali

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L’apporto della cultura “popolare” alla costruzione del modello alimentare italiano sembra essere stato particolarmente rilevante.
Elementi distintivi della cultura alimentare delle élites europee, nel Medioevo e oltre, sono l’enfatizzazione del ruolo della carne – vero simbolo del privilegio e del potere – e la sottovalutazione dei prodotti della terra, cereali, legumi e soprattutto gli ortaggi, rappresentati in letteratura come cibi tipicamente “contadini”. Nei ricettari italiani destinati alle corti, dunque di alta cucina, i prodotti della terra entrano invece prepotentemente.

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La triade identitaria italiana

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La pasta, le torte e le verdure possono essere considerate gli elementi fondanti dell’identità gastronomica italiana, e questo con continuità fin dal Medioevo.
Ciò non significa che nel resto d’Europa non esistessero e/o non si consumassero: in Italia si caricano tuttavia di un valore culturale inesistente altrove, che permette di identificarle come «italiane». A partire dal XVI secolo, come abbiamo visto, nuovi prodotti provenienti dalle Americhe si uniscono a quelli precedenti, arricchendo ulteriormente la triade.
Gli scambi alimentari, infatti, creano un’italianità nuova: l’italianità della pasta, o del pomodoro, o del peperoncino (o della pasta al sugo di pomodoro arricchito al peperoncino) è fuori discussione. Ma è anche fuori discussione che la pasta, il pomodoro, il peperoncino appartengano in origine a culture diverse e che sia necessario scavare nello spazio, oltre che nel tempo, per recuperare i frammenti di storie diverse che alla fine si incrociano e danno origine a storie e identità nuove.

Massimo Montanari non considera la pizza italiana perché è un prodotto globalizzato da più tempo, e nel Medioevo non c’era.

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Dalla prospettiva nazionale alla regionalizzazione

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Abbiamo sinora visto l’identità italiana nel suo complesso ma, se volgiamo lo sguardo alla realtà contemporanea, dobbiamo necessariamente fare i conti con una visione «per regioni». Se Pellegrino Artusi costruisce una rete “italiana” di saperi culinari, negli stessi anni si fa strada una tendenza alla “regionalizzazione”, che rappresenta l’altra faccia della “nazionalizzazione” gastronomica artusiana.
Il primo ricettario che classifica i piatti secondo questa prospettiva è La nuova cucina delle specialità regionali di Vittorio Agnetti (Milano, 1909). La regionalizzazione è poi consacrata definitivamente dalla Guida gastronomica del Touring Club (Milano, 1931), il quale è il primo produttore di inventari gastronomici in Italia.

È sin dal 1928 che il Touring decide di muoversi nella direzione della guida gastronomica, mentre la Francia sta facendo la stessa cosa, così come la Spagna tra il 1932/1933. È un’idea di valorizzazione nazionale che non c’entra in automatico col nazionalismo, anche se in Italia viene declinata così.
Nel 1950 la Guida viene ristampata tale e quale a quella del 1931. Il fatto che continui a diffondersi anche dopo il fascismo lascia pensare che, forse, ha una certa importanza.
Nel 2003 si ha la ristampa anastatica della prima edizione del 1931, le altre del ‘69 e dell’’84 rimangono in silenzio.

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La struttura della Guida del Touring Club

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La Guida fu suddivisa innanzitutto per regioni. All’interno delle regioni:

  • Introduzione generale che mostra le specialità (prodotti e preparazioni gastronomiche), accompagnate dalla descrizione e, talvolta, da un po’ di storia.
  • Singole province, per ciascuna delle quali troviamo una breve introduzione, seguita in genere dall’elenco alfabetico delle località, ciascuna delle quali seguita a sua volta dalle proprie specialità; qualora l’elenco delle località non risulti utile o soddisfacente, all’interno delle province possono comparire le categorie dell’inchiesta, seguite da una breve descrizione ed eventualmente dai principali luoghi di produzione; è anche possibile, nei casi più carenti, che al cappello introduttivo non segua nulla. I vini e i liquori, ampiamente documentati e descritti, occupano la parte finale della scheda regionale; evidente la mano di Arturo Marescalchi.

