Appunti lezioni Flashcards
Distinguo tra storia dell’alimentazione e storia della cucina
Sono due facce della stessa medaglia.
- La storia dell’alimentazione fa parte del filone della cultura materiale, che comincia a essere studiata a partire da un nuovo interesse nei confronti della vita quotidiana e dell’agricoltura, ad esempio. Essa si occupa della produzione alimentare, della trasformazione del prodotto e del suo consumo.
Prima dell’esperienza delle Annales, si fa la histoire evenementielle, che privilegia un impianto strettamente cronologico e biografico. Ma anche la società tutta, con le sue abitudini e i suoi costumi, può essere un interessante campo di ricerca – che ancora, però, è inesplorato.
C’è stato un precedente in Francia, di Pierre-Jean-Baptiste Le Grand d’Aussy, Histoire de la vie privée des Français (1782). Un nobile francese, appassionato di storia e vicende del suo Paese, decise di selezionare diversi testi sulla storia della Francia. Una volta che raggiunse un numero consistente di libri, decise di rivolgersi a uno storico per raccontare, con metodo scientifico, la vita quotidiana dei francesi. Trovò uno storico che realizzò un paio di volumi sul tema che, tuttavia, non convinsero il committente. Il nobile li fece quindi vedere a Le Grand d’Aussy, un gesuita, che li bocciò: lo storico aveva selezionato solamente gli aneddoti, senza verificare le fonti. D’Aussy realizzò tre volumi solamente sulla storia dell’alimentazione, citando in maniera minuziosa tutte le sue fonti (cosa che al tempo non era in uso fare).
In Italia, verso la fine dell’Ottocento, quando si comincia a guardare al Medioevo con rinnovato interesse, alcuni studiosi, come Ludovico Frati, decidono di gettare uno sguardo alla vita privata della popolazione. Frati realizzò un testo relativo alla storia della vita privata a Bologna, in cui c’è un discorso anche sul cibo.
La linea di demarcazione però arriva con Bloch e Febvre nel 1929, con la storia della vita materiale, di quella quotidiana e degli oggetti e della storia dell’agricoltura. - La storia della cucina (prodotto alimentare = ingrediente; trasformazione degli ingredienti in un piatto secondo una ricetta; consumo del piatto in un contesto specifico) ha un altro tipo di derivazione, e si ritrova nel periodo di neo-medioevo: è in questo periodo che alcuni territori ricercano le proprie radici (specie in Germania). In Italia, nel periodo fra l’Ottocento e l’unità d’Italia, si recuperano notizie dell’età comunale, frammenti di vite musicisti, poeti, scrittori, linguisti per creare una cultura unitaria nazionale. Alcuni linguisti uniscono l’urgenza di cercare una matrice linguistica comune all’esigenza di esplorare gli anni medievali: sarebbe opportuno recuperare la lingua d’uso all’interno di alcuni particolari tipi di testo che possiamo considerare più vicini alla lingua parlata (non certamente quelli di Dante e Boccaccio). Questi linguisti, allora, decidono di sfogliare i vecchi libri di ricette, che non sono opere di letteratura, ma opere che devono farsi capire. La storia della cucina nasce quindi da un’esigenza linguistica. Scoppia così la moda.
L’incontro tra storia dell’alimentazione e storia della cucina e i primi corsi universitari
Sebbene i due punti di partenza della storia dell’alimentazione e della storia della cucina siano diversi l’uno dall’altro, ciò non impedisce loro di incontrarsi nella seconda metà del Novecento.
Emblematico il percorso che porta al volume di Storia dell’alimentazione curato da Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari (1996-97): provenienti da percorsi diversi, i due storici raccolgono una serie di contributi dalla Preistoria all’Età contemporanea, che avrebbero segnato gli studi successivi, mostrando la potenzialità e la ricchezza del nuovo filone storiografico, inaugurato peraltro alcuni decenni prima
A livello di corsi accademici europei, il primo insegnamento di storia dell’alimentazione nasce proprio a Bologna, nel 2000. Il primo docente è Massimo Montanari.
Prima d’allora la storia dell’alimentazione è insegnata all’interno di altri corsi (Massimo Montanari è il primo in Europa, all’interno di Storia medievale e di Storia agraria medievale, a partire dal 1977); segue la Spagna dove il primo docente, sempre medievista, è Antoni Riera Melis.
Nell’ A.A. 2002/2003: nasce a Bologna il Master in «Storia dell’alimentazione», poi «Storia e cultura dell’alimentazione», fondato da Massimo Montanari e attualmente diretto da Antonella Campanini.
La nascita delle scienze gastronomiche
L’insegnamento delle scienze gastronomiche ha inizio nel 2004 con la fondazione dell’università di Pollenzo e l’apertura di alcuni corsi di laurea triennale (es. Parma) che si rifacevano al medesimo modello, costruito all’interno delle scienze agrarie.
La storia dell’alimentazione è parte integrante dell’insegnamento delle scienze gastronomiche, per sua natura interdisciplinare.
Con il D.M. 928-2017 nasce la Classe di Laurea in Scienze, culture e politiche della gastronomia, che l’Università di Bologna apre nell’a.a. 2021/22 presso il campus di Cesena.
I tacuina sanitatis
Fabrizio Lollini li ha definiti dei “manuali di wellness”, testi medici che dovrebbero servire ad aiutare le persone a stare bene, in cui viene presentato alimento per alimento.
Hanno alla base una traduzione latina (risalente probabilmente alla metà del XIII secolo) di un testo arabo dell’XI secolo redatto dal medico cristiano Ibn Butlan
e basato sulla teoria ippocratica.
Nel Medioevo erano considerati prodotti pregevoli da far decorare alle scuole di miniatura.
Ad oggi, esistono tre codici principali:
- ms. 4182 della biblioteca Casanatense di Roma: la storia dei suoi committenti e possessori è incerta;
- ms. series nova 2644 della österreichische Nationalbibliothek di Vienna, legato al vescovo conte di Trento Giorgio di Liechtenstein (grande motore culturale della sua piccola corte, e committente di numerose opere d’arte, tra cui i noti affreschi dei mesi di Torre Aquila al Castello del Buonconsiglio, spesso chiamati in causa come derivazione, o parallelo, delle illustrazioni dei tacuina ora in Austria e Francia)
- ms. nouvelles acquisitions latines 1673 della bibiothèque nationale de France di Parigi, posseduto da Verde Visconti (1352-1414), figlia di Bernabò visconti, signore di Milano.
Il testo dei tacuina e le loro raffigurazioni
Il contenuto: Tratto tipico dei tacuina in generale è la disinvoltura nella composizione e nel montaggio dei contenuti.
1) Il testo originario di Ibn Butlan non solo viene tradotto e semplificato,
2) ma si declina nelle varie copie italiane in forme linguistiche differenti;
3) si presenta in forme più complete o più ridotte; comprende o esclude singoli elementi o apparati. Non esistono due copie identiche.
Le miniature: Le miniature, probabilmente tutte di scuola lombarda,
- non sono riconducibili a un singolo autore;
- i volumi sono tra loro differenti come impostazione compositiva: quello di Parigi ospita più spesso eleganti architetture, esprime in modo più netto forme legate all’ambito alto della corte, laddove quello di Vienna tende a bloccarsi invece in modi più statici.
- Ma ci sono delle limitazioni rispetto alla loro verosimiglianza naturalistica: all’artista non interessa raffigurare la realtà (non c’è una volontà realistico-mimetica). L’autore si rifà a iconografie già date; è difficile che sia andato a verificare come effettivamente quella cosa si presentava in un determinato contesto. L’arte, anche quella naturalistica, almeno fino all’Ottocento, ha sempre posto un filtro tra la realtà e la sua rappresentazione. Ad esempio, Adamo ed Eva attorno all’albero del bene e del male è alla base di quasi tutti gli episodi che riguardano la raccolta da un albero; molte scene raffigurate nei tacuina sono tratte dalla letteratura cortese-cavalleresca: in particolare i soggetti che si ritrovano nei cicli dei mesi costituiscono la base per la maggioranza delle attività agricole.
- Oltretutto, lo spunto grafico rimane sostanzialmente immutato: non andrà mai a controllare de visu se, al cambiare dei tempi o dei luoghi, l’attività muta.
- Nello stesso modo, per assimilazione, vengono iterati schemi iconografici che sono applicati ad argomenti diversi: la battitura della spelta del Codice Casanatense, per esempio, è riciclata per l’orzo in quello parigino; così come le innumerevoli raccolte di frutti, nei tre codici, vengono riproposte con minime variazioni.
- A volte l’artista non ha avuto modo di conoscere direttamente certe situazioni: nella copia francese, il raccolto del riso è clonato da quello di un qualsiasi cereale, senza tener conto della specificità di coltivazione della pianta. Il riso viene mietuto alla maniera del grano, l’unica cosa sono i chicchi bianchi.
- Bisogna anche tenere conto dei fini strumentali dei committenti: il miniatore non può rappresentare la terra durante i periodi di crisi; essa dovrà sempre apparire rigogliosa e fertile, i frutti giganti, i contadini poveri ma sobri, per celebrare il buon governo e le virtù del committente.
Nella raffigurazione degli spinaci e del melograno, lo status sociale delle due donne è visibile dalla disposizione degli alimenti, oltre che dai vestiti (le maniche di colore diverso nella donna raffigurata a destra): gli spinaci si colgono direttamente a terra, mentre il melograno cresce in alto.
La scienza dietetica in Occidente: nascita ed evoluzione
Dietetica e cucina sono strettamente correlate. Le indicazioni mediche, però, non sono valide per tutti. Sembra una contraddizione, visto che la storia materiale sembra guardare alle società nel complesso. Però alcune cose sono state comunque tramandate su grande scala: molti usi inconsapevoli derivano da principi di questo sistema.
La dietetica nasce con Ippocrate, ma non venne più seguita alla lettera a partire dal XVII secolo, con la nascita della chimica. Ad oggi, diversi movimenti rifiutano il discorso chimico per tornare a quello strettamente alimentare (ma la medicina naturale oggi, benché di moda, non è direttamente sovrapponibile con quella antica).
Ippocrate di Cos, Galeno e il principio dei quattro elementi costitutivi dell’universo
Ippocrate – o chi veramente ha scritto quell’opera – è considerato il padre della medicina occidentale e della dietetica, che si sviluppa all’interno della riflessione e della pratica medica.
La cultura medica antica ha come premessa la filosofia e la fisica di Aristotele, in particolare il suo principio dei quattro “elementi costitutivi dell’universo” – fuoco, aria, acqua e terra – perfezionato poi dal medico romano Galeno (II secolo d.C.), che le organizzò in un sistema coerente che sarà alla base della medicina fino al XVII secolo.
L’idea-base è che la “natura” degli esseri viventi (uomini, piante, animali) è data dalla combinazione di quattro “qualità”, derivate dalla combinazione (a due a due) con i quattro elementi di base:
- Aria + Fuoco → Caldo
- Terra + Acqua → Freddo
- Fuoco + Terra → Secco
- Acqua + Aria → Umido
Le quattro “qualità” si contrappongono a due a due:
* caldo vs freddo
* secco vs umido
Ogni qualità può essere presente negli organismi a diversi livelli di intensità: primo, secondo, terzo, quarto “grado”.
