Transmedia Flashcards
Cosa significa fare transmedia?
Fare transmedia significa raccontare storie distribuite su più mezzi di comunicazione, simultaneamente o in tempi diversi, in progetti d’intrattenimento o d’informazione, d’arte, scientifici o promozionali articolati su più piattaforme editoriali.
Fare transmedia significa creare nuove geografie del racconto e universi immaginativi più complessi di quello originario.
Far interagire storie distribuite nei diversi mezzi di comunicazione (asset) del sistema comunicativo di un progetto editoriale facendo sempre attenzione a:
• creare contenuti in grado di rispettare e valorizzare le caratteristiche di linguaggio e tecnologiche di ciascun medium;
• rendere accessibili i contenuti su più piattaforme tecnologiche senza provocare interferenze nella gestione del racconto;
• fare in modo che tutti i media coinvolti nel progetto raccontino storie diverse ma “scavino” un unico tema ed esplorino un universo immaginativo coerente, pur attraversandolo in tempi diversi e con più prospettive narrative.
Tutto nel transmedia dipende dallo sviluppo di universi narrativi in grado di sostenere le storie e di amplificarne l’immaginario avendo ben chiaro:
• le parti della trama e le regole della “partita” che si sta per giocare, lasciando intuire progressivamente al pubblico il ruolo dei diversi contenuti presentati;
• i rapporti che legano i media coinvolti nel progetto, in ciascuna delle esperienze proposte al pubblico;
• le caratteristiche fondamentali del patto narrativo che lega gli autori al loro fruitore; il chi-fa-cosa o chi-può-fare-cosa all’interno del progetto prima, durante e dopo la conclusione del racconto.
Il pubblico dei transmedia
Il pubblico del transmedia è fatto di naviganti nel Web, fan di saghe cinematografiche, tribes nei cellulari, geek dei nuovi media, hardgamers e otaku nei videogiochi, community nei social network, trigger come consumatori o cosplayer. transmedia. Ecco perché, e per chi, è necessario oggi “incrociare i media” con storie sempre più complesse e interattive. A questo pubblico è necessario che corrisponda un narratore che sia anch’egli un organismo mutante, capace di continui skill flow tecnologici e pronto a trasformarsi in esperto conoscitore delle tecniche di imagery making e di transmedia storytelling necessarie per creare progetti di narrazione e comunicazione declinati su più media. L’autore deve essere disposto a devolvere parte della paternità della storia per costruire una narrazione partecipata e sinergica insieme con le sue audience, mentre il pubblico è chiamato a svolgere un ruolo attivo che contempla la sperimentazione di tutto il sistema comunicativo di un progetto.
Crossmedia o transmedia?
La distinzione tra crossmedia e transmedia sta nella natura delle storie e nel modo che usiamo per raccontarle. Esistono:
• forme di narrazione che non cambiano nel momento in cui vengono declinate su più piattaforme (per esempio un cortometraggio distribuito nella stessa versione in una sala cinematografica, in streaming sul Web o in differita durante uno show televisivo);
-> In ambito internazionale, si utilizza oggi il termine cross-media per forme narrative che coinvolgono diversi media ma restano identiche nelle loro declinazioni sulle diverse piattaforme.
• forme di narrazione che condividono gli stessi elementi narrativi e immaginativi (trame, personaggi, atmosfere…) ma cambiano a seconda della piattaforma editoriale sulla quale vengono distribuite distribuite (lo stesso cortometraggio potrebbe essere riscritto per esempio per una serie a puntate, o rielaborato per il cinema; il suo protagonista potrebbe diventare l’eroe di una serie di fumetti, mentre un personaggio secondario potrebbe essere il portavoce della storia sui social network…).
-> Si usa invece transmedia per storie che mutano in relazione ai diversi mezzi di comunicazione che le distribuiscono. Sono transmediali tutti gli esempi, da quelli corporate, costruiti e gestiti da major e potenti società dei media, a quelli generati invece da piccole società indipendenti o grassroots, creati cioè “dal basso” da utenti o community di fruitori per fini artistici, comunicativi o espressivi.
Storia della definizione di transmedia
È possibile definire dei passaggi-chiave più determinanti, quelli che hanno contribuito a sperimentare e a rendere finalmente consapevole l’uso del transmedia da parte degli autori, del pubblico e degli operatori della comunicazione in tutto il mondo.