Nell’introduzione si dà risalto anche a specialità considerate “localissime”, per valorizzare anche il lavoro delle persone nelle campagne. Forse si stava facendo di tutto per far rimanere, in un’epoca di urbanizzazione, delle persone a vivere nelle campagne a scopo produttivo.

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La regionalizzazione secondo Massimo Montanari

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Secondo Massimo Montanari, “la dimensione intermedia della regione ingabbia la realtà storica entro confini artificiali, creando equivoci e fraintendimenti. Ma è stata quella la linea vincente, perché più semplice da gestire, più facile da comunicare”. “Il ‘paravento’ delle regioni rischia di occultare i caratteri veramente identitari della cucina italiana, la sua natura assolutamente ‘locale’ e, al tempo stesso, profondamente ‘nazionale’”

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Miti alimentari e gastronomici

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I miti alimentari non sono qualcosa di recente.
Si tratta di una narrazione spesso molto articolata e può riguardare non solo o non tanto un singolo prodotto o un uso gastronomico, ma anche fenomeni più complessi. I miti gastronomici così intesi tendono ad accrescersi e ad arricchirsi di particolari nel corso del tempo.
Sono stati creati in diverse epoche storiche e sono relativi a diverse epoche storiche. Ve ne sono diverse tipologie. Vediamo qualche esempio.

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L’esistenza di un’Europa medievale e le spinte propulsive alla sua creazione

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A livello culturale, quindi dal punto di vista di modelli alimentari e gastronomici, l’Italia esisteva da tempo, sin dal Medioevo.
Ma prima dell’Italia ci fu l’Europa, un’Europa medievale. È nel Medioevo, infatti, che nasce e si sviluppa una koinè europea, entro cui si distingue una cultura alimentare italiana fatta di diverse identità territoriali.
Due sono state le spinte propulsive alla creazione di questa Europa:
* Il fatto che la popolazione romana fosse già costituita da una molteplicità di stirpi;
* L’incontro fra due modelli culturali diversi, quello romano e quello barbarico, che ha spostato il baricentro dal Mediterraneo all’Europa. L’integrazione tra questi due sistemi ha dato origine al modello produttivo agro-silvo-pastorale.

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L’Italia è una rete di città

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L’Italia nel Medioevo non era un’entità politicamente omogenea, come la Francia e l’Inghilterra, ma uno stato frammentato anche a causa dell’ingombrante presenza del papato al centro della Penisola.

  • Rete: spazio materiale e mentale entro cui circolano modelli, abitudini, uomini e prodotti (anche alimentari) e questa circolazione rende varie realtà politiche diverse in qualche modo omogenee. È la circolazione di uomini (produttori e consumatori con finalità turistiche, ad esempio) e prodotti a tenere insieme le realtà locali italiane e ad esplicitare, infine,un forte senso di appartenenza a un paese dalla gastronomia ricca, localizzata ma riconoscibile nei suoi tratti di fondo.
    Tra i prodotti che circolano maggiormente nella Penisola – perché connotati da una forte vocazione commerciale – troviamo salumi, formaggi e confetture, che diventano nodi identitari e il tessuto di un sapere e un gusto condiviso. Ad esempio:
    a) nel viaggio letterario e virtuale di Ortensio Lando (Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e d’altri luoghi) del 1548, l’autore dimostra di conoscere la provenienza delle specialità gastronomiche ed enologiche della Penisola, in una guida che parte dalla scoperta della Sicilia e individua una serie di circuiti di prodotti che dal Sud raggiungono il Nord e il Nord-Est del paese. Centrali sono le verdure, anche nell’immaginario del Nord, segnale di un’identità settentrionale permeata da una cultura mediterranea; b) Bartolomeo Stefani, nel suo L’arte di ben cucinare (1662), invita a godere dei beni gastronomici di tutta la Penisola, per chi ha buon destriero e buona borsa, delineando un sistema di scambi articolato in distretti gastronomici distinti ma comunicanti.
    Nel sistema degli scambi inizia ad essere compreso anche il Piemonte sabaudo, patria dei biscottini savoiardi, nel momento in cui i Savoia spostano i loro interessi da Chambery a Torino nel 1563.
  • Città: sono state il perno del sistema amministrativo romano; nel Medioevo non perdono del tutto la loro centralità, nonostante il rilievo assunto dalle campagne e dai centri rurali. Nel XI nascono i primi comuni – prima attorno al vescovo –, un fenomeno tutto italiano, in cui in assenza di poteri signorili estesi, la città diviene un centro di autogoverno e di controllo del territorio, che chiamiamo contado. Se nelle città si concentrano gli interessi di nobili e borghesi, le campagne diventano le produttrici di risorse economiche e alimentari destinate alla città, concentrandole sul mercato urbano (dimensione centripeta della relazione città-campagna). Ma le città si aprono anche allo scambio di prodotti commercializzabili con altri mercati, quindi diventano sia un luogo di partenza che di arrivo di prodotti gastronomici (dimensione centrifuga della città).
    Nel XIV secolo le signorie, eredi del fenomeno comunale e vere e proprie dinastie familiari, rafforzano il carattere territoriale del governo cittadino. Le città maggiori impongono il controllo su quelle minori, sancendo la nascita di una gerarchia tra una capitale e le altre città-satellite. Diventano stati regionali che allargano l’orizzonte economico e politico del potere cittadino.