Noi viviamo in un sistema globale, ma in questo il piccolo uomo e il piccolo animale hanno un microcosmo corrispondente al macrocosmo universale: questi rapporti di caldo, freddo, secco e umido si ritrovano anche all’interno di noi stessi e di cosa mangiamo. Infatti, a ogni elemento corrisponde:
* un “umore” (liquido) in rapporto con un organo corporale (sangue/cuore; bile gialla/fegato; bile nera/milza; flegma/testa;
* un “temperamento” (sanguigno; bilioso; malinconico (infatti, chi è malinconico è perché ha la bile nera; flemmatico)
* un’età della vita (infanzia-adolescenza; età adulta; maturità; vecchiaia)
* una stagione dell’anno;
* un punto cardinale
La dietetica rende fisico ciò che per noi è uno stato d’animo: infatti, il temperamento è dato da un equilibrio tra i vari umori, ma se c’è un eccesso di qualcosa si può diventare, ad esempio, sanguigno, bilioso (= iroso), etc. Lo squilibrio è indice di stato di malattia che deve essere temperato/riequilibrato, causato da diversi fattori, interni ed esterni:
- l’età (giovani troppo umidi e caldi);
- il genere (femmine troppo umide e fredde, tantoché le mestruazioni servono per espellere mensilmente l’umidità;
- il clima;
- la stagione;
- uno stato di malattia
Non sempre a certi squilibri si può rimediare (il contadino caldo e secco non può andare dall’altra parte del mondo a farsi un iglù). Ma, quando si può, lo si fa agendo sulle res non naturales:
- aer (ambiente in cui si vive);
- cibus et potus;
- motus/quies;
- somnus /vigilia;
- repletio/evacuatio (espulsione o ritenzione degli umori);
- accidentes animae (affezioni dell’animo, passioni, stati psicologici → effetti fisici)
La cucina come intervento correttivo per gli squilibri
Il cibo e la bevanda, res non naturales, sono lo strumento fondamentale con cui si può intervenire per correggere lo squilibrio e ripristinare l’equilibrio fra le 4 qualità. Esempio: se una malattia deriva da (e procura) un eccesso di calore, si devono scegliere cibi “freddi”, e viceversa.
Supponiamo un individuo sano: che cosa deve mangiare? La questione sarebbe facile se in natura esistessero cibi perfettamente equilibrati, ma non esistono: è necessario crearli attraverso la cucina, che è un’arte della manipolazione e della combinazione, che si propone di modificare la natura.
- Intervento 1 – Le tecniche di cottura: il tipo di cottura deve corrispondere (con funzione correttiva) alle qualità dell’alimento. Ad esempio: le carni “secche” devono essere bollite, le “umide” arrostite. Un proverbio: “Gallina vecchia fa buon brodo”, dove vecchio = secco;
- Intervento 2 – Abbinamenti: accostare prodotti di qualità contraria per costruire un piatto equilibrato. Esempio: la frutta (fredda e umida) accompagnata da prodotti caldi e secchi (il melone con i salumi, le pere col formaggio; in alternativa, la pera fredda si può cuocere, preferibilmente col vino, il melone si può accompagnare con sale e/o con vino forte dolce). In questo sistema, il caldo è meglio del freddo: la digestione necessita calore (la cosa fredda si pianta sullo stomaco).
- Intervento 3 – L’ordine delle vivande: cominciare con cose che “aprono lo stomaco”, terminare con cibi che lo “sigillano”. Esempio: all’inizio cibi dolci o acidi; alla fine aspri, astringenti.
Molti usi sono rimasti invariati fino a noi, segnale della nascita prima della teoria e poi della pratica.
La teoria alla base è che la dietetica ha bisogno della gastronomia, il medico e il cuoco lavorano insieme (anche se è il signore che “comanda” sul cuoco, il quale spesso non riesce a fargli ingurgitare quello che dovrebbe; tantoché la parola “ricetta” si riferisce sia a cuochi che a medici). I trattati di dietetica contengono numerose indicazioni gastronomiche (il “medico gastronomo”; il “cuoco galenico”).
Antimo: cosa dimostra la fonte
Nel VI secolo, il medico greco Antimo indirizza l’epistola De observatione ciborum al re dei Franchi Teoderico. L’opera è per la maggior parte dedicata alle carni e al loro utilizzo. La “mediterraneità” di origine di Antimo resta in secondo piano rispetto all’ossequio che dimostra nei confronti del personaggio illustre a cui si rivolge.
Dalla lettura della fonte emerge che:
- tutto quello che è più vicino alla natura e meno artificiosamente modificato fa meno male di quello su cui i cuochi sono passati più elaboratamente;
- la chiave è la moderazione. Non va bene neanche l’eccesso nella rinuncia nei monasteri femminili;
- diversi tentativi di portare all’equilibrio le carni (come quella di castrato, ad esempio)
Le spezie nella cucina medievale
Mentre la cucina romana aveva prestato attenzione solo al pepe, nel Medioevo si affacciano sulla tavola nuove spezie, come zenzero, cannella, chiodi di garofano e galanga. Il loro impiego trasmigra, come spesso avviene, dal campo prettamente medicinale (erano menzionate già nei trattati di dietetica del VI secolo) a quello della gastronomia.
La loro presenza era attestata già nel IX-X secolo nei mercati di Italia e Fiandre. L’afflusso maggiore però si ha dall’XI secolo in poi, grazie al contatto ravvicinato dei crociati con l’Oriente, che garantisce la fortuna dei mercanti veneziani.
Perché si utilizzano le spezie?
- Non per camuffare il gusto di carni e vivande avariate o mal conservate, né per conservare la carne: i ricchi potevano permettersi il consumo di carne fresca di giornata, macellata su richiesta del cliente nelle botteghe; ancora, le spezie venivano aggiunte non a crudo, ma dopo la cottura. Inoltre, esistevano altri sistemi per la conservazione della carne (come la salagione, l’essiccazione e l’affumicatura).
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Esistono delle convinzioni medico-dietetiche: il calore delle spezie favorisce la digestione dei cibi e la loro cottura nello stomaco. Se sono calde e secche il giusto riequilibrano pasti freddi e umidi, facendo da cappa di calore per la digestione (vengono persino confezionate spezie confettate da distribuire a fine pasto, come lo zucchero, venduto dallo speziale, o spezie da camera, molte spezie finiscono nelle salse).
Aldobrandino da Siena (sec. XIII) sostiene che la cannella ha il merito “di aiutare le facoltà del fegato e dello stomaco” e di “aiutare a cuocere bene la carne”. Lo zenzero “ha capacità di aiutare lo stomaco freddo […] e aiuta a cuocere bene la carne”. I chiodi di garofano “aiutano le facoltà dello stomaco e del corpo, […] debellano la ventosità e i cattivi umori […] generati dal freddo, e aiutano a cuocere bene la carne”: cuociono quindi sia da fuori (gli alimenti nel momento della cottura) che da dentro (attraverso la loro azione nello stomaco). I costumi gastronomici sono debitrici della scienza, che viene utilizzata per supportare gusti e piaceri nuovi, in una sorta di teorizzazione post-pratica: nella scienza si cerca la rassicurante conferma per giustificare la propria ansia di novità.
* Bisogno di lusso e ostentazione: il prezzo delle spezie le rende un oggetto di desiderio; chi le utilizza sottolinea la propria posizione sociale (e sono soprattutto i borghesi, proprio perché ceto in ascesa, a volervi ricorrere). Nella sua requisitoria contro le vanità mondane, intitolata De contemptu mundi, papa Innocenzo III si era scagliato contro le ghiottonerie e le insulse passioni gastronomiche dell’uomo, scagliandosi anche contro le spezie. - Concentrano su di sé valori di sogno, quelli di cui è carico l’Oriente, che nelle raffigurazioni cartografiche era contiguo al paradiso terrestre.
Ciò che è buono fa bene
Nel procurare benessere al paziente attraverso l’arte correttiva della cucina, il cuoco si impegnerà anche a confezionare pietanze buone al gusto, perché la bontà è segnale di efficacia, di migliore nutrizione.
- Aldobrandino da Siena (sec. XIII): «come disse Avicenna, se il corpo dell’uomo è sano, tutte le cose che gli danno miglior sapore alla bocca sono quelle che lo nutrono meglio».
- Maino de’ Maineri (sec. XIV): I condimenti e le salse “coi quali sono conditi gli alimenti, hanno una non piccola utilità nel regime di salute: perché con i condimenti essi sono resi più piacevoli al gusto e di conseguenza più digeribili. Perché ciò che è più piacevole va meglio per la digestione: così con i condimenti si aggiunge bontà e si corregge la nocività”.
La qualità della persona
I trattati medici, da Ippocrate in poi, prescrivevano un’alimentazione secundum qualitatem personae. Ma la qualità, che da Ippocrate in poi era determinata dai caratteri dell’individuo e dall’ambiente in cui operava, nel basso Medioevo diviene un dato sociale.
Il contadino svolge lavori manuali, quelli più pesanti, adatti, appunto, alla parte inferiore della società. Questi lavori producono calore, quindi i contadini potranno mangiare qualsiasi cosa e la digeriranno tranquillamente, perché stanno producendo calore con il loro corpo e saranno facilitati nella digestione.
I ceti elevati, che oramai nel basso Medioevo non vanno più in guerra, svolgono invece un’attività sedentaria: il loro corpo non produce calore, quindi avranno più difficoltà a digerire; per questo motivo devono mangiare cibi leggeri, aggiungendo le spezie che facilitano il processo.
Qui è cambiato qualcosa dal punto di vista concettuale: i corpi sono corpi sociali; le ideologie e le mentalità influenzano la scienza medica.
La grande catena dell’essere
È una classificazione dell’ordine naturale che postula, quasi come una teoria scientifica, un certo parallelismo tra la società umana e la società naturale, descritte come catene verticali fatte di gradazioni (a volte alcuni animali sono intermedi, tra due livelli, come le balene e i delfini; ci sono quadrupedi che hanno le zampe a terra ma respirano aria: tra questi, il vitello è il quadrupede più apprezzato, considerato più nell’aria, mentre il maiale si rotola nel fango, quindi fa più parte dell’elemento terra).
I ricchi devono mangiare cibi preziosi, magari quelli che occupano i gradini più alti della grande catena dell’essere (es. frutta fresca, volatili come fagiani e pernici, che volano in alto); i poveri cibi rozzi e comuni (come erbe e arbusti, bulbi e radici che crescono più in basso, aglio, porri, legumi, cipolla, zuppe, cereali inferiori, cervi e cinghiali che sono più a contatto con il suolo).
È un’idea ideale di alimentazione, connessa alla ripercussione nell’universo, a un senso di ordine macrocosmico che si riflette anche da come mangiamo.
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L’alimentazione fra tarda Antichità e alto Medioevo
I romani e i greci non erano vegetariani: una questione di religione e di semplice previdenza
Esiste una certa somiglianza tra l’alimentazione romana e quella greca.