- La prima attestazione della definizione transmedia è attribuita alla ricercatrice americana Marsha Kinder che nel 1991, nel suo libro Playing with Power in Movies, Television, and Videogames: From Muppet Babies to Teenage Mutant Ninja Turtles, parlò di “commercial transmedia supersystems” riferendosi a progetti editoriali di importanti franchise mondiali distribuiti su più media.
- Paul Zazzera, CEO di Time Inc. usò per la prima volta nel 1996 la definizione cross-media, diffusasi di lì a poco in tutto il mondo grazie soprattutto al successo mondiale del videogioco Pokémon di Nintendo (1996), all’invenzione di Big Brother (reality show presentato come format cross-mediale dal suo creatore John De Mol, nel 1997) e del film The Blair Witch Project (nel 1999) oltre che alla nascita di Second Life (nel 2003), mondo virtuale che secondo i propri inventori (il Linden Lab di San Francisco) avrebbe permesso ai suoi avatar di sperimentare per la prima volta tutti insieme i media, incrociandoli tra loro all’interno delle proprie isole (sim) digitali.
- La definizione di transmedia fu ripresa, sempre nel 2003, da Henry Jenkins, allora codirettore del Comparative Media Studies Program del MIT di Boston, in un articolo intitolato Transmedia Storytelling, con lo scopo di mettere in evidenza alcune differenze sostanziali che si stavano affermando in modo scomposto e improvvisato nelle narrazioni distribuite su più media in giro per il mondo.
- Con gli studi della ricercatrice australiana Christy Dena e con l’olandese Jak Bouman, coordinatore in Europa dell’Acten Report, ancora nel 2003, l’uso della definizione di cross-media andò intanto specializzandosi e si sostituì con successo all’altra
- Nel 2010 c’è stata l’introduzione del titolo professionale di “transmedia producer” nei credits del cinema hollywoodiano da parte della Producers Guild of America. Da quel punto in poi non c’è stato più spazio per ambiguità.
Quando è nato concretamente il transmedia?
L’umanità ha iniziato a sperimentare forme artistiche di transmedialità molto prima della rivoluzione digitale contemporanea.
- La storia ufficiale della narrazione transmediale nasce con il media mix delle serie animate giapponesi agli inizi degli anni Settanta. Tuttavia, va notato che mentre il media mix vedeva il coinvolgimento di più piattaforme solo a seguito del successo del prodotto, nel transmedia invece l’universo immaginativo è progettato per più mezzi di comunicazione fin dall’ideazione, a prescindere dal destino del racconto.
- La storia della narrazione transmediale trova la sua data di nascita più matura e condivisa sul pianto globale nel 1976, anno della creazione della saga di Star Wars da parte di George Lucas, il più ricco universo narrativo transmediale di tutti i tempi composto da film e libri, serie animate e gadget, game e documentari, expanded universe nel Web e fandom, giocattoli, eventi e magazine che hanno coinvolto fino a oggi tre generazioni di consumatori.
- Il 1976 è ricordato tuttavia dagli studiosi anche per la nascita delle text-adventure – racconti scritti e giocati insieme da più utenti connessi tra loro in Rete – con Colossal Cave di William Crowther, accompagnato dall’affermazione mondiale dei gamebook (forma di racconto in seconda persona, articolata in diverse opzioni narrative dipendenti dalle decisioni del lettore) con The Cave of Time pubblicato da Edward Packard nel 1979 e dalla nascita del gioco di ruolo Dungeons & Dragons di Gary Gygax e Dave Arneson nel 1974 ma, soprattutto, dalla trasformazione definitiva del primo Disneyland di Anaheim in un vero e proprio “medium integrato”, parco divertimenti e location da utilizzare per il lancio di pellicole cinematografiche, show televisivi (in accordo con l’emittente ABC) e performance dal vivo a carattere ludico e promozionale.
- Infine, una seconda generazione di prodotti ed esperienze transmediali avrebbe conquistato il mondo partendo stavolta dall’Europa, dove nel 1997 si sono affermati due fondamentali franchise. Il Big Brother, prima affermazione delle reality narratives che avrebbero integrato da allora TV e Web, magazine e telefonia, e Harry Potter e la pietra filosofale scritto da J.K. Rowling, primo capitolo della saga di Hogwarts che nel tempo avrebbe “viralizzato” i media e creato fenomeni a carattere transmediale in atto ancora oggi su scala globale: dalla diffusione della fanfiction online alla nascita di fandom a scopi benefici.