Il caso di Bologna: definita «grassa» (ricca, abbondante) a causa non solo della sua fortissima identità gastronomica, ma anche a grazie alla sua politica di scambio e apertura. Diventa nel Medioevo un luogo di incontro, di incroci e di mediazione, nel suo essere una città universitaria trafficata dove si trova di tutto.

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Diversi modelli cittadini: la differenza tra Nord e Sud

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  • Al Nord/Centro, dove esiste il modello comunale, sono le reti di città a governare il patrimonio alimentare e gastronomico, e che è la città il punto di riferimento si vede già dalle denominazioni dei prodotti agricoli («il cavolo di Milano»);
  • Al Sud, invece, c’è un regno relativamente accentrato, che frena lo sviluppo di città autonome: Napoli rappresenta l’intero territorio e maggiori spazio è riservato a prodotti non urbanamente connotati, ma territorialmente («frutti della costa di Posillipo», da Lucerna de corteggiani di Giovan Battista Crisci).
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Cultura popolare e cultura di élite

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  • C’è una profonda complicità fra questi due modelli, al punto che c’è un grande apporto del modello popolare che ritroviamo anche nei ricettari delle classi alte (soprattutto al sud). Nei ricettari di Maestro Martino, Cristoforo Messisbugo e Bartolomeo Scappi ritroviamo molti prodotti di origine popolare come cavoli, rape, finocchi e zucca. Spesso scrivono che hanno appreso la loro esperienza da contadini e pescatori; ad esempio, Scappi scrive che il pesce dei pescatori di Chioggia è migliore perché viene cucinato fresco.
    Anche le altre cucine europee che guardano all’Italia guardano soprattutto ai prodotti dell’orto italiano.
    I due modelli, però, possono coesistere a patto che i prodotti popolari vengano nobilitati, affinché siano compatibili con l’ideologia della differenza (aggiunta di spezie oppure i prodotti poveri semplicemente affiancano la portata principale.
  • Anche l’identità alimentare del nord– che immagineremmo padana – è permeata da una chiave mediterranea: a Bologna, tra Cinque e Seicento, le emergenze sono uva, fichi, pesche, olive e finocchi. Giacomo Castelvetro, modenese, in «Brieve racconto» parla di un’Italia alimentare che si regge sul consumo di prodotti vegetali («verdure» e «radici»).

Questi ricettari esprimono una cultura alimentare diffusa e iniziano a essere percepiti come nazionali, nonostante e – anzi – soprattutto grazie al fatto che riflettono il profondo rapporto tra città e campagna (dove la città è un luogo di ibridazione e contaminazione dove ceti popolari ed élite si confrontano quotidianamente. In città, infatti, ci sono cuochi popolari e membri della servitù). La corte e la sua tradizione sono oggi motivi di orgoglio collettivo perché contengono, anche se rielaborate, le culture dell’intera società.
Le conserve – prodotti che nascono nell’area del bisogno – diventano a poco a poco delle specialità di cui vuole godere anche l’élite.