Spesso si dice che i romani erano vegetariani: non è vero; semplicemente caricavano di valore aggiunto alimenti vegetali (ovvero, ne mangiavano di più), ma si nutrivano anche di carne e prodotti animali. Oltretutto, spesso bisogna chiedersi quale sia la religione dei soggetti che andiamo a studiare: il politeismo, ad esempio, implicava la pratica di sacrifici animali, il che esclude il vegetarianismo: la divinità sente il profumo che sale dalla carne sacrificata che viene fatta arrostire, ma la carne deve poi essere consumata dagli uomini; sarebbe stato infatti assurdo non mangiarla: era come dire che non si aveva a pregio il dono offerto alla divinità).
Quelli antichi restano comunque regimi alimentari molto vari, in maniera tale da garantire approvvigionamento alimentare qualora venisse a mancare, per qualche ragione, un alimento.
La triade mediterranea: grano, vite e ulivo
La triade “mediterranea” (sebbene questo aggettivo sia da prendere con le pinze; la dieta mediterranea viene codificata in realtà nel Novecento): grano, vite e ulivo.
Elemento centrale è il pane: Omero (secc. IX-VIII a.C.) definiva gli uomini «mangiatori di pane».
L’ulivo si coltiva e dà frutti, ma non se ne abusa. L’olio di oliva serve soprattutto in medicina per guarire e nella cosmesi per realizzare unguenti (è infatti un prodotto che aiuta a illuminare). Bisogna tuttavia capire di che cosa sappia l’olio di oliva nel Medioevo: le olive erano diverse da quelle di oggi, così come le tecniche di produzione; il gusto doveva essere molto più forte (ce lo dimostrano alcuni trattati, che avvertono circa l’eccesso di olio: qui, gli autori scrivevano infatti che non bisogna condire molto, altrimenti l’alimento avrebbe avuto il sapore “di olio”).
Già Plutarco associò insieme questi prodotti: già li associa insieme: i giovani ateniesi giurano fedeltà alla patria, in cui “crescono il grano, la vite e l’ulivo” (dalla Vita di Alcibiade). Dalle Metamorfosi di Ovidio (secc. I a.C.-I d.C.): “Ogni cosa che le mie figlie toccavano si trasformava in grano, o in vino puro, o in oliva” (chi parla è Anio, re e sacerdote di Delo).
L’esistenza di questa triade, tuttavia, non impedisce a questi prodotti di coesistere con orticoltura e pastorizia, soprattutto ovina.
Il valore della misura e della moderazione in età romana (+ fonti nelle quali si evince)
Tutto è ammesso nella cultura alimentare greca e romana, ma tutto va consumato con misura e moderazione, tantoché l’eccesso alimentare dei barbari, soprattutto della carne, sarà notato come un elemento negativo; anche la varietà è nociva, perché vuol dire che si mettono in tavola tante cose diverse.
Fonte: Orazio (Satire), I sec. a.C.
«Ascolta, adesso: parliamo dei vantaggi che comporta il vivere frugale […]. In primo luogo, un’ottima salute. Non credi che la varietà del vitto sia nociva all’uomo? Ricòrdati allora di quel cibo genuino che un giorno si lasciò tranquillamente digerire; mentre, mescolando l’arrosto col bollito, i frutti di mare con i tordi, tutte queste squisitezze passeranno in bile, ed un muco vischioso metterà lo stomaco in subbuglio. Non vedi come ognuno, da una cena varia, imbarazzante, s’alzi pallido?».
Fonte: Svetonio (Vita dei Cesari), I-II sec. d.C.
Svetonio scrive una biografia di Augusto, ma potrebbe non aver detto la verità. Ci parla, infatti, dei valori della società romana, ottimamente distillati nella figura dell’imperatore Augusto.
[Augusto] «Spesso interveniva ai banchetti in ritardo e se ne andava in anticipo, in modo che gli invitati cominciavano a cenare prima del suo arrivo e rimanevano dopo la sua partenza. Offriva di solito una cena di tre portate e, quando la voleva molto abbondante, una di sei, senza eccessiva spesa ma con estrema cordialità. […] Gli piaceva particolarmente il pane di seconda qualità, i pesciolini piccoli, il formaggio di mucca, premuto a mano, e i fichi secchi primaticci e settembrini».
Le culture romana e barbara si guardano (+ fonti da cui ciò si evince)
Succede nella prima metà del III secolo (ma anche prima), quando nuovi popoli vengono alla ribalta entro gli spazi dell’impero.
Tra gli scrittori latini, ciò incoraggia a ribadire con forza il carattere romano delle scelte alimentari, come nelle biografie degli imperatori contenute nella Historia Augustae, una raccolta di biografie d’imperatori realizzata da diversi autori nel IV secolo. È una fonte preziosa perché ci dicono quali erano i valori romani privilegiati (come la misura e la moderazione) e in che modo fossero distillati nelle figure dei vari imperatori, che li hanno fatto propri secondo gradi e modalità diverse.
I personaggi che si vuole rappresentare in chiave positiva sono anche eccellenti portatori dei valori alimentari romani più significativi, mentre i personaggi che si vogliono screditare sono spesso o di estrazione germanica, come Massimino il Trace, o imperatori che hanno assimilato un modo di nutrirsi accostabile al modello barbarico.
Fonte: Cesare (De bello gallico), I sec. a.C.
I germani “non praticano il lavoro dei campi e la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio e carne”.
Fonte: Tacito (Germania), I-II sec. d.C.
[i Germani] «come bevanda hanno un liquido ricavato dall’orzo o dal frumento, fermentato in modo analogo al vino; i più vicini alla riva del Reno commerciano anche il vino. Il loro cibo è semplice: frutti selvatici, selvaggina appena cacciata, latte cagliato; riescono a soddisfare la fame senza elaborati preparativi e senza ghiottonerie. Nei confronti del bere non sono ugualmente temperanti: se li si asseconda nella propensione a ubriacarsi offrendo loro quanto vino vogliono, si lasceranno vincere più facilmente dal vizio che dalle armi».
Tacito fa una sorta di complimento ai germanici (“senza ghiottonerie”). Infatti, non ama la sua civiltà, Roma, che sta ricercando troppo il lusso. Inoltre, anche i costumi sociali sembrano essere in declino, tantoché nella Roma di età imperiale viene varata una legge, la quale prevede che se si ha il sospetto che una donna abbia bevuto, un suo parente ha il diritto di baciarla per controllare lo stato dell’alito. La donna era ritenuta più vicino alla natura e meno in grado di controllarsi (il serpente si era rivolto ad Eva…). Il vino aveva una forza paragonabile a quella maschile; se veniva ingurgitato da una donna era perché questa desiderava il seme maschile, ma non quello del marito, pertanto il consumo di vino era associato all’adulterio.
Fonte: Procopio (De bello gothico), sec. VI
I lapponi “non bevono vino e non ricavano alcun cibo dalla terra […] ma si dedicano solamente alla caccia, uomini e donne”.
Fonte: Jordanes (Gotica), sec. VI
I goti minori conoscono il vino ma preferiscono il latte; vi sono popoli scandinavi “che vivono solamente di carni”; gli unni esercitano la caccia come unica attività; i lapponi “non ricercano cibo dai grani della terra, ma vivono di carni selvatiche e delle uova degli uccelli”.
“Ricercare il cibo dai grani della terra” significa essere collocati in un contesto di civiltà, dove i grani devono essere rielaborati: infatti, ancora Procopio scrive, parlando dei mauri, che si nutrono sì di cereali (frumento e orzo) ma “senza farli cuocere e senza ridurli in farina”, mangiandoli “allo stesso modo degli animali”. (passo “l’invenzione del cibo”).
L’immaginario greco/latino e quello barbarico
IMMAGINARIO GRECO/LATINO
Fonte: Esiodo
Ai tempi di Crono “gli uomini vivevano come dei […] e la fertile terra dava spontaneamente molti e copiosi frutti”.
L’agricoltore è visto colui che con l’aratro e il vomere va a ferire la madre terra, quindi il suo gesto, sebbene ci permetta di raccogliere il cibo dalla terra, è intrinsecamente violento.
Fonte: Varrone
I primi animali addomesticati furono le pecore.
Fonte: Pitagora
L’universo ha inizio dal pane.
IMMAGINARIO BARBARICO
Fonte: l’Edda poetica (raccolta di carmi mitici ed eroici messa per iscritto nell’alto Medioevo norreno, che raccoglie gli usi quotidiani di uomini e dei)
* «Andhrimnir fa in Eldhrimnir / Saehrimnir bollire, / la migliore delle carni; e questo ben pochi sanno: / con che cosa si nutrano gli “scelti”», dove Andhrimnir è il cuoco e Eldhrimnir il grande paiolo.
* «Heidhrun si chiama la capra che sta ritta sulla casa di Herjafodhr / e bruca le fronde di Laeradhr; / il recipiente riempirà, lei, del nettare splendente: / quel bere non può mancare».
Nell’Edda ciascun essere (anche animale) può avere un nome.
Il Saehrimnir viene chiamato da Montanari “Il grande maiale”. Il prefisso “Saehr” richiama il mare; potrebbe fare riferimento a un animale marino. Ma il fatto che Snorri abbia dato la spiegazione di un maiale fa pensare che all’epoca dovesse apparire come un maiale. Sta di fatto che è una carne eterna che non finisce mai.
Se si accettano le spiegazioni del secondo passo fornite dall’Edda di Snorri (dove sono presenti spiegazioni dell’Edda poetica), si scopre che quel recipiente «è così grande che tutti gli eroi si ubriacano».
Anche Heidhrun continua a produrre il nettare splendente: forse si sta facendo riferimento al latte fermentato (kumis)?
La popolazione nomade che si sposta continuazione potrebbe anche non essere in sicura di trovare il suo cibo, motivo per cui scatta il desiderio di avere delle certezze.
Le biografie degli imperatori: un genere interessante…
Le biografie degli imperatori romani sono una fonte preziosa perché ci dicono quali erano i valori romani privilegiati (come la misura e la moderazione) e in che modo fossero distillati nelle figure dei vari imperatori, che li hanno fatto propri secondo gradi e modalità diverse.
Fonte: La Historia Augusta
È una raccolta di biografie d’imperatori realizzata da diversi autori nel IV secolo. È una fonte che, ovviamente, parteggia per i romani.
- Didio Giuliano: Chi si è fatto servire “ostriche, pollame e pesci” è venuto meno a quel precetto che suggerisce di non mescolare le cose.
- Gordiano: È “goloso” di valori romani, quali verdura e frutta fresca.
- Settimio Severo: La carne non veniva caricata di alcun tipo di valore. Ciò vuol dire che nel IV secolo l’equazione barbaro = carne è già diffusa.
- Clodio Albino: Questo passo su Clodio Albino è la prova che il biografo non sta dicendo la verità. È un romano con valori romani, ma è un usurpatore: non può quindi essere rappresentato coe un moderato.
- Gallieno: va contro natura e stagionalità.
- Massimino il Trace: idem con Massimino il Trace, attraverso la cui descrizione viene documentata la personalità del barbaro. Lui, infatti, è il primo barbaro che arriva e mangia così.
La fusione tra culture alimentari romane e barbariche: i valori romani non si estinguono
Se il vincitore (il “barbaro”) porta con sé e tende a imporre la propria cultura, anche in senso alimentare (carne), tuttavia i valori del vinto (il Romano) non si estinguono.