Inventare Storyworld
Non tutte le idee e le storie hanno le caratteristiche e le energie necessarie per alimentare universi transmediali. Anche la struttura più complessa, la trama più avvincente e i personaggi “vivi” di alcuni racconti possono non essere sufficienti a indurre il pubblico ad affezionarsi a una storia al punto da voler a tutti i costi riviverla in più altrove digitali.
Inoltre, per la tenuta di un progetto transmediale è essenziale il dialogo continuo tra le piattaforme editoriali coinvolte e gli spazi creativi a disposizione del pubblico all’interno di ciascuna di esse. l’autorialità va nascosta piuttosto che ostentata e la paternità del racconto dissimulata nella storia per offrire spazi d’azione all’audience piuttosto che ai creatori dell’universo immaginativo. I “media incrociati” lavorano soprattutto con sceneggiature invisibili e il “paradosso dell’autore” (ovvero la sua invisibilità, dentro e fuori il racconto) è condicio sine qua non per gli scrittori, gli editor e i producer transmediali.
Infine, le tecniche di storytelling evolvono e si raffinano sempre più in fretta. Per questo, oltre a una buona idea o a una buona storia, per “fare transmedia” è fondamentale innanzitutto uno storyworld narrativo in grado di operare subito una re-distribuzione dell’immaginario dell’audience.
Tre tipologie diverse di idee di innesco per un progetto
Nel caso del transmedia esistono almeno tre tipologie diverse di “innesco” per un progetto, alle quali corrispondono ovviamente diversi gradi di originalità e di compenetrazione nell’esperienza vissuta dal pubblico.
- Idee originali. Sono assunte dall’autore pescando direttamente dal proprio immaginario, in autonomia e senza la mediazione di altre forme di comunicazione. Negli “ecosistemi narrativi” delle idee originali si garantisce massima libertà all’ideatore e allo stesso tempo al suo pubblico, ma a entrambi è richiesto il massimo sforzo per ottenere quella che Umberto Eco definisce la “cooperazione interpretativa” nel consumo di un’opera. Si può ottenere per mezzo dell’uso di un pidgin (=la chiave di lettura e codice comunicativo condiviso da mittente e destinatario) immaginativo ed editoriale condiviso tra ciascun medium e il suo pubblico e, contemporaneamente, tra tutti i media e le audience coinvolte nella fruizione di un franchise (=sistema comunicativo che crea diverse esperienze di consumo individuali su diverse piattaforme) o di un portmanteau (=sistema comunicativo che porta su diverse piattaforme forme di creatività legate alla stessa esperienza di consumo) transmediali.
- Idee combinate. Sono idee derivate da due o più suggestioni preesistenti, dette matrici. Non replicano la stessa formula narrativa dei loro predecessori ma la ibridano fino ad arrivare a una terza forma di racconto autonoma, declinabile sugli stessi media o su altri. Sono il risultato dell’accostamento e della fusione di idee legate soprattutto dall’appartenenza a uno stesso “genere” narrativo e da finalità comunicative comuni (pubblicitarie, editoriali, artistiche…). In questo senso, le idee combinate portano più facilmente alla creazione di portmanteau transmediali che di veri e propri franchise.
- Idee transcodificate. Sono il risultato della trasformazione di idee derivate da altri ambiti comunicativi e modificate nel passaggio da un linguaggio a un altro o da una realtà all’altra per mezzo dell’uso di più mezzi di comunicazione. Il risultato è una forma ibrida (complex) tra il franchise e il portmanteau, e lo shift editoriale che ne deriva è particolarmente potente in ambito pubblicitario e promozionale.