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Le identità alimentari si rinnovano anche accogliendo prodotti esterni - il caso del peperone e del peperoncino

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Montanari menziona il caso del peperone e del peperoncino (messicani), esempi paradossali di come le identità alimentari non sono inscritte nei geni di un popolo o nelle origini, ma si costruiscono nella continua dinamica del colloquio fra uomini, e che prodotti in origine appartenenti a culture diverse sono, nella loro riformulazione, elementi indiscussi della nostra italianità.
Quando i calabresi emigrarono negli Stati Uniti, il peperoncino venne definito nello slang «calabresella». Scavare alla ricerca delle origini significa recuperare l’altro che è in noi.

Il campanilismo e le ingiurie alimentari sono, purtroppo, l’altra faccia della cultura condivisa. Attestano la varietà culinaria e la sua condivisione in una rete di reciproca conoscenza: non chiameresti i nordici mangiapolenta se non conoscessi la polenta e l’uso che lì vi è attestato. Serve sempre un retroterra di assunti condivisi per formulare un giudizio.

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Mangiamaccheroni: stereotipo nazionale

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Durante la fase unitaria, il ceto politico piemontese, che intendeva accreditarsi come garante degli interessi e delle tradizioni di tutti gli italiani, iniziò a utilizzare alcuni curiosi epiteti metaforici: la conquista di Napoli venne definita una «mangiata di maccheroni», mentre la conquista della Sicilia una grande «mangiata di arance».
Porsi a guida dell’Italia significava necessariamente conferire all’identità subalpina del ceto sabaudo una certa impronta meridionale, assumendo come italiani i simboli alimentari del sud: mangiare maccheroni significava aver elevato un simbolo napoletano a simbolo nazionale.
Proprio in quel periodo, la pasta si stava diffondendo in tutte le aree del mezzogiorno (prima era presente solo nelle aree urbane e costiere, mentre nell’interno restava a lungo un cibo per ricchi), diventando rappresentativa dei meridionali in genere.

Anche l’emigrazione giocò un ruolo decisivo nella consolidazione dello stereotipo nazionale: lasciando l’Italia si lasciava anche il desiderio e il sogno della pasta, ma grazie agli introiti del lavoro, molti emigrati iniziarono a disporre delle sufficienti risorse economiche per accedere al mercato della pasta, che oltreoceano aveva cominciato a diffondersi per rispondere a quell’abitudine e a quel bisogno. Il consumo di pasta fu integrato da quello di prodotti americani (pensiamo agli spaghetti con le meatballs).
L’incontro tra gli espatriati costruì uno stile italiano attraverso il canale della ristorazione: le ricette proposte erano il risultato dell’incontro delle tradizioni regionali (sincretismo alimentari). È una questione di distanze: più l’obiettivo di allarga, più il disegno complessivo ha la meglio sui dettagli: prevalgono i tratti comuni che sottolineano gli apporti cittadini e regionali nella cultura nazionale.
Si tratta di un procedimento inverso a quello canonico: non è la varietà che si è sviluppata da un retroterra unitario, ma un retroterra unitario costruito attraverso l’incontro delle diversità.

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Cresce il numero degli italiani: l’alimentazione tra Otto e Novecento

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I. Alla fine dell’Ottocento, l’Italia è un Paese povero con un bilancio alimentare insufficiente: il consumo di carne annuo è basso (16 kg vs i 40/60 kg di altri Paesi europei), come conseguenza della progressiva semplificazione della dieta in senso cerealicolo. Si verificano i primi grani fenomeni migratori.
II. Nel primo decennio del Novecento, il trend è in miglioramento, grazie al decollo industriale. I consumi giornalieri risultano in aumento.
III. La Prima guerra mondiale non lascia tracce negative a livello alimentare, anzi: è un’occasione di incontro per giovani soldati che al fronte hanno modo di confrontarsi con realtà culturali e alimentari diverse. Nelle mense comuni si consuma pane di frumento, pasta, vino e caffè, prodotti che entrano nel patrimonio collettivo quotidiano degli italiani; i cibi della tradizione domestica le famiglie inviavano ai parenti al fronte vengono messi in comune; nei campi di prigionia si scrivono ricettari in cui si mescolano le tradizioni del Nord e del Sud, compendi più equilibrati di quello artusiano, come avviene nel campo di Celle (Hannover) con l’Arte culinaria di Giuseppe Chioni (1917/1918) e quello di Giosuè Fiorentino, nello stesso campo di Celle, nello stesso anno.
La tradotta, un giornalino progettato da comandi militari per tenere alto il morale delle truppe, presenta l’identità nazionale attraverso simboli gastronomici: l’Italia è una carta in cui figurano i paesi tra il Piave e il Po che al nemico piacerebbe papparsi, ma l’offensiva austro-ungarica culinario-mangiativa fallisce.
IV. La Seconda guerra mondiale complica la situazione: in questo periodo si invitano gli italiani a non sprecare il cibo e a sostituire i piatti con surrogati. Non sprecate è un opuscolo del 1941 pubblicato dall’Ufficio stampa e propaganda del regime. Compaiono le perline gastronomiche di Petronilla sul Corriere della Sera.