Il fenomeno è reso possibile dal prestigio della tradizione antica e dalla presenza di un terzo elemento, ovvero il cristianesimo, che si basa sì su quel grano, quel vino e quell’olio che caratterizzavano la cultura greca e romana, ma è onnivoro e non proibisce tutto. Infatti:
**Fonte: Girolamo di Stridone (IV-V sec.) **
Nel 395 Girolamo di Stridone, uno dei Padri della Chiesa latina, indirizza una lettera alla vedova Furia, esortandola a rinunciare a nuove nozze e a mantenere la castità.
La vedova è giovane e calda: meglio che beva acqua fredda (per raffreddarsi), ma se ce la fa beva pure il vino; in fin dei conti ciò che è importante è la moderazione.
Fonte: Possidio (Biografia di Agostino), IV-V sec.
Erbaggi: mangiare alla romana.
Era un amico e un seguace di Agostino.
Il discorso conviviale è importante. Se sta pranzando con qualcuno che ha bisogno di carne perché questa è ricostituente, allora Agostino la mangerà con lui.
In questo passo è visibile l’antitesi/conflitto con cultura ebraica.
**Fonte: La regola di Benedetto da Norcia (prima metà VI sec.) **
È la principale regola monastica, destinata a grande fortuna nei secoli successivi.
Non è previsto che si saltino i pasti (anche eccesso in moderazione).
È proprio in questo periodo che viene codificato il peccato di gola. È il primo peccato compiuto da Adamo ed Eva? O è la lussuria? La superbia? Ma il cristianesimo è onnivoro, quindi non si può dire che si è compiuto peccato perché si è mangiata una determinata cosa: il peccato di gola sussiste nell’eccesso rispetto alla necessità (nella quantità, negli orari, nell’eccessiva varietà, nel mangiare quando non serve).
Ma quando è il corpo che richiede di mangiare? Non si può chiedere a tutti l’astensione: tutti sono diversi. Infatti:
La cultura dei vincitori e la vittoria della carne: un alimento per tutti ma con qualche riserva
A poco a poco, valori alimentari barbari e romani si affiancano:
- i boschi (soprattutto nelle zone a dominazione longobarda) iniziarono a venir misurati nel loro impatto reale a livello produttivo (ad esempio, quanti ettari di bosco erano necessari per mettere in piedi un consistente allevamento di maiali, che necessitano di ghiande e altri frutti per ingrassare?). Si tratta di un calcolo analogo a quello per i campi (misurati in grano), per le vigne (in vino), per i prati (in fieno);
-
tutti possono usufruire dello spazio incolto, sia perché l’allevamento è prevalentemente allo stato brado, nei boschi e nei pascoli naturali, sia perché la caccia è aperta a tutti. Lo spazio alimentare è ancora aperto e non recintato. Ognuno riesce, quindi, a integrare la carne nella propria alimentazione (ad esempio il contadino, che mette la trappoletta per la lepre).
Di conseguenza, la carne diventa per tutti un cibo quotidiano, un valore “normale”.
Ma c’è carne e carne: anche se tutti la mangiano, nella dieta aristocratica il ruolo della carne è speciale, perché il signore è di mestiere un guerriero, e la carne è ritenuta lo strumento alimentare della forza fisica. Simbolo del potere è soprattutto la selvaggina grossa, status-symbol alimentare del guerriero: cinghiali, cervi, orsi.
La caccia è l’immagine e la rappresentazione della guerra: - in senso tecnico: armi, uso del cavallo, strategie. Iniziazione dei giovani;
- in senso simbolico.
Eginardo e La vita Karoli (IX sec.)
Nel IX secolo, il fedele Eginardo scrive la biografia di Carlo Magno. Ne esce il ritratto di un sovrano pio, difensore dei valori e degli interessi della cristianità, che potremmo definire il primo sovrano «europeo». Dietro la patina cristiana e dietro l’immagine classicheggiante dell’incoronazione imperiale, emergono valori legati alla concezione germanica del potere.
È quindi una biografia tendenziosa, quasi agiografica.
- “senza essere sproporzionato”: senso della misura;
- è un uomo che si adatta;
Negli ultimi anni della sua vita iniziò a soffrire di gotta.
“Più di tre volte”: tanto il vino era sempre annacquato.
Liutprando da Cremona, L’ambasceria a Costantinopoli (sec. X)
Mentre in Occidente i valori “barbari” dilagano, in Oriente si trova un custode dei valori classici e cristiani: si tratta dell’imperatore d’Oriente, descritto attraverso gli occhi di un ambasciatore orientale.
Da giovane, Liutprando si trova a servire il re Berengario, che ha bisogno di mandare un ambasciatore a Costantinopoli senza spendere troppo denaro (in un’ambasciata precedente a questa cui ci riferiamo). Liutprando deve sottoporsi quindi a un corso intensivo di greco; una volta tornato dall’ambasciata, sebbene sia convinto che sarà accolto con tutti gli onori, viene invece messo da parte. Questa profonda mancanza di rispetto se la legherà al dito. Sarà rivalutato sotto la dinastia Ottoni, sotto la quale redige la lettera che prendiamo in esame, nella quale sono contenute le sue osservazioni circa la sede degli imperatori d’Oriente.
Questa ambasciata non è stata per lui una bella esperienza; ha persino litigato con l’imperatore ed è stato trattato come l’ultimo degli individui.
- definisce ubriachi loro mentre è lui ad essere di origine barbara;
- “unta di olio e aspersa di liquido di pesci”: noi pensiamo che il liquido in questione sia il garum. Ma sembra che non lo conosca neppure, nonostante esso continui ad essere importato in Occidente, sebbene non per usi alimentari: forse vuole distanziarsi da quella cucina? O non lo conosce davvero? Ma Liutprando ha letto molta letteratura latina: sarebbe strano. Quindi, o non vuole mostrare di conoscerlo perché non gli sembra affatto una prelibatezza, o non lo conosce davvero. Forse, invece, non lo menziona perché vuole deprivare di romanità i bizantini.
- l’imperatore attinge a uno stereotipo dei barbari. Nell’insulto c’è implicito anche che i romani sono loro (i bizantini). Questi occidentali agli occhi degli orientali sono evidentemente imbarbariti.
“nenie”: nonostante Liutprando sia un vescovo.
Aglio, cipolla, porri: alimenti da contadini. Eppure, sono anche alimenti da romani: vuol dire che in Oriente sono rimasti indietro di secoli oppure che, volendo aggrapparsi alle radici della romanità, hanno continuato a mangiare alla maniera romana?
Inoltre, nel passo non si capisce molto se Liutprando sia sarcastico o meno. Forse sta enfatizzando solamente alcuni aspetti.
La nuova identità dei barbari (e, di contro, le apparenti rimanenze di quella romana) è più visibile da fuori perché emerge maggiormente dallo scontro di cultura.
Produzione alimentare in campagna: l’esempio dell’azienda curtense
Un’idea di Europa si è formata anche attraverso gli scambi di idee, che circolano insieme agli uomini. Una delle testimonianze più notevoli è costituita dall’organizzazione della produzione agricola, nella quale si susseguono modelli simili in quasi tutto l’Occidente.
I contratti agrari sono infatti fonti fondamentali per la storia dell’alimentazione.
Il modello dell’azienda curtense e della contrattualistica agraria nasce tra la Loira e il Reno, ma da lì comincia a diffondersi come una “buona idea” anche, ad esempio, in Inghilterra. Essa è espressione del dialogo che caratterizza il mondo occidentale.
Dalla villa tardoromana alla concentrazione delle terre nelle mani di pochi proprietari
È una vasta azienda agricola per il cui funzionamento il proprietario prevedeva in modo praticamente esclusivo l’utilizzo di manodopera servile, veri e propri schiavi senza diritti legati alla terra che costituivano un supplemento di proprietà.
Quando cominciarono ad arrivare le prime invasioni, la manodopera schiavile e servile cominciò a diminuire, perché oramai erano i romani a dover diventare i servi.
Le incursioni indussero i piccoli proprietari a disfarsi delle proprie terre e a mettersi sotto la protezione dei grandi proprietari, che inglobarono le terre dei nuovi protetti. Si dice che la chiesa abbia esercitato un diritto di proprietà sulla maggior parte delle terre in questo momento, le quali le venivano donate anche da personaggi che erano stati convinti dai confessori a cedere la propria proprietà in cambio della vita eterna. In realtà c’è un problema generale legato alla conservazione di documenti: in questo periodo, la chiesa è l’unico ente che si pone come obiettivo la conservazione della propria documentazione per avere i propri diritti messi per iscritto, sancendo la nascita dei primi nuclei archivistici a livello territoriale. I proprietari terrieri laici, invece, non conservavano i loro archivi. Noi non riusciamo quindi a determinare l’estensione di questo tipo di proprietà, anche perché, magari, essa era regolata da patti orali.
Con i Longobardi si pose un nuovo problema: se ci sono grossi proprietari terrieri e gli schiavi sono pochi in proporzione all’epoca precedente, chi va a coltivare la terra? Per gli studiosi fu abbozzato in questo periodo un sistema “pre-curtense”: una parte della terra, anziché farla coltivare ai loro pochi schiavi, la cedono tramite un patto agrario a contadini liberi che in cambio rendono un canone in natura.
L’azienda curtense di epoca franca
In epoca franca resta la ripartizione in due parti: dominicum (gestione diretta) e massaricium (gestione indiretta).
* Il dominico è la parte migliore delle terre e se ne occupano gli schiavi, detti prebendarii poiché ricevono dal proprietario la prebenda, che corrisponde al necessario per vivere (in sostanza, il vitto e l’alloggio).
* A coltivare il massaricio sono invece i coloni liberi, o massari, legati al proprietario da contratti di vario genere, ma tutti più o meno riconducibili a un modello: concessione del manso (la porzione del massaricio) in cambio di: a) corresponsione di canoni parziali – dunque, una percentuale sul raccolto, che varia in base alla tipologia dei prodotti; b) un donativo annuale simbolico; c) corvées, prestazioni d’opera da compiere sulle terre del dominico nei momenti di particolare necessità, quali per esempio la vendemmia e la mietitura.
Le corvées furono un’invenzione geniale: esse erano delle prestazioni all’occorrenza che rappresentano la trovata che razionalizzò l’intero sistema: permettevano al proprietario di evitare di mantenere stuoli di servi o schiavi che risulterebbero inutili nei periodi morti dell’anno agricolo e al tempo stesso crearono una coesione tra le diverse parti della proprietà.
Fonte: Il contratto di livello, una peculiarità italiana (anno 854)
In Italia esisteva un tipo di contratto, quello di livello. Inventato in epoca romana (in seguito a una norma emanata nel 368 dagli imperatori Valentiniano e Valente) e diffusosi nell’Italia del sistema curtense, esso era stipulato tra il proprietario e il contadino e aveva una durata di 29 anni (una cifra strana, che era però legata a una faccenda legale: il limite da non oltrepassare era quello dei 30 anni, dopo i quali sarebbe scattato l’usucapione).
In questa fonte, la contessa Adelburga concede in locazione a Ermenperto del fu Raginaldo alcune sue terre ubicate nel territorio di Marzaglia, presso Modena:
La fine del sistema curtense: l’inizio della signoria rurale/territoriale di banno
Il fenomeno dell’azienda curtense sparisce dopo il periodo carolingio. Perché? La sua decadenza è stata fatta risalire a un insieme di concause:
dell’azienda curtense vale per il periodo carolingio, poi sparisce. Perché?