Universi immaginativi complessi
Il transmedia designer è un cultural activator e un catalizzatore di narrazioni, uno story architect, un fan correspondent e un abile manipolatore di storyworld che sfruttino al massimo i tre elementi cardinali di qualsiasi forma di storytelling, ovvero:
• L’universo immaginativo
• La storia
• L’esperienza
Spinti dall’esigenza di maggiore autonomia o per mantenere una governance assoluta sulle storie e sui personaggi da loro creati, i narratori che più hanno contribuito nella storia del transmedia alla costruzione dell’immaginario collettivo scelgono sempre più spesso di guidare in prima persona le trasposizioni “secondarie” dei loro franchise: dai film per il cinema ai videogame, dalle app per smartphone a fumetti e libri, nel Web o in TV al fine di ringiovanire e rendere più avvincenti i loro universi transmediali.
Piuttosto che partire direttamente dalla storia, è sempre meglio concentrarsi prima di tutto sullo storyworld del racconto.
World making e milking
Sviluppare e approfondire al massimo l’universo di riferimento complesso del racconto permette di esprimere al meglio il portato emozionale di una storia e la sua adattabilità ai diversi asset di un sistema comunicativo transmediale. Tale percorso di avvicinamento “a ritroso” permette inoltre all’autore transmediale di immaginare fin dall’inizio storie ulteriori (untold stories), da raccontare magari in futuro, creando esperienze sempre più complesse e appaganti per il pubblico.
Creare progetti transmediali significa costruire grandi universi immaginativi e “sistemi di riferimento” capaci di arricchire progressivamente la narrazione tradizionale mediante strati semantici ulteriori. Le operazioni da compiere per assolvere a questo compito sono sostanzialmente due: world making e milking.
• World making. Si occupa della creazione del sistema di ambientazioni, personaggi, gerarchie, conflitti e regole interne all’universo immaginativo di un racconto transmediale.
• Milking. Si occupa del complesso di contaminazioni e analogie riferibili ad altri universi narrativi da sfruttare attingendo alla loro mitologia e ai loro pattern narrativi, proponendoli alla propria audience per mezzo di riadattamenti di diversa natura.
World making e milking assumono un significato molto più complesso e organico al cospetto di racconti distribuiti su più mezzi di comunicazione simultaneamente. Nelle narrazioni transmediali infatti, anche le location, come i personaggi e le modalità di fruizione del racconto, possono cambiare da un medium all’altro e vanno spesso “rimediate” o create ex novo. Non a caso, per realizzare questo tipo di operazioni si reclutano spesso narratori che lavorano a migliaia di chilometri di distanza gli uni dagli altri e condividono style guide e archivi di contenuti (library), “bibbie” narrative e schede (model sheet) dei personaggi diffusi a distanza dalla corporate o dai proprietari (owners) del brand.
Nella creazione degli universi immaginativi dei progetti transmediali svolge un ruolo determinante l’uso di strutture drammaturgiche consolidate, di paradigmi narratologici e di simboli e figure archetipali facilmente riconoscibili.
The nuclear power of the imagery
Entrare nell’universo immaginativo di un progetto transmediale è per il pubblico un’esperienza sempre complessa e articolata, fatta di piattaforme, storie, contenuti… Quello di cui c’è bisogno fin da subito è di conseguenza la presenza di elementi narrativi capaci di agire da amplificatori di senso e da facilitatori dell’esperienza del consumo, come:
• l’adesione a un genere narrativo
• l’inserimento continuo, nel corso del racconto, di spazi espressivi a disposizione del pubblico e dal forte potere evocativo.
Genere narrativo e spazi espressivi garantiscono alla storia una maggiore tridimensionalità e un più efficace potenziale emotivo, amplificando “il potere nucleare dell’immaginario” di un racconto, ovvero il sistema di forze capace di racchiudere l’energia di uno storyworld all’interno di un solido nocciolo semantico per sprigionarlo poi all’occorrenza, agendo in virtù di tre componenti immaginative fondamentali:
• le strutture sintetiche universali;
• gli isotopi immaginativi;
• le figure archetipali del racconto;
Si tratta di tre livelli interpretativi e di tre campi d’azione molto efficaci e imprescindibili per l’autore impegnato su forme di racconto distribuite su più media.