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Il miracolo italiano fra modernità e tradizione: dopo la Seconda guerra mondiale

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Dopo la Seconda guerra mondiale si verificarono alcuni cambiamenti:

V. Gli effetti della crisi alimentare si fecero sentire fino al 1958.
VI. Dal 1958 al 1968 si ha una fase di assestamento e si torna ai livelli di consumo prebellici e a 3000 calorie medie per abitante. È il momento in cui si verifica il passaggio da una società rurale tradizionale a una società industriale moderna.
VII. Alla metà degli anni Settanta si **concludono i movimenti migratori **verso l’Europa alimentare e l’America. Fra il 1974 e il 1984 si annulla il divario fra Nord e Sud, città e campagna.
Cambia il modello alimentare: fanno la loro comparsa i prodotti confezionati, le scatolette e tutte le modernità proposte come riscatto da un periodo di miseria e privazioni alimentari. L’omologazione alimentare viene promossa dai mezzi di comunicazione di massa come la TV, oltre alla radio e al cinema già diffusi nel ventennio fascista.

Ma la modernità è poco lineare in Italia, perché questa non ha garantito il superamento di localismo (vs delocalizzazione) e di stagionalità (vs destagionalizzazione).
Questo ritardo italiano, però, può essere considerato una risorsa culturale.
* La modernità offre gli strumenti per rivitalizzare il patrimonio di saperi e di pratiche, ma coincide anche con il recupero e la reinvenzione della tradizione (ad esempio, la ristorazione italiana spesso assume il carattere familiare della trattoria).
* Gli italiani dimostrano un attaccamento antropologico alla tradizione, con il ritorno alla dimensione territoriale e stagionale del cibo, una nuova forma di consapevolezza della necessità di richiamarci al passato, che è anche uno specchietto per le allodole (leggi turisti), attratti da una spesso fasulla tipicità di un prodotto, un mito che serve a vendere. Questo tipo di attaccamento alla tradizione sollecita il recupero di valori che le multinazionali oggi non possono ignorare.

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L’invenzione delle cucine regionali

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Le cucine regionali sono una costruzione moderna, in cui si cerca di far confluire in un’unica regione elementi disomogenei, provenienti da diverse località/regioni e da diversi orizzonti memoriali di fame e di ristrettezze alimentari, che vengono per inseriti in un insieme nuovo e collocati in un contesto di benessere.

  1. In passato, c’era la volontà di superare il territorialismo (localismo = povertà). Il territorio era sì valorizzato, ma era anche semplicemente lo spazio in cui si attingevano i prodotti: non è un valore culturalmente significativo, perché il territorio è un’entità spaziale che include tutti. Bisogna aspettare il pensiero liberal-democratico (con l’ascesa della borghesia e della classe industriale) affinché gli uomini vengano percepiti come tutti uguali e il territorio diventi un valore distintivo.
  2. L’espressione «identità regionali» si diffonde di pari passo all’unificazione politica del paese e affiora ancora nella retorica nazional-popolare fascista (come paradosso dello statalismo radicale). Ma c’è una certa ambiguità nel termine «regione»: è una ripartizione amministrativa dello Stato (dal 1946, ma pienamente introdotta solo nel 1970), che rinchiude la varietà culturale dentro confini convenzionali (forzatura e artificio).

La cucina regionale è un’utile invenzione per esigenze politiche, commerciali e turistiche, ma è stata la linea vincente e facile da comunicare, che ha sovrapposto la politica alla cultura, conferendo caratteri arbitrari alla ricchezza di cucine locali, territoriali e cittadine.