* intorno al IX-X secolo quando, in concomitanza con le seconde invasioni barbariche, la piccola proprietà entrò definitivamente in crisi e i privilegi signorili cominciarono ad affermarsi. I proprietari recinsero le proprietà, tecnicamente si dice che le “incastellano”, ma così facendo incorporavano anche terre di proprietà altrui e uomini che non erano loro dipendenti o loro servi, ma semplicemente si trovavano a vivere e a lavorare in territori collocati tra l’uno e l’altro dei mansi incastellati (il fenomeno è chiamato «frittata con i fagioli» da Giuseppe Sergi. A quel punto si parla di «signoria rurale» o «territoriale di banno», su cui il signore esercitava il proprio potere e le proprie prerogative;
* la faccenda del recintare portava con sé la riduzione degli spazi incolti (messi quindi a coltivazione), a scapito delle aree boschive. Però i signori a caccia continuavano ad andarci: gli spazi per garantire quest’attività vennero recitati e nacquero le prime riserve di caccia. Questo causò un problema ai contadini, che nei boschi andavano a raccogliere la legna o a mettere una trappoletta per garantirsi un approvvigionamento carneo: la dieta media del contadino, quindi, si impoverì per mancato accesso all’area boschiva. Il signore poteva decidere di garantire l’accesso all’area boschiva gratuitamente o dietro pagamento di un canone.
La ripresa delle città (XI secolo)
Nel passato, la città rivestiva un ruolo centrale nell’impero romano: era responsabile del coordinamento amministrativo, il perno della vita economica e politica dello Stato, su di essa convergevano le risorse agricole e le derrate alimentari (nei mercati e nei magazzini dei maggiori proprietari); la sua politica annonaria era presieduta da specifici funzionari.
Venuto meno l’impero, però, emersero altri punti di riferimento, come villaggi, abbazie, chiese e corti signorili: l’economia di sussistenza era basata sull’autoconsumo.
Nell’XI secolo anche gli spazi cittadini hanno lo stesso problema delle invasioni barbariche. Anche loro hanno necessità di essere recintate. Ma chi comanda nelle città? Chi può decidere di recintarle? In teoria ci sarebbe un imperatore in carica, ma l’autorità è vagamente latitante. Allora le città decidono di riorganizzarsi. Chi prende in mano la situazione è il vescovo (città vescovili), l’unico con un po’ di autorità. Assistiamo quindi alla costruzione di mura (non più di legno) a spese del vescovo della città. I comuni, invece, compaiono quando nascono magistrature laiche (il consolato, ad esempio).
Città significa:
* luogo di abitazione e di lavoro, in cui un’autorità singola o collegiale veglia sul benessere collettivo e s’impegna ad assicurare il pane quotidiano tramite un approvvigionamento alimentare costante e politiche di stoccaggio oculate per i momenti difficili;
* mercato, che mette a disposizione dei cittadini i prodotti provenienti dal contado e, per coloro che possono permetterselo, anche da più lontano;
* comunità, persone che vivono insieme avendo ciascuna il proprio compito specifico: tra costoro, preponderante è il numero degli artigiani; al loro interno, alcune categorie svolgono mestieri aventi a che fare con la produzione, la preparazione e il commercio del cibo.
La autorità cittadine si occupano di:
- tutela del paesaggio agrario;
- controllo dei processi di trasformazione dei prodotti (norme su mulini e forni);
- controllo sui mercati (ad esempio imponendo norme di differenziazione sui dazi);
- gli stessi proprietari terrieri che controfirmavano i contratti agrari erano gli stessi che detenevano il potere nelle città, quindi facevano gli interessi di quest’ultima, precisando i lavori che il contadino doveva svolgere e quali colture prediligere: il contadino divenne uno strumento di lavoro nell’ottica del profitto borghese.
La città inizia a godere di un potere e di un’influenza straordinaria, ma allo stesso tempo è quella maggiormente dipendente dai meccanismi del mercato e dalle calamità naturali: in caso di carestia e prezzi alti è la prima a subirne le disastrose conseguenze, con lo svuotamento dei mercati, la cacciata degli indigenti e la chiusura delle porte della città a chi moriva di fame. Anche i contadini affrontano condizioni rischiose, ma sono comunque a contatto con i mezzi di produzione.
Il pane quotidiano: l’importanza dell’approvvigionamento cerealicolo
Il pane è un prodotto decisivo dall’XI secolo, la cui menzione ricorre in maniera ossessiva: i coltivi sono chiamati terre di pane; il prodotto dei campi il raccolto del pane. Una quota viene richiesta per l’affitto o per la decima delle terre; le scorte dei contadini sono costituite dal pane; la comunità familiare è l’insieme di coloro che vivono a uno pane e uno vino. La sua mancanza indica uno stato di emergenza: poiché ad esso si è assuefatti, nei periodi di crisi produttiva si utilizzano ogni sorta di prodotti surrogati (pani di carestia). È un atto di disperazione controllata e un modo di rispondere razionalmente al momento di crisi di cui parlano anche i trattati agronomici della Spagna musulmana, che mobilitando il sapere della farmacologia, dell’agronomia e della dietetica, introducono regole importanti che evitano di cadere in errori fatali, come l’utilizzo di erbe velenose. Col passare del tempo, però, la sua mancanza diventa insostenibile e diventa impensabile sostituirlo con qualsiasi surrogato.
Ci sono diversi tipi di pane:
-
pane bianco: benché il frumento torni a guadagnare terreno tra il XI e il XIII secolo, esso rimane ancora un lusso concesso ai proprietari terrieri che lo richiedono come canone, e ai cittadini che lo trovano sul mercato (anche se gli strati inferiori urbani consumano anche cereali inferiori, castagneti e leguminose). È di gran lunga il cereale che gode di un’attenzione maggiore nei trattati di agronomia. L’agronomo Paganino Bonafede si sofferma a parlare solo della coltivazione del frumento, perché il resto è conosciuto. Per garantirsi il rifornimento di frumento si ricorre persino alle armi e alle requisizioni nelle campagne.
È presente tuttavia anche nei consumi rurali in Toscana, dove si cerca di imitare i modelli urbani, e nelle zone del Sud Italia, dove l’impianto produttivo ricalca ancora quello romano e dove il consumo di frumento si accompagna a quello dell’orzo; - pane nero/polente/zuppe/biade per il mondo contadino, ancora legato ai prodotti del podere.
L’autorità pubblica ha il dovere prioritario di assicurare un approvvigionamento alimentare tale da garantire la sopravvivenza del popolo. Questo significa, da parte dell’autorità pubblica, disporre di un potente strumento di controllo. Tuttavia, si tratta di un’arma a doppio taglio: nel momento in cui l’autorità pubblica incontra difficoltà nell’approvvigionamento, il rischio di rivolte e di sovvertimento dell’ordine aumenta sensibilmente. Per l’Europa, l’approvvigionamento alimentare maggiormente «sensibile» è quello cerealicolo.
Il pane non può mancare, altrimenti è un problema. Come assicurare quindi l’approvvigionamento cerealicolo? Bisogna evitare la dispersione: tutto il cereale prodotto in eccesso nel territorio, dunque quello che non serve all’alimentazione nel territorio stesso o alla nuova semina, deve pervenire ai granai cittadini: è normalmente fatto divieto di venderlo altrove. Il medesimo discorso vale per i mugnai, che lo riducono in farina per renderlo utilizzabile: anch’essi lavorano esclusivamente per il fabbisogno di quel territorio e di quella città e non possono esportare le loro farine.
Vengono anche fissati incentivi per chi importa “grani forestieri” a beneficio della città: costui usufruisce di agevolazioni fiscali sui dazi e, normalmente, anche di una simbolica ricompensa morale che fa di lui un benefattore della patria.
C’è una grande attenzione a come deve essere fatto il granaio: vengono lanciati allarmi se ci sono cali di produttività o se piccoli animaletti lo stanno distruggendo. A Bologna c’è anche l’ufficio del pane nel Medioevo, studiato da Francesca Pucci Donati.
L’attenzione al prezzo del pane è un ulteriore punto cardine del sistema di regolamentazione cittadina: le sue inevitabili fluttuazioni, soggette alla maggiore o minore disponibilità di materia prima, avvengono comunque entro intervalli prestabiliti dall’autorità e non possono oltrepassare certi limiti, in modo da assicurare a ognuno di non restarne privo neppure nei momenti peggiori.
I forni delle città
In città molte case non hanno il forno; spesso i cittadini lo preparano a casa per poi portarlo al forno per la cottura; uso, questo, invalso anche per altre preparazioni alimentari, quali per esempio le torte e i pasticci.
Spesso, come retribuzione al fornaio che cuoce l’impasto, viene data della farina. Il fornaio spesso mischia insieme tutte queste farine ricevute per fare un pane di costo inferiore (visto che non è monograno).
In campagna, invece, generalmente il forno è presente (visto che il forno non è proprio dietro l’angolo…).
La carne e un luogo per il macello
I macellai, all’interno del mercato, sono la più sorvegliata delle categorie: non si tratta di un accanimento astratto, quest’attenzione al contrario deriva da una serie di buone ragioni:
* la carne, molto più dei cereali, è sottoposta e sottopone a forti rischi igienici e sanitari, sia al momento dell’abbattimento dei capi sia in tutte le fasi successive, sino alla vendita;
* i macellai sono, tra le corporazioni che hanno a che fare con il cibo, la più potente e pericolosa: gli strumenti del loro mestiere sono vere e proprie armi che, se rivolte contro le persone e non contro gli animali, provocano bagni di sangue. Non sempre questi ultimi sono considerati negativamente: nel caso di guerre tra città, per esempio, i macellai costituiscono talvolta un piccolo esercito di difesa e d’offesa che va ad aggiungersi a quello dei militari “professionisti” rafforzandone le schiere;
I macellai sono fatti quindi oggetto di disposizioni particolari e dettagliatissime.
La scelta di edificare un macello centralizzato è normalmente condivisa dai vari governi cittadini: si tratta di una garanzia d’igiene per l’ambiente, soprattutto per quanto riguarda l’immondizia prodotta da smaltire (sangue) o da riciclare (pelle), e d’igiene per la carne stessa, poiché l’esperto macellatore può meglio verificare la salute dell’animale al momento della macellazione.
Dove costruirlo? In linea generale, le città italiane optano per la periferia, immediatamente dentro o, meglio ancora, immediatamente fuori delle mura, ponendo l’accento sulla necessità di allontanare il più possibile la sozzura (e i brutti spettacoli) dal centro. Poi ci saranno lì vicino dei conciapelli.
Quelle francesi agiscono in modo contrario e preferiscono collocarlo adiacente al mercato, a due passi dalla piazza principale, purché vi scorra vicino almeno un piccolo canale di smaltimento: chiunque può così constatare che le bestie raggiungono la destinazione ultima diritte sulle loro zampe e in buone condizioni di salute, evitando il rischio di comprare carni di bestie già morte.