Strutture sintetiche universali
Sono le coordinate fondamentali dell’universo narrativo su cui si basa un racconto transmediale. Sono le indicazioni e le suggestioni che forniscono al pubblico il contesto situazionale di riferimento di tutto il progetto. Le tre unità aristoteliche (spazio, tempo e azione) per esempio, o l’insieme di regole vigenti nel mondo ordinario ed extra-ordinario dell’universo della storia. Tali strutture intervengono sul livello conscio della percezione del pubblico, che attraverso di esse è portato a condividere in modo più immediato e fidelizzato il “tragitto antropologico” (=lo scambio immaginativo tra la dimensione soggettiva del fruitore e quella oggettiva dell’ambientazione di un racconto) compiuto dal protagonista del racconto. Sono coordinate universali condivise dalle audience di tutti i media coinvolti nel progetto, e sintetiche, ovvero pronte ad essere declinate in diversi tipi di esperienze. costituiscono il primo “ponte” a disposizione del pubblico per orientarsi nell’universo del racconto.
Isotopi immaginativi
Operano sul subconscio del pubblico e sono importanti soprattutto per guadagnarne la cooperazione interpretativa e facilitare gli spostamenti dell’audience da una storia all’altra all’interno dell’universo del racconto. Sono una sorta di passe-partout per entrare nell’universo della storia. Basta evocarli per spostare il racconto su un piano narrativo ulteriore col risultato di dare immediatamente al pubblico l’impressione di essere sulla pista giusta, di affrontare il sistema comunicativo del progetto in modo adeguato. L’utilizzo degli isotopi immaginativi è indispensabile nei progetti transmediali anche per creare punti di contatto tra un medium e l’altro. L’immediatezza garantita dall’intervento sul subconscio si trasforma facilmente in senso di presenza e coinvolge il fruitore in prima persona e con ottime probabilità di successo. Sono la chiave per coinvolgere il subconscio dei fruitori all’interno dell’universo del racconto.
Figure archetipali del racconto
Consentono all’universo di un progetto transmediale di “agganciare” l’audience sul piano dell’inconscio e di aiutarla a percepire “nuove realtà sociali” fatte di persone e icone familiari stimolanti sia sul piano individuale sia su quello collettivo. La presenza e l’uso di archetipi, ovvero di simboli primordiali dell’inconscio collettivo condivisi da diverse culture, è determinante per attivare processi di ominazione all’interno di un progetto comunicativo transmediale.
Raccontare storie transmediali
Una storia, per essere tale, deve possedere innanzitutto due “c”, ovvero un conflitto (tra i personaggi) e un cambiamento (interiore o di status del suo protagonista). La prima coordinata da definire sarà la “struttura” del racconto che nel caso del transmedia può essere di cinque tipi:
1. a gradini; il racconto procede una tappa dopo l’altra, chiudendo ogni scena prima di aprire quella successiva.
2. ad anello; la prima e l’ultima scena di un racconto coincidono, ma tra l’una e l’altra viene raccontata la storia.
3. a cornice; che incastona temporaneamente una storia all’interno di un’altra nel corso del racconto.
4. a infilzamento; la storia procede senza soluzione di continuità di tappa in tappa, senza aspettare che la precedente sia definitivamente consumata prima di piombare il protagonista nella successiva.
5. mista; risultante della contaminazione tra due o più strutture tra quelle appena elencate.
Definita la struttura, si sceglierà l’attacco del racconto (incipit), che potrà essere di tre tipi:
1. tradizionale; l’inizio della storia coincide con quello del racconto.
2. in medias res; l’inizio del racconto cade già nel pieno degli eventi descritti nella storia.
3. a posteriori; l’inizio del racconto cade dopo la conclusione degli eventi, rievocati (al passato) successivamente alla chiusura della storia.
Applicata a forme di storytelling transmediale, anche la scelta degli incipit, si complica. Potremmo decidere di far scorrere il racconto in due sensi di marcia contemporaneamente (racconto enanziodromico) su due o più piattaforme. O aprire nuove cornici narrative per raccontare le storie di altre persone incontrate dal protagonista.
Dalla scelta dell’incipit passiamo a quella del “finale” (explicit), che nel racconto tradizionale può essere alternativamente:
1. aperto; non chiude la linea principale del racconto.
2. chiuso; esaurisce definitivamente gli eventi descritti nella storia.
3. a sorpresa; contiene un colpo di scena capace di cambiare totalmente il punto di vista del pubblico sulla storia.
4. doppio/ripetuto; chiude tutte le diverse linee narrative presenti in un racconto (per esempio seguendo la storia di più protagonisti).