Il mercato: garanzie per gli acquirenti
- Garanzie per gli acquirenti: vi erano prezzi esposti, etichette ante litteram a indicare le caratteristiche e la provenienza, sottolineata in particolare quando rappresenta un valore aggiunto rispetto alla merce venduta (quanti acquirenti sono davvero in grado di capire quale carne stanno davvero comprando? La vitella, ad esempio, costa il doppio del vitello. Si obbligano quindi a esporre sul bancone in corrispondenza della carne le zampette e il musetto dell’animale), bilance pubbliche affidate a funzionari comunali (“appesatori”, “ripesatori”) per verificare il peso dopo l’acquisto: sono questi alcuni dei provvedimenti adottati sul posto in modo da eliminare, o quantomeno limitare, le possibilità di frode.
A parte i macellai, la categoria tenuta maggiormente d’occhio è quella dei rivenditori di generi vari, quali ortofrutta, uova e pollame e simili, che normalmente non sono produttori diretti della loro merce ma la acquistano a loro volta (quindi la fanno pagare di più). Per avvertire l’acquirente vi sono varie modalità e possibilità: imporre per esempio un’insegna ben visibile anche da lontano – alcune leggi forniscono persino la lunghezza del palo al quale dev’essere affissa – oppure collocare i banchi dei rivenditori in luoghi della piazza ben precisi, creando così una topografia del mercato che permette al consumatore di non perdersi all’interno dell’offerta. - Garanzie per i venditori: a loro volta si tutelano contro eventuali acquirenti disonesti chiedendo, per esempio, che i controlli su peso e qualità della merce venduta avvengano direttamente sotto ai loro occhi e non altrove, per evitare che questa venga dispersa o sostituita dopo l’acquisto.
La gestione dell’accoglienza (studenti, lavoratori di transito, ecc.)
Il rifiorire dei mercati e del commercio coinvolge non solo le singole città, ma anche i collegamenti che le uniscono le une alle altre. Questo comporta un rilancio degli spostamenti delle persone e la conseguente necessità di assicurare loro l’alloggio e un ottimo vitto quando si trovano a fare tappa o a soggiornare lontano dalla propria dimora. Un’accoglienza ben organizzata è anche un modo di dare lustro alla città che accoglie: garantendo un buon servizio si favorisce il ritorno dei visitatori e s’incoraggiano ulteriori nuovi arrivi. In parecchie città si trovano normative specifiche che impongono ai proprietari di osterie e taverne di assicurare alcune derrate, la loro varietà e freschezza, e di esporre i prezzi in modo che l’ospite non sia soggetto a inganni o a brutte sorprese.
Bologna, nel Medioevo e nella prima Età moderna, conosce fasi di abbondanza e fasi di carestia, a somiglianza della maggior parte delle città italiane ed europee. La sua peculiarità sta nella sua situazione geopolitica. Si trova infatti al centro di un territorio relativamente esiguo rispetto alle dimensioni della città. Inoltre, è costantemente sovrappopolata a causa della forte componente studentesca all’interno della società. L’approvvigionamento alimentare richiede pertanto una politica particolarmente attenta e può servire come caso di studio.
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Riformagioni e provvigioni: quando si riuniscono i consigli comunali, che devono discutere dei problemi nella vita di tutti i giorni, la decisione viene presa a maggioranza (scrutinio palese o segreto) e ha forza di legge. Al mattino, il notaio fa l’elenco dei punti da discutere, poi parte la deliberatoria, che però spesso non corrisponde all’ordine dei punti.
Se vi sono dei discorsi importanti, questi vanno a finire negli statuti; se si tratta di questioni di minore importanza, si finisce con una semplice decisione del consiglio. Le riformagioni e provvigioni gettano uno sguardo sulla vita quotidiana delle città: temi trattati sono la gestione delle acque (irrigazione e salute); - Statuti delle arti: parlano più di amministrazione dell’arte. Quello che le arti fanno per davvero è più negli statuti cittadini, poiché quello che fanno ha una ripercussione sulla città;
L’informazione alimentare
In età medievale le notizie prese dai consigli cittadini vengono o urlate da un araldo oppure lette dal celebrante della messa per essere comunicate alle persone; a partire dall’Età moderna, invece, cominciarono a esserci i bandi a stampa; è nel XVI secolo che scoppiano i bandi a stampa con sistemi di affissione regolamentati: nasce l’informazione alimentare che ha un legame con la politica. Se l’autorità politica ha modo di comunicare un provvedimento, vuol dire che ha a cuore il benessere della città.
Nei bandi il pane è sempre in cima, seguito da carni e poi a scendere tutto il resto.
In questi bandi (come in quello stampato a Bologna nel 1548) – stampati anche a «libriccino» – ci sono spesso preamboli dal tono politico; sembra che facciano propaganda. Mentre nel Medioevo bisognava essere più diretti, la stampa garantisce lo spazio necessario a inserire discorsi morali (“amorevolissimo padre”; “nemico della patria” chi non rispetta i provvedimenti).
- il pane deve essere di qualità (bando di Bologna, 1558)
- la carne grossa costa meno (bando di Bologna, 1576)
- “beccai e salaroli”: i macellai non possono vendere carne salata, poiché si teme che utilizzino carne poco fresca e la salino per non buttarla via. Questa è venduta dai salaroli.
- fruttivendoli/venditori di verdura: il consueto segno di riconoscimento è il bastone di legno che deve avere una certa altezza, e sopra c’è scritto TPR (trecoli, polaroli, revenderoli);
- nella regolamentazione per gli osti (1566) vi è scritto quanto, cosa e come devono servire, quanto deve pagare il cavallo che mangia assieme al cliente, ecc;
- il prezzo della carne deve essere esposto chiaramente al consumatore;
Codici di comportamento alimentare nel Medioevo: Jaques Le Goff e Massimo Montanari
L’alimentazione è un marcatore di identità sociale. Particolare rilievo in questo campo ha l’immagine del contadino (si parla di “immagine”, come fa notare Montanari, perché è una storia basata sulla mentalità).
Secondo Jacques Le Goff, la letteratura nell’alto Medioevo mostra già il contadino come:
* un pagano superstizioso;
* un miserabile socialmente pericoloso;
* un rozzo illetterato.
La povertà era uno sfregio all’immagine. Se il povero è disperato può fare qualsiasi cosa e sovvertire l’ordine sociale.
Secondo invece Massimo Montanari, nell’alto Medioevo l’immagine del contadino è ancora vista come positiva. Per esempio, il modello di vita monastica propone insieme preghiera e lavoro (il labor, in origine, era il lavoro dei campi; e i monaci provenivano anche da famiglie nobili), dove il lavoro è quello del contadino, dunque il contadino è integrato nel quadro sociale e nel sistema di valori culturali.
Massimo Montanari accusa Le Goff di un anacronismo, di aver applicato parametri che sarebbero stati validi per il pieno e basso Medioevo e di averli proiettati sull’alto Medioevo.
Le palizzate che perimetrano le identità sociali ancora non recingono tutto e la società, perlomeno ora, continua a integrare anche il “fuori”, i contadini.
L’alimentazione contadina
Cereali
Il signore e il monaco mangiano pane bianco (frumento). Il contadino mangia pane scuro (segale, orzo, spelta), polente e minestre di miglio, legumi, avena. È normale che si nutra di cereali minori perché la maggior parte del raccolto resta a lui, il signore prende solamente 1/3 e ¼ dei cereali minori, il resto che gli viene dato invece è frumento. Il contadino cerca di vendere i cereali più pregiati.
Gregorio di Tours narra che Gregorio vescovo di Langres mangiava pani d’orzo ma, per non apparire orgoglioso del sacrificio compiuto, li mangiava di nascosto, tenendoli sotto il pane di frumento che offriva agli altri e che fingeva di consumare con loro (così gli avrebbe imposto la dignità della sua carica).
Carne
Il signore mangia soprattutto il frutto della caccia. Il contadino si nutre del frutto della pastorizia (in particolare maiale e pecora; i bovini per i contadini servono più come bestie da tiro). Anche il contadino può utilizzare lo spazio incolto: i luoghi in cui attingere sono ancora i medesimi.
La vera differenza sta nelle quantità: nell’alto Medioevo il signore “deve” mangiare di più ( è un retaggio cultura germanica).
Fonte: Liutprando da Cremona (Antapodosis) - Il signore che non vuole mangiare di più: la storia di Guido da Spoleto, che non fu eletto re dei Franchi perché non mangiava molto.
I poveri: circuiti di beneficenza
Ci sono dei poveri che non sono poveri tutto l’anno: magari lo sono mentre aspettano il nuovo raccolto (giugno e luglio) e non ne hanno più del vecchio. È qui che la chiesa (ad esempio come indicato nel 780 dal capitulare episcoporum) organizza le elemosine e cerca di mantenere vivo il pauperes famelicos.
Quando si richiede di nutrire questi poveri si chiede normalmente di prenderne in carico 12 (= numero degli apostoli); altrimenti, se non si ha tanti denari 6 (anche le uova un tempo si vendevano solo 6 o 12). L’uovo è la classica elemosina data ai poveri perché è estremamente energetico. Ma per Gregorio Magno anche tutti i prodotti ricavati dalle proprietà ecclesiastiche possono essere dati ai poveri: frumentum, vinum, caseum, legumen, lardum, manducabilia animalia, pisces, oleum. Solo le spezie (pigmenta) e gli altri delicatiora commercia sono riservati alle mense dei ricchi. Diventano così un primo segno di distinzione.
La svolta per i contadini: IX secolo
- crisi della piccola proprietà: quando si comincia a creare il dentro e il fuori con aree boschive delimitate, viene a mancare al contadino una risorsa cui poteva attingere per nutrirsi;
- progressiva affermazione dei privilegi del signore: da azienda curtense a signoria territoriale o di banno (ora possono anche amministrare la giustizia anche su personaggi non direttamente loro dipendenti che si trovano dentro questa zona ora è recintata).
- nuovo modello monastico cluniacense: i monaci non lavorano più i campi, ma si dedicano alla produzione di codici miniati. Il labor viene subappaltato ai contadini: inizia il rifiuto, da parte delle classi elevate, di sporcarsi le mani.
Riflesso delle modificazioni alimentari, produttive e sociali: il contadino inizia a essere visto come inferiore
- Nel nuovo modello monastico cluniacense i monaci non lavorano più i campi, ma si dedicano alla produzione di codici miniati. Il labor viene subappaltato ai contadini: inizia il rifiuto, da parte delle classi elevate, di sporcarsi le mani.
- A partire dal sec. IX, si teorizza una società tripartita:
* oratores (chierici e monaci), che pregano per garantire a tutti la salvezza dell’anima;
* bellatores (guerrieri), che proteggono la società dai suoi nemici;
* laboratores (lavoratori), che nutrono l’intera società; sono gli unici che sono sia produttori che consumatori. Bisogna garantire loro sopravvivenza, altrimenti ci rimetterà la società tutta. Il termine indica più specificamente i “contadini”, i lavoratori della terra. Il contadino comincia a essere visto come inferiore rispetto al resto perché, a seguito dei cambiamenti verificatisi tra VIII e IX secolo, la sua alimentazione ha assunto un’impronta prettamente vegetale (seppur non sia stata stravolta), e la qualità sociale della sua persona inizia a essere definita a seconda di ciò che mangia nella grande catena dell’essere.
Fonte: da un dialogo tra il monaco Giovanni e l’abate di Cluny Oddone, si evince come l’alimentazione vegetale sembra connotare il mondo contadino fin nell’odore del corpo: il monaco Giovanni, biografo dell’abate di Cluny Oddone, non esita a confessare - vergognandosene, poi - di essersi allontanato dal maestro durante un viaggio a Roma, per non riuscire a sopportare il fetore di cipolla e d’aglio che promanava dal sacco di un contadino aggregatosi alla compagnia. Oddone rimproverò il monaco Giovanni: “Come sarebbe? Ciò che questo povero porta con sé, non puoi neppure vederlo? Ciò che lui mangia, non puoi neppure annusarlo?” Viceversa, se Oddone riesce a sopportare l’odore di aglio e cipolla significa che è davvero un santo.
- In seguito, nascerà la satira del villano (secondo la quale il contadino è un essere rozzo e molto sporco), che contrappone il contadino al cittadino.
Il contadino ladro sottrae il dovuto al cittadino proprietario e mangia cibi che non gli spettano (pane bianco, le pesche…): questa è la morale della storia di Zuco Padella.
L’opposizione tra città/campagna: schemi ideologici e realtà dei fatti
La barriera tra città e campagna non è invalicabile; è un’utopia della classe dominante: Zuco Padella le pesche, alla fine, è sempre riuscito a mangiarle e in Italia vi sono anche prodotti e sapori contadini che entrano nella cucina di élite, nella condizione di venire poi nobilitati.
Montanari nota che i primi ricettari sono pieni di ricetta con agli, cipolle e scalogni: questi prodotti ci sono perché nel basso Medioevo non è tanto la quantità ad essere importante, quanto la varietà di cibi. I signori decidono di incorporare alla propria tavola i cibi del contadino per non ridurre la propria tavolozza alimentare. Un esempio è il Liber de coquina, che include delle modalità per nobilitare le verdure (“Prepara i cavoli delicati a uso dei signori” come contorno delle carni; “Le piccole foglie odorose si possono dare al signore”), o le “fave infrante” sono una semplice polenta di fave, arricchita però con spezie e zucchero. Anche lo stesso Sabadino degli Arienti scrive che l’aglio “sempre è cibo rusticano”, ma “a volte artificiosamente civile se fa, ponendose nel corpo de li arrostiti pavari”. Un libro di cucina veneziano del Trecento consiglia la “agliata” (salsa a base di aglio pestato nel mortaio) “a ogni carne”; un ricettario toscano del Trecento: “Togli raponcelli, bene bulliti in acqua, e poni a soffriggere con oglio, cipolla e sale; e quando sono cotti et apparecchiati, mettivi spezie in scutelle”. O ancora: “in ciascuna salsa, savore o brodo, si possono ponere cose preziose, cioè oro, petre preziose, spezie elette, ovvero cardamone, erbe odorifere o comuni, cipolle, porri a tuo volere”.
L’ideologia della differenza è una teoria che si costruisce su un dato di fatto, su una prassi che viene valorizzata per l’interesse di coloro che se ne servono. Comunque, essa ha potuto avere presa perché poggia su un terreno fertile che risale già all’alto Medioevo (per quanto relativamente ricca l’alimentazione del contadino in questo periodo, egli comunque si ritrova a mangiare tantissimi cereali minori e certa carne piuttosto che altra).
Però è anche vero che ci sono alcuni prodotti attorno al quale si costruisce la differenziazione tra l’alimentazione contadina e quella cittadina:
* il pane: per il cittadino è bianco, di frumento; per il contadino è scuro, di cereali inferiori;
* la carne: per il cittadino è fresca, acquistata al mercato; per il contadino è salata, a causa dell’economia di sussistenza in cui vive. È di pecora per il cittadino, porco per il contadino.
Identità sociali nel Basso Medioevo: concezione gerarchica dell’alimentazione e disciplinamento alimentare (DISCIPLINAMENTO ALIMENTARE)
L’incremento tra tardo Medioevo e prima Età moderna di atteggiamenti pubblici di carattere “ostentatorio” ispira la regolamentazione giuridica delle manifestazioni del lusso attraverso l’emanazione di leggi suntuarie, già emanate nella Roma di Età repubblicana e imperiale.
Gli oggetti del disciplinamento delle leggi suntuarie:
* Vesti e ornamenti vengono colpiti a causa del loro impatto visivo. Durante la messa della domenica ci sono persino ufficiali comunali deputati ad assicurare l’ordine del lusso. Anche se una persona è particolarmente ricca non può ostentare troppo (anche se c’è comunque chi trasgredisce).
* Funerali perché quando muore un personaggio particolarmente potente lo si veste di tutto punto. Si fa concelebrare la messa da tanti sacerdoti e tanto denaro viene speso in cera, costosissima. Si fanno suonare le campane in varie chiese diverse. È sicuramente solenne per i defunti che ricevono tale trattamento, ma uno dei grandi problemi è la peste: bisogna evitare di radunare tanta gente nel funerale;
* Banchetti (di nozze ma non soltanto), perché quando il padre di una sposa vuole organizzare un banchetto sontuoso in onore del matrimoni di sua figlia, potrebbe competere col banchetto del grande signore della città. È infatti in queste occasioni che la tavola diventa più una tavola da guardare, e i cibi su di essa sono fatti più per essere guardati che per essere mangiati.
I grandi banchetti sono messi in piedi dai signori spesso per riaffermare il proprio potere quando questo risulta in declino, come nel caso del matrimonio Bentivoglio-Este; in questo caso, questi banchetti portano fama e gloria a tutta la città. In questo caso, il banchetto del signore non è visto come ostentazione, ma come valorizzazione della dinastia e della città. È agli altri che non è consentito fare la stessa cosa per non sminuire l’impatto politico e visivo del banchetto del signore.
Per fare sì che questo strumento politico non venga utilizzato da tutti si iniziano a varare delle leggi suntuarie che disciplinano il lusso e il suo eccesso. Essi hanno tra gli altri scopi quello di creare un’evidente distanza tra la popolazione cittadina e la corte.
Il caso degli statuti di Bologna (1288 - 1401)
Come si fa a far rispettare le leggi suntuarie?
- multe: se una persona è ricca non avrà problemi a pagarle;
- danno all’onorabilità sociale: bisogna far capire che non rispettare le leggi comporta il disonore. Ad esempio, le vesti lunghe sono ammesse solamente per le prostitute: se una donna vuole indossarle non ci sono problemi, ma sarà tacciata come una donna poco rispettabile;
- punendo i cuochi attraverso multe o frustate in pubblica piazza (anche i “cuochi in affitto”, chiamati da coloro che vogliono fare un grande banchetto ma non hanno un cuoco in casa.
Il ricordo del banchetto – I narratori di banchetti
Il banchetto, in sé, è una delle forme d’arte più effimere che si conoscano. I suoi organizzatori lavorano accuratamente perché sia perfetto sin nei minimi particolari e la sua riuscita sia assicurata, ma in poche ore l’emozione è consumata, il cibo in eccesso è distribuito tra i servitori, magari talvolta rivenduto al mercato e, se non più allettante per gli esseri umani, dato direttamente in pasto ai cani.
È qui che entrano in gioco i narratori di banchetti, spesso incaricati dai nobili organizzatori di perpetuare il ricordo dell’esperienza passata; altre volte, invece, sono cronisti che ne intercalano le descrizioni agli altri avvenimenti di storia delle città. Si trovano anche testimonianze di cuochi, trincianti e soprattutto scalchi (per esempio Cristoforo Messisbugo, metà XVI secolo). Anche i libri di ricette contribuiscono alla fama della corte.
Fonte: Cherubino Ghirardacci – Il racconto dello spettacolo del banchetto (1487)
Il tempo della fame: uno sguardo generale sui secoli immediatamente successivi alla caduta dell’Impero romano
Dopo il crollo dell’Impero romano ci furono anni difficili, in cui emersero nuove realtà politiche e amministrative; i popoli e le culture si rimescolarono e continuò la crisi delle strutture produttive iniziata nel III secolo, aggravata dal decadimento dell’agricoltura e dall’imperversare di guerre ed epidemie. Questo stato di emergenza iniziò nel III secolo e raggiunge il proprio apice nel VI secolo.
La curva demografica conobbe una parabola discendente e le avversità indebolirono le capacità di resistenza degli uomini, ma c’è un rapporto inverso tra (carico demografico)/(condizioni alimentari) , perché nelle fasi storiche di bassa pressione demografica i consumi individuali sono meglio garantiti; quindi, non possiamo dipingere una situazione alimentare catastrofica:
- certo, si conoscono drammi, come guerre, siccità e carestie, ma con la fame si convive; non sempre si muore di inedia (questo succede solo se la fame è prolungata): si cercano soluzioni di ripiego, producendo pani di carestia. La cosa più importante, però, è differenziare il ventaglio di risorse attraverso la policoltura, che riduce i pericoli insiti nelle avversità climatiche;
- ci sono però anche fenomeni per noi ripugnanti: molti si avventano a divorare le erbe e le radici che crescono spontaneamente dalla terra; ci sono anche episodi di cannibalismo. Tuttavia, esiste anche l’uomo ‘civile’ che usa la tavola e a volte la tovaglia.
Oltre a tutto questo, molti territori si svuotarono: le campagne erano desolate per mancanza di uomini a sfruttare le risorse, che pure non mancavano. Aumentarono le distese di incolto, detto anche saltus: molti territori non venivano messi a coltura dal III secolo per un pregiudizio culturale che impediva di sfruttarli nelle loro potenzialità.
Ma tra il V e il VI secolo emerse un nuovo modello produttivo e culturale nato dall’amalgama di scelte e opzioni che prima si erano combattute: il modello agro-silvo-pastorale (sintesi romano-barbarica), che sarà la fortuna dell’alimentazione e dell’economia medievale.
I capisaldi alimentari del modello greco-latino
Il modello greco-latino era costruito attorno ad alcuni punti fondamentali:
* la presenza di città, attorno alle quali si organizzava l’ager produttivo della campagna (vs saltus/incolto);
* diffidenza per l’incolto, ovvero la natura vergine, come le paludi e i boschi, considerati non umani e incivili. Un certo, seppur blando e marginale, sfruttamento dell’incolto era praticato da parte soprattutto degli sbandati. Ciononostante, questo veniva frequentato anche dagli imperatori, in occasione delle cacce, un momento piuttosto ‘esotico’;
* priorità all’agricoltura, all’addomesticamento della natura, all’orticoltura e all’arboricoltura: i prodotti-base erano quelli della cosiddetta «triade mediterranea», ovvero il grano, la vite e l’ulivo, che convivevano, però, anche con la pastorizia ovina (per ricavare latte e formaggi), con la pesca nelle regioni costiere e con una discreta quantità di carne.
La triade “mediterranea” (sebbene questo aggettivo sia da prendere con le pinze; la dieta mediterranea viene codificata in realtà nel Novecento): grano, vite e ulivo.
Elemento centrale è il pane: Omero (secc. IX-VIII a.C.) definiva gli uomini «mangiatori di pane».
L’ulivo si coltiva e dà frutti, ma non se ne abusa. L’olio di oliva serve soprattutto in medicina per guarire e nella cosmesi per realizzare unguenti (è infatti un prodotto che aiuta a illuminare). Bisogna tuttavia capire di che cosa sappia l’olio di oliva nel Medioevo: le olive erano diverse da quelle di oggi, così come le tecniche di produzione; il gusto doveva essere molto più forte (ce lo dimostrano alcuni trattati, che avvertono circa l’eccesso di olio: qui, gli autori scrivevano infatti che non bisogna condire molto, altrimenti l’alimento avrebbe avuto il sapore “di olio”).