Anche in questo caso, come si vede, il racconto transmediale è molto più complesso di quello tradizionale, e potrebbe proporre per esempio diversi finali alternativi contemporaneamente, uno per ciascuna piattaforma coinvolta; o ancora, potrebbe aggiungere a quello “ufficiale” altri finali ipotetici.
Quale storia scegliere?
L’autore di storie transmediali deve operare come un organismo pioniere, decidendo ancor prima ancora di mettersi al lavoro:
• che tipo di storia vuole raccontare, e quale mezzo di comunicazione sarà il cantastorie mediale prioritario del racconto;
• quale frammento (spazio narrativo) dello storyworld del racconto approfondirà maggiormente la storia;
• che tipo d’interazione cercherà con il pubblico durante il consumo della storia;
• quanto il pubblico potrà condizionare la storia nelle diverse piattaforme del sistema comunicativo.
Superato questo stadio, e individuata la storia giusta nel proprio storyworld, si dovrà rispondere a cinque domande, ovvero:
1. la storia appartiene a un “genere” o a un sottogenere narrativo preciso? E in caso affermativo, costituisce una mera riproposizione, un’attualizzazione o un ribaltamento della sua matrice?
2. la storia è autoconclusiva o costituisce un episodio di un racconto seriale (prequel o sequel, pre-series o after-series)?
3. la storia possiede spazi narrativi secondari per originare altri racconti
- dentro il suo universo immaginativo?
• spin off: narrazione ottenuta rielaborando elementi di sfondo di una storia preesistente, sfruttandone porzioni di racconto o personaggi.
• Reboot: narrazione che rinnova totalmente la storia, mantenendo intatti solo i personaggi e l’universo immaginativo.
• what if: racconto riconducibile a un universo immaginativo preesistente, nel quale è importata un’ipotesi narrativa diversa da quella originaria, ma non contradditoria rispetto ad essa.
• missing moments: storia che racconta una parentesi temporale diversa o complementare a quella originaria, ambientata nel suo stesso universo immaginativo. - o fuori dal suo universo immaginativo?
• alternate universe: storia che porta i personaggi di un racconto all’esterno del proprio universo immaginativo.
4. La storia possiede contenuti narrativi secondari per attrarre altri racconti nel suo universo immaginativo? - Out of character: storia che importa in un universo immaginativo preesistente personaggi nuovi o che si comportano in modo inedito e insolito.
- Untold stories
- la storia prevede l’utilizzo di personaggi originali, di protagonisti di racconti preesistenti (cross-over) o di persone reali: vip, personaggi dello spettacolo ecc. (real person)?
Le narrazioni transmediali non nascono per la personalizzazione del consumo né per il my media. Sono al contrario forme di racconto che tendono alla replicazione, alla rivisitazione, all’alterazione e alla co-autorialità. E spingono autori e pubblico a interagire allo stesso tempo tra loro, con il racconto e con tutti gli spazi digitali ulteriori nei quali è possibile fruire la narrazione.
Del tutto indipendenti dal controllo delle major e delle corporate, i fandom costituiscono le audience più attive e originali della “transmedia generation”. Espressione della cultura post-alfabetica che predilige l’intervento attivo nel racconto e l’autoesposizione piuttosto che la comunicazione passiva e orizzontale proposta dai media generalisti, i fandom sono comunità virtuali che affermano un èthos sempre più contagioso nel consumo del racconto contemporaneo. Amano comporre le proprie storie e farle circolare tra conoscitori esperti e appassionati, e il fine dichiarato di ogni loro azione è quello di creare una nuova, personale mitologia immaginativa muovendosi in un’ottica globale e per sua natura transmediale. Esprimendosi soprattutto grazie al Web, i fandom sono alimentati dalla propositività dei loro stessi componenti e utilizzano piattaforme editoriali open source per distribuire le proprie creazioni (artwork) e mantenere vive le loro relazioni. Sperimentano quotidianamente quella che Brenda Laurel definisce foundational narrative, ovvero l’uso di forme di narrazione basate su leggende, cicli narrativi e trame che suggeriscono loro stesse la presenza di ruoli e gerarchie interne a ciascun gruppo, e il volontarismo narrativo è l’istanza primaria della loro comunicazione. I registri linguistici utilizzati spaziano dal serio all’irriverente, dalla parodia al documentarismo e al reportage.