Già Plutarco associò insieme questi prodotti: i giovani ateniesi giurano fedeltà alla patria, in cui “crescono il grano, la vite e l’ulivo” (dalla Vita di Alcibiade). Dalle Metamorfosi di Ovidio (secc. I a.C.-I d.C.): “Ogni cosa che le mie figlie toccavano si trasformava in grano, o in vino puro, o in oliva” (chi parla è Anio, re e sacerdote di Delo).
L’esistenza di questa triade, tuttavia, non impedisce a questi prodotti di coesistere con orticoltura e pastorizia, soprattutto ovina.
* dieta onnivora: spesso si dice che i romani erano vegetariani: non è vero; semplicemente caricavano di valore aggiunto alimenti vegetali (ovvero, ne mangiavano di più), ma si nutrivano anche di carne e prodotti animali. Oltretutto, spesso bisogna chiedersi quale sia la religione dei soggetti che andiamo a studiare: il politeismo, ad esempio, implicava la pratica di sacrifici animali, il che esclude il vegetarianismo: la divinità sente il profumo che sale dalla carne sacrificata che viene fatta arrostire, ma la carne deve poi essere consumata dagli uomini; sarebbe stato infatti assurdo non mangiarla: era come dire che non si aveva a pregio il dono offerto alla divinità).
Quelli antichi restano comunque regimi alimentari molto vari, in maniera tale da garantire approvvigionamento alimentare qualora venisse a mancare, per qualche ragione, un alimento.
* valore alimentare della misura e della moderazione: tutto è ammesso nella cultura alimentare greca e romana, ma tutto va consumato con misura e moderazione, tantoché l’eccesso alimentare dei barbari, soprattutto della carne, sarà notato come un elemento negativo; anche la varietà è nociva, perché vuol dire che si mettono in tavola tante cose diverse.
Fonte: Orazio (Satire), I sec. a.C.
«Ascolta, adesso: parliamo dei vantaggi che comporta il vivere frugale […]. In primo luogo, un’ottima salute. Non credi che la varietà del vitto sia nociva all’uomo? Ricòrdati allora di quel cibo genuino che un giorno si lasciò tranquillamente digerire; mentre, mescolando l’arrosto col bollito, i frutti di mare con i tordi, tutte queste squisitezze passeranno in bile, ed un muco vischioso metterà lo stomaco in subbuglio. Non vedi come ognuno, da una cena varia, imbarazzante, s’alzi pallido?».
Fonte: Svetonio (Vita dei Cesari), I-II sec. d.C.
Svetonio scrive una biografia di Augusto, ma potrebbe non aver detto la verità. Ci parla, infatti, dei valori della società romana, ottimamente distillati nella figura dell’imperatore Augusto.
[Augusto] «Spesso interveniva ai banchetti in ritardo e se ne andava in anticipo, in modo che gli invitati cominciavano a cenare prima del suo arrivo e rimanevano dopo la sua partenza. Offriva di solito una cena di tre portate e, quando la voleva molto abbondante, una di sei, senza eccessiva spesa ma con estrema cordialità. […] Gli piaceva particolarmente il pane di seconda qualità, i pesciolini piccoli, il formaggio di mucca, premuto a mano, e i fichi secchi primaticci e settembrini».
L’alimentazione dei “barbari” (celti e germani) si basa su alcuni capisaldi:
- sfruttamento dell’incolto e predilezione per la natura vergine (caccia, pesca, raccolta dei frutti selvatici, allevamento brado nei boschi, con maiali e cinghiali);
- consumo di carne (anche cruda, per i latini segno di ferinità), il valore alimentare di primo grado (soprattutto maiale, ma anche equini, bovini, cacciagione);
- latte (vuol dire che almeno degli ovini allevati c’erano), latte di giumenta e liquidi acidi che ne derivavano, sidro da mele selvatiche, birra (questa si produce con vari cereali, non necessariamente frumento. Si utilizzano soprattutto cereali minori come l’orzo, molto semplice da coltivare e resistente; infatti, i cereali minori crescono rapidamente e sono meno soggetti a carestie e malattie. quando sarà creata la rotazione triennale, una parte del campo sarà riservata alla coltivazione di frumento e una a quella di cereali minori – l’altra a maggese. Il frumento crea maggiori problemi alla terra perché ‘succhia’ più sostanze nutritive.
- un grande appetito, simbolo di forza e di vigore. Anche l’onomastica era presa a prestito dal mondo animale (Orsi, Lupi). Ci sono racconti che narrano le sfide di forza animalesca nell’Edda tra Loki, Thorr e Logi. La frugalità sarà disprezzata anche quando i valori alimentari germanici si imporranno nell’Alto Medioevo: basti pensare alla fine di Guido da Spoleto, rifiutato al trono del Sacro Romano Impero per il suo scarso appetito. Anche nel mondo ecclesiastico del nord Europa ci saranno porzioni ciclopiche per i membri del clero secolare (X secolo; i preti e i vescovi non sono monaci). D’altra parte, esistono rigorose privazioni per le regole monastiche, una evidente reazione polemica a una società che assegna al mangiare il primo posto (una risposta morale e religiosa, quindi, a un’etica sociale del potere.
Tuttavia, il quadro alimentare non era così rigido: i germani consumavano anche cereali, pappe d’avena o focacce d’orzo (Procopio scriverà tuttavia che i germanici mangiano i cereali senza ridurli in farina: non basta l’agricoltura a fare una civiltà, ma serve l’elaborazione e l’intervento sul cibo), e i romani mangiavano anche carne di porco.
Bisogna quindi valutare il ruolo specifico rivestito dai singoli prodotti nel regime alimentare, il posto e il peso che hanno in un sistema che si organizza come un’unità coerente in modi di volta in volta diversi. Vero è che, però, non possono non balzare agli occhi le contrapposizioni, che diventano segni di identità culturali descritte ampiamente da scrittori latini e greci.
Il processo di integrazione tra i due sistemi (la sintesi romano-barbarica, che inizia nel V – VI secolo) - grazie al potere delle tribù germaniche
L’integrazione è possibile grazie all’affermarsi del potere politico e sociale delle tribù germaniche e al diffondersi del cristianesimo, e può reggere nel tempo anche grazie a un favorevole rapporto tra popolazione e risorse: la sopravvivenza viene garantita anche con un sistema poco redditizio, come quello basato sull’estensione dell’incolto.
Grazie all’ affermazione del potere delle tribù germaniche:
Si diffonde anche un atteggiamento mentale nuovo di fronte al paesaggio e nel modo di intendere la natura incolta. Avviene, cioè, un salto culturale. È proprio a partire da questa nuova valutazione positiva del saltus e dall’integrazione, da ambo le parti (non senza momenti di contrapposizione) della cultura del pane e della carne che nasce il modello romano-barbarico.
a) I boschi vengono valutati non più in termini di superficie, ma nel loro impatto reale a livello produttivo in base al numero di maiali che ghiande, faggiole ecc. consentivano di farvi crescere e ingrassare. Si tratta di un calcolo analogo a quello per i campi (misurati in grano), per le vigne (in vino), per i prati (in fieno). Il paesaggio inselvatichito viene messo a disposizione come pascolo brado per i maiali;
b) tutti possono usufruire dello spazio incolto, sia perché l’allevamento è prevalentemente allo stato brado, nei boschi e nei pascoli naturali, sia perché la caccia è aperta a tutti. Lo spazio alimentare è ancora aperto e non recintato. Ognuno riesce, quindi, a integrare la carne nella propria alimentazione (ad esempio il contadino, che mette la trappoletta per la lepre).
L’uso della natura incolta richiede anche la conoscenza del territorio, reperita, magari, informandosi attraverso gli abitanti del luogo. Questo perché bisogna distinguere ciò che è commestibile da ciò che è dannoso per l’uomo. La storia dell’anacoreta siriano raccontata nelle Vite dei santi Padri ci rivela la predilezione eremita per un modello alimentare di stampo naturale (vegetazione spontanea) e il ritiro in una cornice ambientale appartata e isolata. La natura è un fatto culturale, economico e sociale: l’anacoreta non cerca la solitudine in un deserto perché in quel momento è lo spazio incolto della foresta ad aver assunto grande importanza.
c) La carne diventa il valore alimentare per eccellenza: ad esempio, il medico Antimo, che indirizza un opuscolo al re dei Franchi Teoderico, scrive delle varie modalità di preparazione delle carni di maiale, dell’utilizzo del lardo laddove manchi l’olio, e della possibilità di mangiare carni crude (cosa normale per stomaci abituati a mangiare un solo genere di cibo, ma, forse, il pubblico dei suoi lettori non disdegnava del tutto la cosa).
Ma c’è carne e carne: anche se tutti la mangiano, nella dieta aristocratica il ruolo della carne è doppiamente speciale, perché il signore è di mestiere un guerriero, e la carne è ritenuta lo strumento alimentare della forza fisica. Simbolo del potere è soprattutto la selvaggina grossa, status-symbol alimentare del guerriero: cinghiali, cervi, orsi.
La caccia è l’immagine e la rappresentazione della guerra:
* in senso tecnico: armi, uso del cavallo, strategie. Iniziazione dei giovani;
* in senso simbolico.
Il processo di integrazione tra i due sistemi (la sintesi romano-barbarica, che inizia nel V – VI secolo) - grazie all’affermazione del cristianesimo
Grazie alla diffusione del cristianesimo (dal IV sec. religione ufficiale dell’impero), il quale reca l’impronta alimentare della cultura greca, latina ed ebraica, assumendo come simboli i prodotti alimentari che di quelle culture erano la base materiale ed ideologica, si diffonde la cultura del pane, del vino e dell’olio. Sono simboli caricati di valenze metaforiche.
a) Il pane riflette, metaforicamente, una certa corrispondenza tra il processo di fabbricazione del pane e la formazione del nuovo cristiano (c’è bisogno di un certo numero di ingredienti, di lavorazione, di attenzione, di crescita e attesa). Ma è anche la metafora di Cristo: come il pane, Egli è stato impastato, cotto nel forno del sepolcro e ora distribuito ai fedeli.
b) Il vino è l’immagine e lo strumento del miracolo eucaristico. Inoltre, i santi, per diffondere la fede, piantano le vigne e mettono a coltura il frumento. Esso conferisce forza ed entusiasmo: a Clodoveo viene dato da bere prima di sferrare l’attacco contro l’ariano Alarico. Il vino si contrappone talvolta alla birra, la quale pare emanare una forza malefica, mentre a volte convive con essa in maniera cordiale, tantoché nel monastero fondato a Luxeuil da San Colombano la birra era la bevanda abituale dei monaci.
c) L’olio era indispensabile per la liturgia e per la somministrazione dei sacramenti, nonché per l’accensione delle luminarie.
All’interno di questo processo di diffusione dei simboli alimentari greco-latini ora fatti cristiani, un ruolo chiave fu giocato dai Franchi, che si convertirono precocemente alla nuova religione per assicurarsi l’insediamento all’interno dei territori dell’Impero. Furono loro a fare ‘proseliti’ e ad esportare questo modello alimentare.